L’altra metà

[author] [author_image timthumb=’on’]https://fbcdn-sphotos-b-a.akamaihd.net/hphotos-ak-prn2/208826_10151525732097904_583330344_n.jpg[/author_image] [author_info]Leonardo Brogioni, fotografo, fondatore di Polifemo. Per QCodeMag autore della rubrica HarryPopper[/author_info] [/author]

 

2 giugno 2014 – Cento anni fa, il 26 maggio 1914, moriva il fotografo e giornalista Jacob Riis.

Non fu un artista e neppure un grande fotografo, ma il suo lavoro è entrato nella storia.

All’ingresso del Riverside Cemetery a Barre nel Massachusetts, una piccola lapide avverte che all’interno si trova la sua tomba: un masso stondato di granito, privo di scritte. Grezzo, freddo, senza fronzoli, senza riferimenti religiosi, anonimo, quasi invisibile: proprio come un fotogiornalista.

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Riis era danese ed emigrò negli Stati Uniti nel 1870 all’età di 21 anni. Dopo aver svolto diversi lavori scoprì la sua vocazione e capacità di giornalista. Venne ingaggiato come cronista e si occupò fin da subito dei quartieri più poveri, malfamati e ad alto tasso di criminalità della città di New York. Presto trovò nell’allora neonata fotografia un mezzo per raccontare in modo efficace lo squallore dei bassifondi da lui quotidianamente frequentati. Grazie all’aiuto di amici e colleghi mise a punto la tecnica di illuminazione con il flash alla polvere di magnesio, utile e a quel tempo unico modo per riuscire a riprendere ambienti sordidi e bui. Riis poneva la polvere su una tavoletta dotata di impugnatura, toglieva il tappo all’obiettivo della sua fotocamera, incendiava la polvere provocando un lampo che illuminava il luogo e richiudeva l’obiettivo con il suo tappo. Metodo primordiale ma che fece di lui il primo americano a scattare fotografie con il flash.

Esperienza giornalistica, conoscenza del territorio, contatti consolidati, padronanza tecnica e metodo di lavoro gli consentirono di dedicarsi con scrupolo alla documentazione fotografica degli slums di New York: quartieri popolati prevalentemente da immigrati come lui, la cui condizione conosceva bene per esperienza diretta. Il risultato di quell’indagine fu il libro How the Other Half Lives: Studies among the Tenements of New York, pubblicato da Scribner’s Books nel 1890. “Come vive l’altra metà” è un titolo tratto da un brano del Pantagruel di François Rabelais, che scrisse: la moytié du monde ne sçait comment l’autre vit, una metà del mondo non sa come vive l’altra metà. Questo fu l’intento di Riis, quello di mostrare all’opinione pubblica non solo le drammatiche situazioni dei quartieri bassi, ma anche le condizioni di lavoro all’interno di scantinati o stabilimenti dove la manodopera veniva pagata solo pochi centesimi al giorno e il lavoro minorile era pratica diffusa.

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Come la sua tomba, le immagini di Riis sono grezze, dirette, talvolta fredde; è palpabile la volontà di “portare a casa la foto” più che l’attenzione al linguaggio o all’estetica. D’altronde era un pioniere di una disciplina appena inventata e l’importante era avere l’immagine.

La storia gli ha dato ragione: il libro ebbe subito successo, il New York Times lo definì “un libro potente” e quelle fotografie ebbero un fortissimo impatto emotivo sui lettori.

Gli effetti della sua pubblicazione furono l’abbattimento degli edifici più fatiscenti di New York, la lotta allo sfruttamento della manodopera, la riforma delle scuole della città, il miglioramento nelle infrastrutture del Lower East Side con la realizzazione delle fogne, l’istituzione della raccolta dei rifiuti e la costruzione di impianti idraulici nelle case. Il tutto a seguito della reazione dell’opinione pubblica. Per la prima volta nella storia un lavoro fotografico contribuì al miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini.

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