The secret life of Earth

La vertiginosa, rischiosa interazione tra uomo e natura, nella lettura antropologica che emerge dall’intervista con Jay Wolke, artista visivo e docente presso il Dipartimento di arte e design del Columbia College a Chicago

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/12/foto-Simona.jpg[/author_image] [author_info]di Simona Chiapparo. Ama i piccoli animali e, soprattutto, l’arte contemporanea.  Non ha artisti preferiti, ma adora tutto ciò che si occupa di spazi umani e spazi urbani. Crede che le aperture del corpo e le aperture del senso siano le medesime. Combatte per la resistenza alla bio-mutazione. [/author_info] [/author]

8 giugno 2014 – Esaurita la retorica confezionata delle celebrazioni mass-mediatiche per la vittoria italiana ai premi Oscar, nel medesimo Paese che ha grottescamente compianto, auto-compiacendosi, la inevitabile estinzione della grande bellezza, è prossimo ad essere discusso, in Senato, dopo l’approvazione alla camera, il Disegno di Legge 1345 sui reati ambientali che si configura – come debitamente segnalato da Peacelink – quale sanatoria per chi sarà accusato di tali crimini.

Inconscia ed abulica collusione con la devastazione del territorio e della sua gente che, dagli anni Cinquanta in poi, unisce il fu Bel Paese, in un reticolato polimorfo di opere incompiute, connivenze stato-mafia e registri oncologici occultati, il quale altro non è che la dimostrazione tangibile di quelle logiche di potere che l’uomo costruisce e subisce.

In questo scenario, l’artista Jay Wolke intraprende – tra il 2000 e il 2007 – un viaggio nel Sud Italia, documentando le aberrazioni architettoniche, paesaggistiche (ed umane) di città siciliane, lucane, campane, arrivando fino a Roma. Un Gran Tour al contrario che, per ironica legge del contrappasso, gli consente di perfezionare le sue conoscenze sulle dinamiche dello sviluppo del pianeta, così come nel XVII secolo consentiva ai giovani aristocratici europei di completare la propria formazione umanistica.

Un vero e proprio viaggio al termine dell’umano, in cui Wolke – sulla scia di Immanuel Kant – si imbatte nel sublime della natura e ne recepisce appieno il messaggio che, con sobrietà ed empatica determinazione, si impegna a condividere e a divulgare. Come nel visionario “Snowpiercer”, opera cinematografica del coreano Bong Joon-ho, la serie fotografica “Architecture of resignation” di Jay Wolke conduce lo spettatore ad esplorare i luoghi surreali e perturbanti, in cui si conservano le cicatrici distrofiche ai paesaggi italiani del Meridione. Per essere proiettato nei labirinti biopolitici della odierna globalizzazione, in cui fra tossiche ricorsività ed effimere inconsapevolezze,  si scopre responsabile (e colpevole) delle sorti dell’intero pianeta.

Secondo la sua esperienza come artista e come educatore, quale ruolo dovrebbe avere lo spazio pubblico per il benessere delle società umane?

Credo che lo spazio pubblico rappresenti una curiosa dialettica, in grado di facilitare contemporaneamente sia i rituali condivisi di gruppi sociali che i comportamenti soggettivi dei singoli individui. Un insieme di monumenti e di marcatori manifesti può essere in grado di stabilire quali eventi e azioni debbano essere oggetto di una performance collettiva, ma è la variabilità della nostra volontà collettiva che consente agli individui di assegnare un valore normativo a tali indicazioni.

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 Melted Tower, Palermo, Sicily (2000)_”Architecture of Resignation” series

Gli spazi pubblici concedono anonimato e introversione, così come consentono di esprimersi e di manifestarsi (questa contraddizione è stata spesso oggetto di mie fotografie). I confini fisici e concettuali degli spazi pubblici spesso hanno maggiori qualità di porosità e di adattamento rispetto a quelli degli  spazi privati​​.

A tal riguardo, credo che sia compito dell’artista verificare e sperimentare i confini degli spazi pubblici, elicitando un dialogo che possa introdurre una maggiore capacità di espressione soggettiva, all’interno degli spazi comuni condivisi, oltre che rigenerando i parametri sottesi a prassi sociali consolidate. Questo soprattutto negli spazi virtuali, in cui la dimensione pubblica e quella privata sono quasi completamente collassate.

Qual è il modello geometrico alla base dei suoi lavori?

La mia ricerca verte su linguaggi e comunicazioni visive. Dal momento che le fotografie sono qualcosa di completamente costruito ed illusorio, personalmente mi sono impegnato in un processo che fosse di creatività, non di finzione. Questa scelta mi ha condotto ad una complessa relazione tra sottotesto, contenuto e forma e questa relazione è la retorica e la grammatica che tessono la nascita di ogni mia immagine. Le diverse strategie compositive che utilizzo mi consentono di esprimere non solo l’insieme di artefatti rappresentati, ma anche le dinamiche morfogenetiche sottostanti la disposizione contingente degli elementi descritti. Le gerarchie di spazi e di colori, la luce, le gradazioni e le diverse soggettività sono gli strumenti grazie ai quali i miei lavori sono impregnati di senso e risonanza. Ad esempio, l’uso di geometrie diagonali rafforza l’espressione di azioni nel tempo, piuttosto che limitarsi semplicemente a ritrarre oggetti nello spazio, rappresentando verbi e non semplici sostantivi.

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Church w. Palms, Marsala, Sicily (2000) _”Architecture of Resignation” series

 Inoltre, cerco di far in modo che i miei lavori abbiano una voce, quasi come se fossero in grado di comunicare a quale “distanza” inizi il coinvolgimento desiderato con lo spettatore. L’inquadratura stretta accanto ad una  stringente prospettiva se da un lato induce ad una forte intimità, d’altro canto invita ad  una maggiore distanza dai soggetti  fotografati, così che possa emergere una ulteriore gamma di relazioni, grazie alle quali esaminare l’opera anche in modo più neutrale.

Da artista qual è la sua relazione con la natura?

Nel mio lavoro, ho sempre dedicato una consapevole attenzione alla inevitabile interazione che si stabilisce tra ogni azione umana e i sistemi naturali. Molte delle immagini del ciclo Architecture of resignation  ritraggono architetture abbandonate, dismesse e in rovina, a causa dell’endemica corruzione delle amministrazioni pubbliche e della inveterata abitudine politica ed urbanistica di investire in progetti mai portati a termine. Eppure, gli elementi naturali circostanti tali costruzioni spesso fungono da parametro, grazie al quale le difformità architettoniche possono essere chiaramente misurate.

Il mio approccio ad un particolare insieme di elementi paesaggistici o architettonici consiste, in genere, in un’esplorazione da condurre attraverso l’individuazione di cardini centrali di ancoraggio. Questi punti di riferimento possono essere sia antropici che naturali ed è la discordanza tra loro a generare quel livello di risonanza che pretendo dalle mie immagini. In molte delle mie fotografie, faccio in modo che risultino fusi insieme sistemi antropici e sistemi naturali, fino al punto in cui eventuali differenze fra loro divengano puramente di superficie: così accade che sono gli elementi naturali ad essere vittima di una dislocazione e di una deformazione.

Un buon esempio di questo mio approccio è rappresentato, in particolare, da una fotografia che mostra i resti di una collina, inizialmente scelta come cava  per effettuare estrazioni e successivamente abbandonata che, nel corso dei secoli, ha generato una vera e propria scultura rappresentante la scomparsa di quello che, in passato, era un carattere naturale del paesaggio.

jay Wolke_3R Quarried Hill, Matera, (2000) _ “Architecture of Resignation” series

L’incongruenza risultante da questo manufatto illustra perfettamente gli abusi che abbiamo perpetrato sul paesaggio naturale: ho voluto creato un’immagine che potesse innescare – mi auguro – un’indagine critica e una riflessione su tutto questo.

Architecture of resignation”  è un titolo emblematico, crede che la nostra rassegnazione sia più forte delle leggi di natura?

Un famoso comico americano,George Carlin, una volta disse che probabilmente gli esseri umani sono stati collocati sulla Terra solo per creare plastica; eppure la Terra sarà in grado di divorare e di riutilizzare tutte le nostre disastrose produzioni, anche quelle che oggi sembrano irrisolvibili. Magari arriveremo a distruggere la nostra stessa specie, ma a lungo andare la Terra quasi non si accorgerà della nostra scomparsa. I sistemi naturali riusciranno ad includere e a superare anche i più grandi disastri che riusciremo a causare.

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Military Trench, Sicily, (2005)_”Architecture of Resignation” series

Quando uso il termine “architettura”, mi riferisco non solo ai manufatti che popolano l’ambiente edificato, bensì anche alle architetture psicologiche, sociali e politiche che abbiamo costruito al fine di giustificare la creazione di tali manufatti. La nostra rassegnazione agli abusi del potere rappresenta quella cronica dissonanza cognitiva che definisce la nostra cultura del consumo e dell’abbandono. Fino a quando non abbracceremo pratiche di progettazione sostenibile e modelli di gestione responsabile, sia delle risorse ambientali che della nostra specie,  la rassegnazione sarà inevitabile.

Quali potrebbero essere le conseguenze evolutive per l’umano, di queste architetture della rassegnazione?

Non essendo uno psicologo dello sviluppo, è difficile per me parlare degli effetti evolutivi derivanti dalla rassegnazione che ha spesso caratterizzato le reazioni umane nei confronti degli abusi del potere.

Questi stati di rassegnazione sono così pervasivi, da farmi temere che la volontà collettiva di un cambiamento non riuscirà mai ad opporsi allo schiacciante predominio di logiche di potere basate  sullo sfruttamento e sulla prevaricazione. Da una prospettiva evolutiva, potrebbe essere che quello che una volta era una strategia necessaria per sopravvivere e riprodursi, in ultima analisi, ci distruggerà.

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Roman Mausoleum Ruins Mattress, Via Appia, (2007)_ “Architecture of Resignation” series

Le mie fotografie si confrontano con la tracotanza e con la bramosia, con la presunzione del significante di fronte alla banalità. Le mie immagini raccontano storie sull’ascesa e sulla caduta di diverse categorie di potere (da quelle coloniali a quelle politiche e commerciali) così come delle ispirate, ma spesso vacillanti, invenzioni di individui ambiziosi. Credo che il tema principale del mio lavoro sia la persistenza di queste dinamiche nel corso della storia: seppure espresse in forme che possono cambiare, le condizioni soggiacenti rimangono le medesime.

Le sue opere nascono da una metodologia fortemente empirica e sperimentale, ritiene possa comunque esserci una visione spirituale alla base della sua ricerca?

La mia ricerca fotografica è, in primo luogo, un esame critico del mondo fisico; il mio obiettivo principale è quello di isolare e ri-contestualizzare alcune porzioni di un particolare ambiente, in un formato che rimuova tutte le possibili interazioni soggettive e romantiche con quegli ambienti nel loro complesso. Tuttavia, quando approccio i miei soggetti fotografici mi ritrovo a dover ancora comprendere la totalità delle cause e degli effetti che li hanno prodotti. Ciò richiede una valutazione olistica della loro manifestazione attuale, compresa la mia partecipazione all’interno di tali ecosistemi.

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 Unfinished Church Gibellina Nuova-Sicily (2005) _ “Architecture of Resignation” series

Sono spesso intimorito dalle narrazioni sublimi entro cui mi ritrovo, inestricabilmente, coinvolto. Pertanto, tutto il mio lavoro è auto-riflessivo: simboleggia la mia traiettoria spirituale come un individuo. Gli spazi e gli ambienti che fotografo non potranno mai essere disgiunti dal mio esser stato fisicamente presente ad interagire con quegli spazi, con quegli ambienti mentre li fotografo. Quindi, in ultima analisi, la mia arte è un auto ritratto , intimamente legato allo spirito collettivo dell’ambiente in cui vivo ed opero.

 

L’intervista è stata condotta durante lo svolgimento della mostra di Jay Wolke presso la Galleria Primo Piano di Napoli, via Foria n. 118.

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