Media e movimenti: intervista a una fotogiornalista

Intervista alla fotogiornalista Yara Nardi, autrice dello scatto che ha finito per simboleggiare la manifestazione nazionale del 12 aprile scorso a Roma contro precarietà e austerity

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di Anna Pellizzone, da MilanoinMovimento

 

9 giugno 2014 – Quella sequenza di scatti, ce la ricordiamo tutti: una ragazza è a terra, sta urlando circondata da uomini in tenuta antisommossa. Uno di questi, il manganello in mano, la calpesta, mentre un altro manifestante la abbraccia per proteggerla dall’aggressione. Quelle immagini, in poche ore, quel 12 aprile, hanno fatto il giro d’Italia e sono state trasformate da pressoché tutte le testate italiane in una favolosa icona per raccontare frettolosamente una giornata di protesta.

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Poche ore, e la bacchetta magica del ping pong mediatico tra agenzie e testate ha dato vita a una rappresentazione parziale, superficiale, strumentale e sensazionalistica della realtà.
Come quasi sempre accade, i media si sono assolutamente dimenticati di raccontare contenuti che quel giorno decine di migliaia di persone avevano deciso di portare in piazza, per servire ancora una volta al proprio pubblico ciò che è stato educato ad ingurgitare: immagini forti, sensazionali, emozionanti, perlopiù decontestualizzate, per spettatori oggi disabituati ad interrogarsi sulla realtà. Spettatori pigri e frettolosi, ricattati dal tempo e dalla crisi, spesso a caccia di fiction superficiali che confermino quello di cui già sono convinti.

Non risolveremo con questa intervista l’enorme tema della crisi del giornalismo, del ricatto imposto dal business dei clic e del controllo di pressoché tutti i Cda delle principali testate italiane da parte dei più potenti gruppi industriali e bancari. Allo stesso modo, non vogliamo scandalizzarci e urlare al complotto senza avviare dei ragionamenti più profondi che ci aiutino a mettere a fuoco la complessità del rapporto tra informazione e movimenti sociali oggi.
Con questo spirito abbiamo deciso di incontrare Yara Nardi, la fotogiornalista che quel 12 aprile ha scattato le istantanee erette a rappresentazione di quella giornata e che sulla situazione attuale del fotogiornalismo, così come su quel corteo, ha parecchio da dire.

Ciao Yara, prima di tutto vorremmo chiederti di raccontarci la “storia” di quello scatto e di contestualizzarlo. Che momento della giornata del 12 aprile rappresenta?

Quello scatto è stato realizzato in un momento successivo all’arrivo del corteo davanti al Ministero in Via Veneto. Erano partite le prime cariche e ci siamo spostati tutti verso Piazza Barberini, dove poi, mi sono resa conto da alcuni video, sono arrivate cariche anche da un’altra via.
Era un momento molto concitato, stavano correndo tutti, chi non correva si muoveva lunghi i muri della strada a mani alzate, rivolte verso la polizia, che intanto aveva effettuato già parecchi fermi.
Dopo aver scattato alcune fotografie in piazza, sono corsa all’imbocco di Via del Tritone dove ho visto scappare il corteo e poi la scena dei due ragazzi stesi a terra. E’ stato un istinto, mi sono abbassata e ho scattato.

La tua fotografia è diventa l’icona di quella giornata di protesta, i giornali l’hanno pubblicata, interpretata, romanzata, strumentalizzata. A te che l’hai scattata e che attraverso l’obiettivo sei testimone diretta di quel momento, chiediamo: che cosa vedi tu in quell’immagine? Perché l’hai selezionata tra le tante che immaginiamo tu abbia scattato? E ancora: secondo te perché i media l’hanno preferita ad altre?

Quando alla fine di tutta la giornata mi sono fermata a trasmettere, mentre selezionavo le foto e ho visto questa immagine, l’ho messa da parte insieme alle altre che avevo scelto. Andavo di fretta, questo lavoro è fatto soprattutto di velocità, non si ha sempre il tempo di pensare, riflettere o anche semplicemente di realizzare subito ciò che si è fatto. Quindi ho trasmesso tutto insieme, senza badare troppo all’estetica e alla poesia che soltanto uno spettatore esterno avrebbe potuto vedere.
I media hanno eretta questa fotografia a “simbolo” o meglio icona, della giornata, perché è “un’immagine facile”.
Una scena su cui è molto semplice poter costruire una storia, come appunto è stato poi fatto. Ci rimanda a un’immediatezza e a qualcosa di facilmente riconoscibile di cui la gente ha bisogno e che è quindi facilmente spendibile per l’immaginario collettivo.
In una giornata come quella per tanti giornalisti è stato più facile costruire una storia così, piuttosto che parlare dei veri contenuti della manifestazione.
Personalmente in questa fotografia e negli scatti successivi vedo da un lato un momento di amicizia, tenerezza e dall’altro la violenza della polizia nella sua accezione più becera.

In una tua dichiarazione a un quotidiano romano abbiamo letto che il modo in cui la stampa ha ri-raccontato quell’immagine non ti è piaciuto. Puoi spiegarci meglio che cosa intendi?

Io penso sempre, o almeno lo spero, di fare fotogiornalismo e non fotografia, che è un’altra cosa.
Quando si fa fotogiornalismo, si prova a raccontare i fatti, ci si dovrebbe astrarre da una serie preconcetti e di facili paradigmi e si dovrebbe ri-portare la realtà dei fatti. Almeno una parte, perchè poi mi rendo conto, come è accaduto anche in questo caso, che la realtà è qualcosa che è fin troppo facile manipolare, raccontare in parte, omettere. Nel mio piccolo provo a limitare quanto più possibile le strumentalizzazioni ed ecco perchè ho rilasciato quella dichiarazione.

Ti è capitato altre volte di vivere questo disagio? Ovvero di vedere un palese scollamento tra quello che tu racconti attraverso la cronaca delle immagini e quello che la stampa ci ricama sopra? 

Quando ho iniziato a fare questo lavoro, che ho da sempre fortemente desiderato, non sono mancati e non mancano tutt’ora i momenti di profonda crisi personale.
Il giornalismo italiano soffre, è sotto gli occhi di tutti. Non è indipendente e manca soprattutto di onestà intellettuale. Ma ci sono molti professionisti che stimo e ammiro, che lavorano per amore e grande senso etico e deontologico. Molti di questi sono ovviamente precari, che però ancora non mollano perchè credono che un altro tipo di giornalismo sia possibile.
Lo credo anch’io, anche se i momenti di sconforto non mancano e spesso le mie foto, di cui non posso avere il totale controllo una volta messe in circuito, vengono utilizzare per pezzi di cui non condivido i contenuti, credo che sarà sempre più forte la voglia di poter portare all’attenzione una storia diversa. Come poi è successo per il corteo del 12 Aprile scorso, con la foto del poliziotto che calpesta la ragazza a terra.

Secondo te, perché questo succede? Pensi che l’uso pubblico che si fa delle immagini andrebbe migliorato? Se sì, come?

Andrebbe migliorato, come andrebbe migliorata tutta la qualità del mondo editoriale di oggi.
Il precariato, la velocità con cui si richiede la realizzazione di uno o più servizi, non possono che continuare a fare del male a questa professione, che al momento nessuno è stato in grado di tutelare veramente con azioni concrete.
Le cose da fare sarebbero tantissime, per esempio si potrebbe iniziare con l’assumere i giovani, che non saranno più così giovani se continueranno a vivere con 2 euro al pezzo, mentre si prepensionano persone che non verranno mai sostituite. Servirebbero tutele, soprattutto per il mito ormai sfatato del free lance, una figura che ha alle spalle una precarizzazione sistemica.
Questo per quanto riguarda non solo il giornalismo scritto, ma anche quello fatto attraverso le immagini. Basti pensare che i fotografici nei giornali non esistono più, ma i servizi, quando vengono commissionati, sono agenzie esterne a realizzarli.

Tornando alla giornata del 12 Aprile: come valuti complessivamente quello che la stampa ha raccontato rispetto a quello che hai visto in piazza? Quali sono a tuo avviso le critiche che si possono/devono muovere alla stampa rispetto alla narrazione di quella giornata?

E’ difficile trovare una cronaca soddisfacente delle giornate come quella del 12 Aprile. Le narrazioni che si sono susseguite non sono niente di nuovo rispetto alla solita divisione tra manifestati buoni e manifestanti cattivi.
Ciò che si sarebbe dovuto raccontare sono i contenuti che hanno portato alla costruzione di quella giornata. La contestazione al Jobs Act e al Piano Casa ad esempio. Gli sgomberi dei giorni precedenti che hanno letteralmente messo famiglie in mezzo ad una strada.
La strategia della deterrenza messa in atto dalla polizia, con cariche violente e indiscriminate che si sono lasciate alla spalle parecchie vittime.
Non è possibile continuare ad ammiccare costantemente al buonismo senza porsi il problema di un’intera generazione senza futuro.

Pensi che fosse importante documentare quel corteo? Perché?

Essere in piazza per me era importante anche per questo, perchè io faccio parte di quella generazione e per quanto il lavoro di un fotoreporter debba essere fatto di qualche passo indietro rispetto ai coinvolgimenti personali, non siamo delle macchine che assistono agli eventi senza senso critico. Cerco di restituire punti di vista diversi rispetto alla cronaca mainstream, non sempre ci riesco, ma quando accade, posso dire che ne è valsa la pena.

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