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Vivere da rifugiati e richiedenti asilo a Brescia – quarta puntata

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testo di Christian Elia, foto di Livio Senigalliesi

REPORTAGE REALIZZATO GRAZIE AD AMBASCIATA DELLA DEMOCRAZIA LOCALE A ZAVIDOVICI 
 WWW.LDA-ZAVIDOVICI.ORG

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“Non sarà che lei è solo una vittima 

che vende il suo trauma?

Mi ha chiesto una biondina di Harvard

Il cui cervello è valutato mezzo milione.

In inglese non lo sapevo dire.

Si rende conto di avere tutte le ragioni?

Nove morti, il sangue che esce dalla membrana del timpano,

quel dimenarsi tra i proiettili.

Tutto sta nella parola trauma.

E questo, si, non sapevo dire in inglese,

ho paura,

è l’unica cosa che vale tra quelle che ho”.
tratto da Trauma Market, di Adisa Basic

La lotta per i diritti

30 maggio 2014 –  Chi ha scelto la conflittualità della quale parla Gobbi, per ottenere il riconoscimento dei diritti dei rifugiati, è l’associazione Diritti per Tutti. La sede è nel quartiere Carmine, multi culturale, memoria migratoria, prima dall’Italia meridionale poi dal meridione del mondo. Pamela è una degli attivisti del gruppo.

“L’associazione nasce dopo l’esperienza della battaglia del 2000 con l’occupazione di Piazza della Loggia, da parte di un gruppo che già si impegnava sul tema dei diritti. Facendo anche uno sportello auto gestito, diverso da chi lo fa di mestiere, per informare le persone. Si occupa di tutti i casi di discriminazione più o meno evidenti a Brescia, fino alla lotta della gru. Quello che ci caratterizza è che assieme a dare informazioni e solidarietà, pratichiamo partecipazione per lottare per i diritti. Dall’informazione all’assistenza, fino alla denuncia e alla battaglia. Abbiamo avvocati, ma vogliamo anche spiegare perché certe cose succedono e combattere per cambiarle. Le lotte son state tante, dalle assurde ordinanze cittadine contro il cricket e il cibo nei parchi, fino alla lotta per bloccare gli sfratti. All’inizio, ai tempi di Montecampione, non li abbiamo seguiti molto, se non con qualche iniziativa di solidarietà. Poi da ottobre 2013, con il freddo, hanno iniziato a contattarci. Anche in questo caso, per certi versi, rappresentiamo l’ultima spiaggia: dopo i sindacati e le istituzioni, dopo le associazioni e i progetti, dopo le mense e i dormitori, vengono qui. Quando non trovano delle risposte. Perché sanno che se c’è da occupare una casa non ci tiriamo indietro. Alcuni venivano da altre occupazioni, hanno chiesto degli incontri, prima dieci poi venti persone. Abbiamo dato vita a una serie di riunioni, per un mese, per capire e conoscerli. Occupare una casa e andare via dopo il rinnovo dei documenti non serviva a niente, bisognava capire se c’era un percorso. Il 15 novembre abbiamo occupato lo stabile in Via Marsala, in centro, un immobile all’asta”.

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“Abbiamo scelto il Carmine per la sua storia e per la solidarietà dimostrata all’epoca della gru. Ai 15-20 ragazzi che hanno occupato si sono aggiunti altri, ma siamo rigidi, con elasticità. La casa era malmessa, bisognava valutare l’immobile vivendoci. Molti volevano venire. Ora sono trenta, che è il massimo della capienza. Chi ha rinnovato, magari parte in cerca di lavoro e cede temporaneamente il suo letto ad alti. Tutto viene gestito con una modalità assembleare, ogni lunedì sera ci riuniamo e ne parliamo. Si è arrivati a questa forma di lotta per tanti motivi. La chiusura di Ena è stata vergognosa: persone cui spettava l’aiuto e in condizioni di dipendenza, si trovano liquidati con 500 euro, che alcuni sostengono di non averli ricevuti, ma è stato difficile indagare. Il tavolo della Prefettura ha salvato i vulnerabili, ma gli altri? Sui treni, in giro, senza aver mai potuto scegliere. Sopravvissuti, al mare, alla Libia, ma ora senza una speranza. Noi non volevamo sostituirci allo Sprar. Noi possiamo accompagnarli nella lotta per i loro diritti, come quello della residenza. Noi gli abbiamo detto sempre tutto, con chiarezza, lasciandoli liberi di scegliere se aderire o meno a certe modalità di conflitto. Ci accusano di strumentalizzarli, ma ognuno sceglie. Certo la partecipazione è importante. Le occupazioni sono un percorso di lotta da fare con coloro che ne sono consapevoli e partecipi. Possiamo sostenere altre occupazioni, ma solo politicamente, noi non siamo welfare, non assegniamo alloggi popolari. Io non ho il problema della residenza. Siamo chiari nel dire che è la loro battaglia. Che diventa, in un mondo globalizzato, la lotta di tutti. Ognuno deve poter scegliere dove vivere, soprattutto se in fuga dalla guerra. Questo sistema prima li riconosce, poi li abbandona. Non vogliamo l’assistenzialismo, ci deve essere un ricambio negli Sprar, ma poi non va bene mollarli. Vogliamo chiedere conto, non puntellare il welfare. Anche perché in certi casi servono professionalità specifiche, non volontari. Sono supplenze, ma non so fino a quando basterà. A noi interessa mettere tutto assieme, persone e diritti”.

“Va superata la Bossi-Fini, che lega il permesso al contratto di lavoro, con la militarizzazione delle frontiere. E non solo per un aspetto umanitario, ma politico, perché queste scelte ricadono anche sui cittadini italiani nel momento in cui qualcuno, ridotto alla disperazione, per sopravvivere lavora a tre euro all’ora. Non ci battiamo per buonismo, non siamo solo anti razzisti: la clandestinità ci frega tutti. L’erosione dei diritti va fermata, tutti assieme. Rispetto a realtà che scelgono un metodo differente dal nostro non mi sento di condannare nessuno. Non ci siamo mai seduti assieme, ma ci sono contatti quotidiani. Sulla residenza vogliamo coinvolgere, per esempio, altre realtà, in una battaglia comune per arrivare a quello che è stato fatto a Torino. Altri lo fanno per lavoro, è diverso. Ma ci son battaglie comuni. Ovvio che nel passaggio dalla gestione della Protezione Civile al privato sociale tutto è migliorato, ma non puoi decidere fino in fondo all’interno di quel sistema. Il confitto, a volte, è necessario. Sono d’accordo sul contrastare un assistenzialismo fine a se stesso, ma tra 500 euro e l’abbandono e l’assistenzialismo ci sarà una via di mezzo”.

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   Il condominio occupato di via Marsala lo individui guardando in alto, come a cercare un numero civico. La palazzina sembra ben messa, anche se all’interno sono visibili i segni dell’incuria e dell’abbandono di tanti anni. Fa caldo. I ragazzi, tra i 40 e i 20 anni, sono inchiodati davanti alla televisione. L’ambiente è caldo, un riparo dal vento freddo che soffia fuori. Ma poco altro. Solo che in certe vite, caldo e freddo, tetto e pareti assumono un significato che tanti hanno potuto dimenticare: quello della sopravvivenza.
L’Associazione Diritti per Tutti è protagonista anche di un’altra occupazione, quella delle cosiddette Casette. Uno di quei luoghi sospesi delle città contemporanee, che rendono sempre l’idea di periferie tutte uguali, come se si guardasse sempre la stessa, brutta, fotografia. A Brescia chiamano Casette i vecchi prefabbricati che l’Astaldi, impegnata nella costruzione della discussa metropolitana di Brescia, aveva impiantato nel quartiere Sant’Eufemia per alloggiare i suoi operai. Grande impresa edile, sono strutture cui mancava solo l’anima per essere una casa. Servizi, riscaldamento, infissi, luce e acqua corrente. L’anima, dal 25 aprile scorso, l’hanno portata le persone – italiane e straniere – che l’hanno occupate. Perché l’Astaldi è andata ormai via, a cantiere finito, e per risparmiare il denaro della smobilitazione o per spirito civico aveva deciso di regalare queste Casette al Comune di Brescia. La precedente amministrazione ha rifiutato, così prima che venissero sbaraccate tutte, un gruppo di persone le ha occupate con il sostegno politico di Diritti per Tutti. Che organizza la gestione assembleare e comunitaria della struttura.

Tra gli occupanti c’è Armand. Lo noti subito, non solo per la stazza imponente. Una quercia nera, che sembra a suo agio in assemblea, come fosse il luogo naturale dove stare. Un italiano fluente, una dialettica pungente.
“In Camerun studiavo Giurisprudenza e militavo nei Giovani Progressisti, una formazione politica che si batte per il cambiamento politico di un paese che da trenta anni è nelle mani dello stesso presidente, Paul Biya. Nel 2008, per l’ennesima volta, ha modificato la Costituzione per garantirsi un altro mandato. Ho preso parte alle proteste degli studenti universitari, mi hanno arrestato e malmenato, dopo il rilascio mi hanno arrestato ancora. Sono stato in carcere cinque volte, non ne potevo più. Le mie condizioni di salute, rapidamente, sono peggiorate. Per me era tempo di fuggire: grazie al passaporto di un amico, via Gabon, sono arrivato in Marocco. Ho dato la metà dei soldi che avevo per arrivare in Spagna, ad Almeria. Mi hanno portato a Barcellona, in un centro gestito dalla Croce Rossa, ho fatto richiesta di asilo ma i campi erano pieni, avevano la precedenza somali e sudanesi. Ho due figli in Camerun, volevo iniziare a lavorare, ero disperato. Grazie a un amico ho provato a venire in Italia, dove sono arrivato a gennaio 2012. Brescia, prima, poi Breno. Non avevo scelta, non potevo decidere io dove andare. Per sedici mesi sono stato nel circuito Sprar: il corso di italiano, un corso di ballo, vari laboratori. Condividevo un appartamento, ma ho avuto problemi: necessitavo di una dieta speciale, per i miei guai di salute, ma potevo sembrare un privilegiato e mi hanno spostato. Ho protestato, mi sono lamentato. Non capisco questo sistema, non lo capisco proprio. Ma perché devo essere trattato come un bambino, perché non posso fare la spesa da solo. Ho iniziato a convincere gli altri a protestare, ma sono tutti molto impauriti da tutto, silenziosi. Credo che un sistema che funzionasse per davvero, dovrebbe avere un’analisi dei casi singoli, un profilo personalizzato. Per spendere meglio i soldi, non solo per farci contenti. Con un corso di cucina non divento chef, ma se magari prendo la patente posso darmi da fare e trovare un lavoro. Vorrei essere coinvolto nelle scelte che mi riguardano, è un mio diritto. Sono fuggito per la libertà, non accetto di non essere parte delle scelte che riguardano la mia vita. Credo di aver seccato molte persone, non mi viene riconosciuta la vulnerabilità dovuta alla mia malattia. Il 25 aprile ho occupato con gli altri le Casette. Credo per i proprio diritti bisogna lottare, italiani e stranieri. Sono riuscito a far arrivare mia moglie, ma non può stare con me, perché riesco a malapena a sopravvivere con dei piccoli lavoretti e lei non può stare qui. Non capisco il senso dell’Europa per la giustizia e i diritti umani, vorrei chiedere alla Corte dei Diritti Umani perché alla protezione non viene dato un profilo personale, che permette anche a noi rifugiati di essere parte del nostro destino”.

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A caccia di futuro

   La giornata dei rifugiati che sono fuori dai percorsi di inserimento è come scandita dai pasti.
Un pranzo e una cena, la differenza tra lo stomaco vuoto e quello pieno. Una vita ridotta ai bisogni essenziali. Quelli che la Caritas prova a soddisfare, con le sue strutture, come spiega il responsabile Stefano Savoldi.
“Durante l’Ena non ero ancora qui, ma il lavoro che è stato fatto era finalizzato a dare una possibilità per il futuro. Si è data priorità all’insegnamento della lingua italiana, ma abbiamo anche aggiunto un corso di informatica. Un bilancio che non può essere positivo, per tanti motivi. In primo luogo la risposta alberghiera all’emergenza non funziona. Poi, per chi prova a fare un percorso, si incontrano enormi difficoltà: la città vive un periodo molto difficile, anche per le famiglie italiane. Un progetto di vita, di lavoro, come abbiamo tentato con l’inserimento lavorativo nell’ambito della panificazione, non è facile per i rifugiati come per nessuno. E i fondi non sono più quelli di un tempo, per nessuno. Il tavolo della Prefettura è di sicuro un buon elemento, quello va sostenuto e partecipato. Per il resto i nodi gordiani di questa situazione sono almeno tre: la regolamentazione di Dublino II andrebbe rivista, per evitare di alimentare l’illegalità, come ormai dovrebbe essere chiaro che la Bossi-Fini non funziona, diventa un elemento di accanimento burocratico, che stressa gli stranieri come gli operatori del settore, infine bisogna puntare sul terzo settore, con piccoli progetti, nei comuni. Per quanto ci riguarda si fa quel che si può: ci sono venti posti letto, divisi a metà tra italiani e stranieri, una mensa che riesce a dare più di duecento pasti, un camper che non è direttamente in capo a noi ma a un’associazione vicina alla Caritas che distribuisce cibo la sera. Anche altre iniziative, ma i problemi sono tanti e le risorse poche”.

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Cala la notte su Brescia, una giornata finisce, calando il sipario su vite sospese e vite ‘normali’. La frenetica attività attorno alla stazione rallenta, lentamente chiudono i negozi di kebab, grandi e arredati come a Islamabad, con la televisione satellitare che trasmette pezzi di passato e di casa lontana. Chiudono i market alimentari multietnici, che ti danno l’idea di poter trovare tutti gli ingredienti del mondo, tranne la ricetta del vivere tranquilli.
Poco prima e poco dopo la mezzanotte, sui binari in fondo alla stazione, quelli meno usati, lentamente si vedono figure avanzare nella notte. Quasi tutti portano sacchetti di plastica, qualcosa da mangiare o da bere. Comincia a far freddo.
I treni sono vecchi, con le porte a scorrimento, si aprono a fatica. Ma si aprono. Le persone s’infilano veloci, in cerca di un rifugio per la notte. Italiani, tanti, e stranieri. La notte e il freddo, però, rendono qualsiasi differenza un futile dettaglio. K. è uno di loro.
Nel vagone, in lontananza, nella luce incerta della notte, si sentono voci, molti anche gli italiani. Non si vedono volti, come fantasmi.
“Vengo dalla Libia, ci vivevo da anni, da quando ero ancora un ragazzo. Non sono fiero di quello che ho fatto in Libia, ma in Niger era troppo pericoloso, con la ribellione Tuareg e i conflitti tribali. In Libia ho vissuto e lavorato, in un corpo di polizia composto da stranieri. Ricordare quegli anni è doloroso, mi occupavo di migranti come ero stato io stesso anni prima, non andavamo leggeri con loro. Era quello che ci dicevano di fare, lo facevamo, non volevamo essere espulsi nel deserto. Era per sopravvivere. Poi è arrivata la guerra, nessuno se l’aspettava. Ho dovuto combattere, mi battevo perché sentivo che sarebbe cambiata la mia vita. Alla fine ci hanno imbarcato per Lampedusa, e sono arrivato fino a Brescia, dopo lo Sprar mi son ritrovato a dormire sui treni. Credo che dovremmo lottare per i nostri diritti, io voglio lavorare, mi do da fare in un ristorante, mi trattano bene, ma i soldi non bastano mai. Ho una ferita di guerra, la gamba è compromessa. Non mi arrendo però. Credo che il senso della vita stia nel segno che lasci del tuo passaggio. Voi avete perso alcune cose, da voi i poveri si vergognano della loro condizione. Io non mi vergogno, chiedo solo di non essere invisibile”.

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