Giornalismo narrativo e “primavera araba”

Marocco: intervista con Fedwa Misk, caporedattrice del web magazine Qandisha, tra femminismo e cultura 

18 maggio 2014 – Medico di formazione, blogger per passione. Fedwa Misk dal 2009 scrive di cultura per diverse testate marocchine e dal 2011 coordina il magazine on line Qandisha, un portale che fa molto discutere in Marocco per la sua capacità di creare dibattito intorno a temi tabù legati alla condizione femminile.

Al telefono per organizzare la sua venuta a Napoli, le chiedo come mai si trovi a Roma: mi risponde che è abituata a viaggiare “come una persona adulta”, poi ride di cuore e aggiunge con un pizzico di provocazione che viaggia da sola “come una vera femminista emancipata”. Alla presentazione del libro Le donne nei media arabi. Tra aspettative tradite e nuove opportunità (a cura di R. Pepicelli Carocci, 2014), dove partecipa in quanto voce protagonista del mio saggio contenuto nel volume (“Telepredicatrici ed attiviste on line in Marocco: la costruzione mediatica del genere femminile tra ideale islamico e libertà individuali”), Fedwa non si sottrae alle domande curiose del pubblico sul cambiamento in atto in Marocco dopo le sollevazioni popolari del 2011, sulla sacralità del corpo delle donne, sulle relazioni di potere in famiglia e in società, sulle libertà individuali, sull’Islam politico.

Rappresenta la generazione di giovani militanti che attraverso la cultura e la libertà di parola contribuiscono all’evoluzione di un paese in cui larga parte della popolazione è ancorata ad un modello patriarcale tradizionale. E nel suo secondo giorno napoletano, mi concede l’intervista che segue…

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Perché hai creato Qandisha nel 2011?

Per necessità. Subito dopo la cosiddetta “primavera araba”, in Marocco, nonostante la modifica della Costituzione [luglio 2011, n.d.t.] che ha sancito l’uguaglianza di genere [art.19, n.d.t.], la vittoria degli islamisti alle elezioni [nel novembre 2011, n.d.t.] mi ha chiamata direttamente in causa per scongiurare passi in dietro nel riconoscimento dei diritti delle donne. In quella fase storica, considerato anche ciò che stava accadendo in Egitto, una svolta oscurantista era possibile anche da noi. Così ho deciso di creare un blog gratuito e aperto a tutti, in cui parlo in prima persona ed in cui invito anche altre donne a farlo. All’inizio si trattava solo di un’idea, di un esperimento… poi grazie a questo semplice invito sono arrivata ad avere 120 collaboratrici! Il primo giorno di lancio del magazine on line speravamo in 100 visitatori, ma abbiamo avuto 10mila visite!

Perché Qandisha?

Qandisha è una figura leggendaria della nostra tradizione dalle origini misteriose. C’è chi dice che sia stata una contessa portoghese molto seducente, chi una combattente sanguinaria demonizzata per la sua brutalità in battaglia. Noi abbiamo colto il lato simbolico di questa donna che mette in discussione la società essendo sicura di sé, autonoma e indipendente.

Il rapporto tra i media e le sollevazioni popolari del 2011 è stato indagato da molti studiosi. Se il web fa parte a tutti gli effetti della sfera pubblica ho l’impressione che il gran potenziale del web sia stato utilizzato dalle donne in maniera duplice: come luogo dove poter rivendicare diritti, denunciare soprusi e organizzare mobilitazioni, ma anche come rifugio, in cui poter condividere i propri problemi in maniera protetta. Cosa ne pensi?

Certo il web è stato ed è per le donne un enorme rifugio. Molte mi hanno scritto ringraziandomi infinitamente, dicendomi di sentirsi meno sole e meno folli nella loro sofferenza. C’era un bisogno atavico di libertà, una necessità profonda di discutere di uguaglianza di genere.

Tuttavia in Marocco esiste una lunga tradizione di stampa dedicata al femminile. Cos’ha di diverso Qandisha rispetto agli altri magazine?

Nel panorama mediatico marocchino, come d’altra parte in quello occidentale, i contenuti dei magazine femminili ruotano intorno alla triade “moda-bellezza-cucina”, che descrive le donne in maniera riduttiva riproducendo stereotipi che limitano la nostra libertà di essere “altro”. Inoltre, spesso questi magazine sono settimanali o mensili, laddove invece abbiamo bisogno di informazione quotidiana, costante, come una sentinella che tenga alta l’attenzione sui nostri problemi ogni giorno.

Quali sono le potenzialità di Qandisha?

Qandisha rappresenta innanzitutto uno spazio di libertà, che non mi sembra affatto poca cosa in un paese in cui la stampa è sotto costante attacco del regime, sebbene in misura minore rispetto al passato. Inoltre, c’è un aspetto militante significativo di Qandisha che si manifesta nella diffusione di campagne e petizioni sul web. Accendiamo i riflettori su alcuni argomenti che sfuggono, in modo più o meno intenzionale ai media mainstream e in questo modo otteniamo due risultati: sensibilizziamo i cittadini sui problemi sentiti dalle donne e mettiamo a nudo le responsabilità della persistenza delle discriminazioni di genere invocando soluzioni politiche e giuridiche urgenti.

E quali sono i suoi limiti?

Come ho detto in un mio recente articolo, Qandisha non è rappresentativo dell’intero universo femminile marocchino. Il 60% delle marocchine sono analfabete. Una grande percentuale di donne non ha la possibilità di accedere ad internet e quelle che si connettono non sono necessariamente tutte femministe!

Qual è il tuo rapporto con il femminismo storico marocchino?

Se oggi la mia generazione gode di un po’ di libertà, è grazie a loro. Noi giovani dobbiamo molto alle femministe che a gran fatica hanno guadagnato spazi di libertà. Tuttavia va riconosciuto che non sono state capaci di evitare l’equazione “femminismo = militantismo arrabbiato”, consolidando l’idea che il femminismo sia antitetico ai valori della famiglia, della società e dell’universo maschile. Con le nuove generazioni hanno commesso l’errore di non riuscire a creare una continuità di militanza, per una modalità comunicativa evidentemente inadeguata ai tempi. E poi troppo spesso sono scese a patti con la Monarchia in funzione anti-islamista…una prassi [che si è poi consolidata nel cosiddetto “femminismo di stato”, n.d.t.] che è risultata lesiva della loro credibilità e della loro indipendenza dal potere.

Quali prospettive esistono a tuo avviso per avvicinare le giovani femministe alla vecchia guardia?

Sicuramente c’è un modo per riavvicinarci e riguarda la capacità di ricostruire un terreno di rivendicazioni comuni. Bisogna continuare a lavorare al di là del framework ideologico e per lo più per obiettivi, che oggi sono contrastare la violenza di genere, promuovere la dignità in ambito lavorativo e garantire le libertà sessuali.

A proposito di libertà sessuali, questo tema rappresenta uno dei grandi assi del dibattito sulle libertà individuali suscitato dal Movimento del 20 Febbraio. Perché il corpo delle donne è ancora sacralizzato dal patriarcato? E qual è il tuo rapporto con la sessualità?

Innanzitutto va detto che personalmente vivo la sessualità in maniera molto serena e sono una single felice! Ma vivo in un paese in cui le relazioni sessuali prematrimoniali rappresentano un reato, in cui la corporalità è repressa e la sessualità si vive in maniera frustrata. Le reti familiari sono molto strette, talvolta soffocanti, e ciò determina un controllo sui corpi delle donne ossessivo. Dunque ciò che si vive, si vive in silenzio. Per questo, per liberare davvero lo spazio pubblico dalle maglie del pensiero oppressivo bisogna partire innanzitutto dal corpo, dal corpo delle donne. Le donne non devono essere soggette né a deliri repressivi, né agli imperativi dell’estetica: devono avere il diritto di essere semplicemente se stesse, di avere diritto di scelta nel modo di esprimersi.

Qual è il tuo rapporto con il potere centrale?

Lo stato esiste per svolgere funzioni di regolamentazione della vita dei cittadini. Senza di esso vi sarebbe un regime di anarchia o di tribalismo. Non sono contraria allo stato, se per “stato” si intende una macchina garante delle regole del gioco democratiche. Certo, qui in Marocco non c’è democrazia. Ma grazie al Movimento del 20 Febbraio in Marocco c’è stato un risveglio democratico, in cui i più giovano hanno partecipato in maniera dirimente. Oggi non si ha più paura del potere e ci si impegna di più politicamente, laddove la politica non è intesa soltanto come attività all’interno dei partiti, ma come l’esercizio della cittadinanza. Spero che di questo beneficerà anche il nostro stato, ma forse i primi risultati in tal senso si vedranno tra dieci o venti anni…

Come consideri le donne islamiste al potere?

Non condivido con loro l’idea di sottomissione totale delle donne al dovere familiare e al lavoro di cura domestico. Il Ministero delle donne, della famiglia e della solidarietà, già dal solo nome induce ad associare le donne alla famiglia. Questo è sbagliato! Perché la donna dev’essere vincolata al suo ruolo di madre, sorella e moglie? Senza famiglia una donna non ha diritto ad avere diritti? Io sono single e allo stesso tempo responsabile della mia vita. Pago le tasse e se commetto un errore vado in carcere come un uomo. Perché non devo avere i suoi stessi diritti? Personalmente non ho bisogno di essere madre, moglie o sorella di nessuno. La cittadinanza non dovrebbe avere genere. Pertanto mi sento femminista, per la mia assoluta indipendenza.

Come definiresti allora la cittadinanza?

Distinguo la cittadinanza dal patriottismo, dal nazionalismo e dal senso civico, che sono altra cosa. Per me essere cittadini significa vivere in comunità nel rispetto di questa comunità; accettare una vita comune nel rispetto degli altri e in armonia con il sé; pensare all’altro come pensiamo a noi e vegliare sul rispetto della vita di tutti. Coltivare il pubblico, come il privato. Ecco: essere cittadini significa pensare plurale, rispettando i valori imprescindibili di libertà, uguaglianza e giustizia.

Qual è il tuo rapporto con il femminismo occidentale?

Le donne occidentali hanno sempre rappresentato un riferimento importante per noi donne dei paesi a maggioranza islamica. E ciò per la semplice ragione che sono riuscite a vedere riconosciuti alcuni diritti che per noi sono ancora lontani: per questo rappresentano a mio avviso un esempio. Tuttavia sono contraria alle visioni coloniali che vogliono imporci determinate traiettorie emancipatorie, perché sono convinta che ognuno abbia il diritto di ricercare la propria strada per l’emancipazione e su questo non vogliamo lezioni da nessuno. Allo stesso tempo mi chiedo cosa stia accadendo in Occidente: in Spagna, ad esempio, il diritto all’aborto non è più riconosciuto e qui in Italia è molto difficile praticarlo, anche se è previsto dalla legge. Allora mi chiedo: dove sono le femministe? Forse le donne occidentali, ed europee in particolare, dovrebbero svegliarsi, perché i loro governi stanno facendo dei seri passi indietro! Altra cosa che mi lascia perplessa è un certo conformismo che riguarda anche le femministe occidentali: se le donne smetteranno di aspettare che un uomo le chieda in moglie, allora forse potremo parlare di vera liberazione femminile anche in Occidente.

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Come ti poni rispetto alla questione Amazigh (berbera)?

Si potrebbe dire che in Marocco siamo tutti Amazigh, perché il nostro popolo deriva dalla colonizzazione araba, realizzata ad opera di guerrieri che qui hanno generato intere generazioni con donne Amazigh. E poi sono molto legata alla concezione delle relazioni di genere della cultura Amazigh ispirata al rispetto delle donne e del loro ruolo in società. Basti pensare che alla guida degli Amazigh anticamente c’era Kahina, donna coraggiosa e capo di stato…

Sei ormai nota per la tua attività e sei un riferimento per molte “qandishates”. C’è qualcosa che ritieni di aver imparato da quest’esperienza?

Innanzitutto ho imparato e imparo ogni giorno che, sebbene il machismo sia molto radicato in Marocco, non tutti gli uomini sono machisti ed anzi ho molti sostenitori tra gli uomini! Spesso rappresentano la maggioranza degli autori dei commenti ai miei post e la loro partecipazione attiva mi aiuta a mettere in luce aspetti dei dibattiti che un dialogo tra sole donne trascurerebbe.

A quali riferimenti ti ispiri?

Mha…se ti riferisci a Simone de Bauvoir e simili, posso dire con tutta tranquillità che io non cito mai nessun intellettuale. Parlo alle donne in ciò che le tocca direttamente e questa forse è stata la chiave del successo di Qandisha. Se cito una frase, un concetto, un’espressione, molte donne – ma ovviamente non tutte – possono capire; ma se parlo loro di un problema, tutte possono sentirlo. E questo credo sia molto più importante di un esercizio intellettuale. Quando parlo di violenza di genere, di molestie sessuali, le donne sanno a cosa mi riferisco perché l’hanno vissuto o sanno che potranno viverlo. Le donne dei contesti più popolari, poi, non se ne fregano nulle delle femministe intellettuali… Loro si confrontano con la povertà, con le violenze… Qandisha parla di pancia e gli articoli migliori sono racconti di vita.

Il tuo è quindi una sorta di giornalismo narrativo?

Si, potremmo definirlo in questo modo. Incoraggio la presa di posizione soggettiva attraverso la redazione di articoli d’opinione più che di pezzi di “giornalismo classico” o di cronaca. Ad esempio, in una recente campagna contro il razzismo diretto nei confronti delle persone dalla pelle nera, anziché parlare dei numeri, dei dati statistici o del problema in generale, ho raccontato una mia esperienza diretta riguardante la mia cara tata. Ho raccontato il modo in cui veniva discriminata per il suo colore della pelle e ricostruito la sua sofferenza nella sua stessa esperienza di vita. Credo che iscrivere l’oggetto di un articolo nella vita personale sia più efficace per raggiungere il pubblico. Anche perché se delle idee possiamo discutere, con le sensazioni possiamo solo empatizzare. Le mie sensazioni non possono essere giudicate! Perché sono mie…

Resto piacevolmente colpita dal ritmo con cui Fedwa rilancia idee, aneddoti, battute, riflessioni sul sé. Mi racconta che da piccola era molto timida e alle riunioni di famiglia i cugini le chiedevano insistentemente di parlare. Ma lei continuava a tacere. Oggi la guardano straniti, considerandola quasi un’altra persona, mi confida. Ma riconosce di aver vissuto a lungo in un mood riflessivo, mentre oggi si sente “in una fase più espressiva”. Difficile arrestare il suo flusso di parole. Fedwa sembra quasi una Pandora che ha appena scoperchiato un flusso inarrestabile di rivendicazioni di libertà. Un motore indomabile. Qandisha.

 

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