In grazia di Dio

Q Code Magazine è media partner della XIV edizione dello Human Rights Nights International Festival, che si svolge a Bologna dall’8 al 18 maggio 2014. Il tema di quest’anno: le Nuove Povertà. Con un ricco programma di cinema, arte, musica, sport, il festival approfondisce i temi dei diritti negati, della dignità alla vita, dei doveri e responsabilità, del benessere e felicità, del diritto alla cultura e alla cittadinanza.

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di Marilisa Malizia

 

 

18 maggio 2014 – «Il tempo non trascorre invano»: a vedere l’ultimo film di Edoardo Winspeare mi viene in mente il titolo di una raccolta di poesie di una Rina Durante, ancora giovanissima, puntuale narratrice della sua terra, il Salento, le sue faccende umane, i suoi canti contadini. I suoi scritti e le immagini di “In grazia di Dio” hanno lo stesso odore. Ci sono dei mondi che scricchiolano e dei mondi a cui si ritorna. Il tempo trascorre, ma non invano. Di nuovo. È tempo ciclico. Quello della natura, ma anche dei ritorni, quelli umani, che hanno la forza della rivoluzione e che seguono il fallimento.

“In grazia di Dio” è un’espressione che fa respirare, che si sia credenti oppure no. È un film che parla “stretto stretto” quello di Winspeare. A maglie fitte. Forse troppo. Quasi a voler annodare in circa due ore di film le possibili esperienze nella vita di donna: l’inseguire il sogno, anche se su una bicicletta, il fallimento, che non è solo economico, il dare la vita, la violenza, gli amori sbagliati, quelli che non si è avuto il coraggio di vivere, l’aggrapparsi, il desiderio di autonomia, da tutto, di fare da sole, per provare a qualcuno o solo a se stesse di essere abbastanza. Di non aver bisogno di. Anche a costo di perdere la tenerezza.

 

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Costretta dalla crisi e dalla concorrenza cinese a chiudere il piccolo laboratorio tessile a conduzione familiare di cui è titolare, Adele ripaga parte dei debiti verso Equitalia svendendo la casa. Quello che rimane è un pezzo di terra dove si trasferirà con la madre sessantacinquenne, Salvatrice, la sorella Maria Concetta, aspirante attrice, Ina, una figlia ribelle e inquieta. Dalla prospettiva privilegiata di questa piccola società matriarcale, dalla sua vita quotidiana, dai suoi dolori e illuminazioni che la crisi e le possibilità della vita umana sono narrate.

Nomen omen. Salvatrice, nella sua consapevolezza e spregiudicatezza sobria possiede il potenziale di libertà della vecchiaia, quando si può guardare più a fondo, quando si ama per vivere. Da lei arrivano alcune delle immagini più intense del film, le scene di amore salvifico, i gesti di cura, da lei gli inviti ad amare, che sia la terra, che sia una figlia, che sia un uomo, da lei le preghiere a poter continuare a vivere dopo aver desiderato di morire.

«Mi strinse più forte il collo e mi spinse la faccia alla terra. La vedevo adesso la terra, distintamente, non quella massa oscura e confusa che appare sempre a distanza, ma in tutti gli elementi che la compongono: il giallo del tufo, le carcasse grigie dei vermi, miriadi di invisibili radici sottili e tremule come bave di ragno, e il marrone di quella pasta densa e terribile che chiamiamo terra. Infine sentivo il suo odore caldo e rassicurante, antico e lacerante come una ferita, il suo odore, come un lungo mormorio, triste e desolato»(La malapianta, Rina Durante).

I ritorni alla terra sono lenti, lo sguardo della camera tra i muretti a secco e gli uliveti secolari del Salento procede con calma. Ha il passo della distensione, del riprendere fiato. È una straordinaria onestà quella che ci affida Winspeare, e che procede per contraddizioni: la dolcezza della terra, la durezza delle parole, il cielo limpido, l’ombra e la tristezza per quello che si sta perdendo, i grovigli della rabbia, delle parole urlate, disperate. Per amore o per forza.

 

 

E la decrescita non è felice come ci direbbe Latouche. O almeno non è solo quello. La ragazza che ritorna in paese “puzza di merda”. La rabbia è da troppo tempo sedimentata per andare via. Ma almeno inizia ad essere custodita “in grazia di Dio”. La famiglia è luogo di sostegno, ma anche dei conflitti più laceranti.

Il ritorno alla terra non ha la forma dell’edulcorato, non è sempre voluto, mai idilliaco. Fa i conti con le difficoltà, con le inadeguatezze di chi quel ritorno non l’ha scelto, di quelle “classi non egemoni” come le avrebbe chiamate in altri tempi Gianni Bosio che hanno modificato, in parte, il viso, ma di cui si riconoscono le storie di sfruttamento.

E ancora i rosari, le Madonne, varie, il retaggio religioso dalle varie e contrastate forme, le donne puttane, le donne sante, confusamente.

Guardando un film spesso corrono connessioni, associazioni. Difficile stabilire quanto, correndo, ci si allontani dall’idea del/la regista. A quel punto si ha a che fare con il risuonare, tutto personale, del film nel vissuto di ciascuno/a. E allora ci si chiede partendo dallo strano tempo in cui mi capita di vivere come ripensare la ricchezza quando si è perso il denaro e la fonte per guadagnarlo. Non ci si lascia alle spalle la rabbia e la perdita. Sono possibilità per ripensare le ragioni del vivere, per risignificare il mondo, ripensarlo. Ci si riorganizza, si riorganizza il lavoro, lo si ripensa mettendo al centro altre priorità, provando a pensare un diverso ordine, altri nessi.

Si riparte dalla posizione di donna per rifondare il mondo, per custodire le relazioni, conflittuali ma generative, intrecciarne altre. Le protagoniste del film di Winspeare sono dei corpi in carne e ossa che chiedono una vita degna e che ritrovano nella loro storia la strada per sentire i propri desideri e provare a seguirli. Dopo il fallimento, si riparte dai bisogni, da ciò che è necessario alla vita, scardinando binomi, come quello tra denaro e lavoro, poco riusciti.

Risuonano ancora le parole di Rina: «Poi, vivremo anche noi/perché ci basta tanto poco…/un mantello per dormire, un braccio per difenderci,/un sorriso per sfidare/la solitudine e il tempo!»

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