Gezi Park Perspectives 6

Gli ultras del Besiktas, tra anarchia e stadio. Continua con loro la galleria delle interviste alle varie anime della protesta di un anno fa a Istanbul

Il progetto delle voci del movimento Gezi Park sarà completato qui sul sito di Q Code Magazine, mentre interviste inedite saranno pubblicate sul prossimo numero de Il Reportage, nelle librerie dal 1 luglio prossimo.

 

di Christian Elia e Alessandro Ingaria
@eliachr e @aleingaria


11 giugno 2014
– Lo stadio dove gioca il Besiktas, l’Inonu, è un cratere scavato in una collina dove la città vecchia degrada verso il mare. Il Besiktas è l’anima del quartiere omonimo, a cavallo tra due continenti, dove le navi e i traghetti tessono ponti tra genti e culture. La maglia a strisce verticali bianche e nere è una seconda pelle. Un ragazzo, ma anche tante ragazze, la indossano come una seconda pelle.

“La nostra storia è legata a doppio filo a questo quartiere della città: ne facciamo parte, lo rappresentiamo, ci siamo nati, lo difendiamo. Ascoltiamo problemi, ne risolviamo qualcuno. Un punto di riferimento, ben al di là del calcio”. I baffoni a manubrio danno a Udur un aspetto da motociclista americano. La voce, però, sembra quella di un docente universitario, abituato a spiegare, a scandire. Udur ha un’età indefinita, spesa per la maggior parte nel Kapali, la curva dello stadio del Besiktas dove si siede il gruppo del tifo organizzato della squadra.

“Noi siamo la Carsi, una specie di fratellanza di matti”, sorride sornione Udur, mentre l’ennesima sigaretta gli ingiallisce la barba bianca. “Per noi, da sempre, ogni settimana è Gezi. Per quasi ogni partita, per tutto l’anno. Lo scontro con le autorità diventa un aspetto della vita quotidiana, ci cresci dentro, ti abitui. I toma e i gas sono gli ingredienti familiari dei miei fine settimana”. Sembra un discorso di quelli che finiscono per rendervi antipatici a molti. Violenza per la violenza.

 

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“Nel mio mondo non si giudica nessuno, ognuno è libero di fare quel che crede. Ma non è in questi termini il discorso. Nel nostro simbolo, la A di Carsi è quella dell’anarchia. Una lunga, orgogliosa, storia politica. Un’identità che ha mille rivoli, ma che confluiscono in un unico bacino: il potere è marcio. Ogni forma, ogni aspetto di ogni potere è marcio. Da qui inizia un discorso politico, che condividiamo, che portiamo allo stadio perché quello è il nostro luogo. Altri lo portano altrove, nei luoghi della loro passione”.

Quando a Gezi iniziano gli scontri, mentre la gente difende la piazza, l’arrivo delle tifoserie organizzate è stato salutato da tutti come un elemento salvifico. Per mera convenienza? In fondo fanno comodo dei tipi tosti, organizzati, che sanno affrontare la polizia. “Non credo sia stato solo per quello. In città ci conoscono. Le nostre battaglie non iniziano e non finiscono dentro lo stadio. La vita sociale del nostro quartiere e della nostra città ci vde protagonisti, sempre. Il disagio economico, soprattutto, è un campo dove ci siamo sempre impegnati. Dalle raccolte viveri e generi di prima necessità, fino alla pulizia del quartiere, a tenere lontani i guai e gli affari loschi. Noi ci siamo e tutti lo sanno. Certo, però, gezi ha cambiato molto”.

In che modo? “Cominciamo con il dire che oggi esiste un vissuto condiviso. Per anni abbiamo denunciato quello che subivamo ogni giorno. La violenza gratuita delle forze dell’ordine, l’abuso, la sopraffazione. Solo che se meni un gruppo di ultras, inutile negarlo, nessuno ti verrà a fare domande o non leggerai articoli onesti sui giornali che raccontano come è andata. Ecco, oggi, dopo Gezi, in tanti hanno visto la faccia dell’ingiustizia, della violenza, della repressione. In questo senso in monti capiscono cose che noi denunciamo da anni”.

Il telefono di Udur, continua a lampeggiare. I ‘ragazzi’, come li chiama lui, si organizzano per una manifestazione nel quartiere.

“Noi siamo da sempre nella politica. Contro la politica. La libertà di essere quello che sei è importante al di là dello stadio, nei contrasti sociali. In questo senso, per noi, Gezi è stata solo la tappa di un lungo cammino di lotte sociali. Perché questa società va cambiata. La differenza, dopo Gezi, è che non è cambiato solo il modo degli altri di guardare noi, ma anche il nostro di guardare gli altri. Lo ammetto.
In poche ore ci siamo organizzati, 15mila, tutti assieme, per essere là. Perché le istanze di quella piazza son quelle di ogni popolo libero che chiede di essere ascoltato. In fondo è il senso della nostra vita: resta ribelle, non piegarti”.

E in che modo vi ha cambiato? Di solito, immagino, le frequentazioni con i nazionalisti o con la comunità LGBT non sono quotidiane.
“E’ vero, hai ragione. Anche se noi non siamo contro nessuno. C’è una filosofia di vita, alla base, che rispetta tutti. Almeno fino a quando non veniamo attaccati. Si difende la vita e la libertà, di LGBT o dei fascisti, se la situazione è di un certo tipo. Certo, quello che è cambiato è il modo di guardarci. Perché una delle vittime era un tifoso del Besiktas, ma nessuno è andato al suo funerale a piangere un tifoso del Besiktas, ma uno di noi. In senso allargato, di tutti coloro che erano in quella piazza. Capisci quanto è differente? Gezi ha aiutato anche noi, svelandoci per quello che siamo, un gruppo sociale. Ci conoscono meglio e noi conosciamo meglio gli altri. Oggi le relazioni sono nuove, differenti. Perché abbiamo pianto, riso, sofferto assieme. Abbiamo vittime in comune da ricordare. Quando hai vittime comuni, stai iniziando a costruire una storia comune. Non con un approccio retorico, sempre rischioso, ma ti guardi con uno sguardo diverso, perché, almeno una volta, hai pianto e hai riso assieme. Questo, in un certo senso, cambia il mondo”.

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