La storia vista da sud

Intervista a Emanuele Felice, autore del saggio Perché il Sud è rimasto indietro

Oggi, alle ore 18:00 Massimiliano Gallo de ilrottamatore.itAlfonso De Vito attivista politico impegnato nella Rete Antirazzista e nella campagna per il Diritto all’Abitare, Marco Esposito giornalista de il Mattino e autore di “Separiamoci”, Pasquale Granata direttore Anci Campania, Guido D’Agostino presidente de l’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, Luigi de Magistris sindaco di Napoli, presentano il saggio di Emanuele Felice Perché il Sud è rimasto indietro. La presentazione, organizzata dal Comune di Napoli in collaborazione con l’associazione Noi@Europa e con il quotidiano indipendente IlDesk Q Code Mag, avverrà in via Port’Alba e rientra nelle iniziative di valorizzazione della strada.

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/03/io.jpg[/author_image] [author_info]di Alessandro Di Rienzo. Concepito a Roma in un incontro occasionale il 21 aprile del 1978 è nato a Napoli il penultimo giorno dello stesso anno in quanto la madre aveva letto un noto libro di Oriana Fallaci. Questo lo ha appreso nel novembre del 2002 mentre contestava proprio la Fallaci a Firenze in occasione dell’Europa Social Forum. Da allora ha sviluppato una irrimediabile attrazione verso le contraddizioni. Caratteristica questa che lo ha portato, con penna o telecamera, a interessarsi di Medio Oriente e vertenze sindacali.[/author_info] [/author]

11 giugno 2014 – “Perché il Sud è rimasto indietro” è un libro con molti meriti. Il primo è di riproporre nei giusti termini una riflessione sulla condizione meridionale in un momento in cui tutti gli indicatori raccontano di un Sud che paga il prezzo della crisi in forme sociali ancor più drammatiche del resto del paese. Eppure questa condizione è un elemento periferico nel dibattito politico e istituzionale. Ridotto a sintesi sloganistiche e inefficaci che tradiscono, a seconda dei casi, rassegnazione o malafede. Al di là di qualche dichiarazione retorica la questione meridionale sembra essere scomparsa dall’agenda delle classi dirigenti nazionali e anzi le politiche degli ultimi anni, dal federalismo fiscale alle politiche industriali ai tagli agli enti locali, hanno senz’altro e ulteriormente penalizzato questa parte del paese.

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I “giusti termini” sviluppati da Emanuele Felice sono invece quelli di una contestualizzazione storica estremamente documentata e puntuale, aggiornata agli ultimi risultati della storiografia economica cui lo stesso autore ha contribuito. Un approccio che consente di mettere a fuoco alcuni elementi chiave del deficit nello sviluppo economico, nella distribuzione dei redditi e nella qualità delle istituzioni democratiche tra le due parti del paese sottraendo la critica a quei tratti essenzialistici e sottilmente razzisti che pervadono le riflessioni di tanti osservatori.

Al tempo stesso l’autore confuta alcuni luoghi comuni di un neomeridionalismo conservatore segnato da una propagandistica rivalutazione del governo borbonico e dei suoi presunti “primati” in campo sociale, economico e tecnologico. Nostalgia di una fantomatica età dell’oro che ha conosciuto recente fortuna proprio per l’approfondirsi della distanza tra il sud e il centronord anche in termini di quella che potremmo definire la “percezione sociale”. Un’operazione che nelle intenzioni dell’autore vuole togliere alla società meridionale l’alibi di sentirsi semplicemente “sfruttata” dal resto del paese, per focalizzare invece i limiti e i conflitti al suo interno da cui partire per un cambiamento efficace. Gli elementi su cui converge la ricostruzione di Emanuele Felice si riconnettono e approfondiscono alcune delle tesi più consolidate della cultura meridionalista: la mancata modernizzazione del regno delle due Sicilie dopo il 1799 e la svolta restauratrice dopo il 1848, la debolezza della borghesia produttrice, la prevalenza della rendita e l’ampiezza delle differenze sociali nella distribuzione dei redditi che favorisce il consolidamento di Istituzioni “estrattive” nei confronti della società.

La connivenza, dopo l’unificazione, delle nuove classi dirigenti con questa forma di governance del territorio che favorisce le dinamiche clientelari e mafiose. In particolare quelle che in modo informale e in assenza di una statualità efficiente e socialmente legittimata riproducono i rapporti sociali feudali superati formalmente all’inizio dell’800; con il consolidarsi di corpi intermedi del business della sicurezza nato per proteggere la proprietà dai conflitti che una società troppo squilibrata vi produce intorno. Infine, nel ‘900, il processo di “modernizzazione passiva” che chiaramente richiama al concetto gramsciano di rivoluzione passiva, per cui a una relativa modernizzazione delle infrastrutture economiche e del capitale sociale (a partire dalla scolarizzazione) non corrisponde un adeguata rimonta delle condizioni sociali generali e della qualità democratica.

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L’autore non nasconde che con l’unificazione i termini di questo divario sono molto amplificati. Le soluzioni che propone riguardano soprattutto le strutture istituzionali, la loro trasparenza, la loro efficienza, i sistemi di controllo, la capacità di svincolarsi dal condizionamento parassitario degli interessi della rendita e dalla corruzione. Fattori che in questo momento sono di importanza nazionale ma qui considerati un punto di partenza ineludibile per cercare di rovesciare un deficit storicamente consolidato. Ci appare altrettanto importante però una mobilitazione di risorse adeguata a sostenere socialmente un processo del genere. Una condizione che cozza palesemente con la logica dell’austerity.

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INTERVISTA A EMANUELE FELICE –  docente di Storia economica nell’Università Autonoma di Barcellona. Con il Mulino ha pubblicato «Divari regionali e intervento pubblico. Per una rilettura dello sviluppo in Italia» (2007)

Quale peso sull’accentuazione del divario nord/sud ha avuto il contorno soggettivo e politico di chi ha accompagnato il processo di unificazione/annessione, quali le motivazioni a tuo avviso di determinate scelte delle classi dirigenti?

Per il modo in cui è stata realizzata, l’Unificazione ha contribuito ad aggravare il divario. Le ragioni di questo esito vanno ricercate essenzialmente nei rapporti di classe che allora vi erano nel Sud e nel Nord. La classe dirigente che ha fatto l’Italia era costituita in buona parte da possidenti agrari, cui si aggiungono i ceti borghesi cittadini dediti alle professioni liberali. Questa classe dirigente ha scelto una politica liberoscambista che ha favorito l’agricoltura, a danno dell’industria, ed ha preferito non tassare la terra (cioè se stessa), ma piuttosto il consumo (si pensi alla tassa sul macinato).

A quel tempo, l’Italia tutta era arretrata in termini industriali, al Nord come al Sud. Il grosso delle differenze era nell’agricoltura (che rappresentava la magna pars dell’economia): latifondo e colture estensive nel Mezzogiorno, agricoltura capitalistica a braccianti e colture intensive in pianura padana. Ora, l’agricoltura del Sud aveva una produttività della terra minore, ma questo era compensato da un lato dall’altissima concentrazione della ricchezza (le singole famiglie baronali avevano molte terre, ed erano poco interessate a investimenti che ne aumentassero il rendimento), dall’altro dal fatto che al Sud si pagavano sulla terra meno tasse che al Nord: perché il catasto non era geometrico-particellare (come ad esempio quello Lombardo introdotto nel Settecento), ma descrittivo, quindi molto più approssimativo. Il nuovo Regno d’Italia si trovò di fronte all’esigenza di far cassa – per ripagare il debito in gran parte dovuto alle guerre risorgimentali, ma anche per costruire le infrastrutture ferroviarie − ma non volle riformare il catasto meridionale. In pratica, non volle tassare maggiormente i baroni (con una misura che li avrebbe anche spronati ad essere più produttivi): piuttosto, fece gravare il peso della tassazione sui ceti più umili. Tutto questo è stato fatto, ovviamente, con il pieno consenso delle classi dirigenti meridionali.

Un discorso simile vale per le politiche scolastiche: all’Unità, vi era un enorme divario nei livelli di alfabetizzazione. Il nuovo Regno, pure estendendo anche al Sud l’istruzione obbligatoria, lasciò alle amministrazioni locali l’onere di finanziarla. Ciò fece sì che al Sud si investisse molto meno nell’istruzione, perché le élite meridionali erano poco interessate all’istruzione delle masse (anzi, la guardavano con diffidenza) e certo non erano disposte ad autotassarsi per renderla possibile. Nel Centro-Nord vi erano élite più avanzate, “inclusive” come scrivo nel libro, come conseguenza delle diverse condizioni economiche e sociali (la minore disuguaglianza, la forza maggiore dei ceti medi). Questa situazione è andata avanti fino alla legge Daneo-Credaro del 1911, quando finalmente il finanziamento dell’istruzione è stato avocato allo stato.

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La convivenza di due classi dirigenti culturalmente divergenti, come sostieni nel tuo saggio, al sud e al nord del paese in che misura è stato un fenomeno di connivenza che ha frenato il meridione italiano? In che misura ha inciso un informale patto di convenienza legato anche alle specifiche forme di sviluppo del capitalismo italiano nel dopoguerra (basta pensare al ruolo dell’emigrazione interna)?

Si è creato un patto di potere fra le due classi dirigenti, che nel Sud ha preso la forma del voto clientelare: dai tempi della sinistra storica, passando per Giolitti, fino al pentapartito e poi alla seconda repubblica. Il voto meridionale ha sempre sostenuto i governi del paese: in cambio, le classi dirigenti che tale voto veicolavano non chiedevano che fossero promosse al Sud le condizioni di una modernizzazione attiva (cosa che le classi dirigenti locali non volevano, perché avrebbe messo in discussione i loro privilegi), ma premevano piuttosto per ricevere favori e risorse, secondo logiche clientelari. Ovvero, puntavano all’estrazione della rendita: dalla terra nell’Ottocento, con le politiche cui accennavo prima, dai finanziamenti pubblici nella seconda metà del Novecento. Anche la Mafia, la Camorra e la ‘Ndrangheta, forme estreme (e violente) di rivendicazione localistica delle classi dirigenti locali, si sono pienamente inserite in questo blocco di potere: arrivando ad esprimere – sia pure in maniera indiretta − perfino qualche presidente del consiglio, già nella tarda età liberale. 

All’interno di questo quadro, l’emigrazione interna faceva comodo tanto alle classi dirigenti del Sud, quanto a quelle del Nord: alle classi dirigenti del Sud, che così si sbarazzavano della componente più critica e più dinamica dei ceti subalterni; a quelle del Nord, perché si rifornivano di manodopera a basso costo. Bisogna però tenere presente che questo meccanismo si è attivato in sostanza solo nel secondo dopoguerra. Prima, la grande emigrazione meridionale (e in parte settentrionale) era diretta all’estero, non era cioè funzionale allo sviluppo del capitalismo italiano.

Inoltre, proprio durante il miracolo economico vi è stata un’importante eccezione a questo schema di fondo: l’operato della Cassa per il Mezzogiorno. Questa è riuscita a realizzare una qualche modernizzazione del Sud, portandovi anche un’industrializzazione di una certa consistenza (che io definisco “passiva” perché calata dall’alto, ma che ha anche frenato l’esodo migratorio), proprio perché prescindeva dall’influenza delle classi dirigenti locali. Poi però, dalla fine degli anni sessanta, i mediatori politici hanno preso il sopravvento anche sull’azione della Cassa per il Mezzogiorno.

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Cosa pensi delle condizioni politiche attuali, dal federalismo fiscale alle politiche dell’eurozona?

Di per sé non mi sembrano favorevoli allo sviluppo del Mezzogiorno. Le politiche (attuali) dell’eurozona impediscono gli investimenti, di cui il Sud Italia ha disperatamente bisogno soprattutto nelle infrastrutture economiche e sociali. Il federalismo andrebbe accompagnato da una riforma delle regole che incoraggi i comportamenti virtuosi e stronchi la corruzione (al Sud come al Nord): ad esempio, con l’istituzione obbligatoria dell’anagrafe pubblica degli eletti e degli amministratori, che agevolerebbe di molto il controllo dal basso dei cittadini; oppure con controlli più stringenti, da parte di organi terzi, sull’operato e sulla performance delle amministrazioni locali. Senza questi cambiamenti legislativi, il federalismo non modificherebbe l’assetto estrattivo del Sud, che finirebbe solo per perpetrarsi in condizioni di maggiore povertà.

Contro quest’esito negativo, gioca però un potente fattore: l’economia della rendita è oggi in crisi, per il semplice fatto che di rendita da estrarre ce n’è sempre meno. Ciò sta già portando – mi pare – i cittadini meridionali a votare in modo più consapevole, almeno in alcuni contesti. L’interesse al voto clientelare viene meno, e qua e là emergono amministratori di valore (paradossalmente, l’economia della rendita sembra oggi più forte al Nord che al Sud).
A favore di quest’esito negativo, gioca però un fattore almeno altrettanto potente: l’emigrazione. Emigrare dal Sud, verso il Nord o ancor più verso altri paesi d’Europa, è facile e poco costoso − per fortuna − e per un cittadino meridionale può sembrare più facile andarsene, che non restare a lottare per cercare di cambiare le cose. È sembrato più facile anche a me.

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Matteo Renzi a Napoli nel suo discorso ai sindaci della provincia ha elogiato il governo borbonico elevandolo a modello. Il premier ha detto che l’antico stato preunitario coi suoi progressi in ogni campo si faceva notare in Europa e nel mondo. Dichiarazioni volte al ventre molle dell’elettore medio meridionale oppure legge qui qualche più alta strategia politica?

Io non credo che ci sia una particolare strategia politica. Penso che siano dichiarazioni elettoralistiche, forse fatte anche in buona fede, ma in fondo inoffensive (perché prive di conseguenze). Più che altro, mi sembrano rivelatrici di quanto il mito borbonico sia oggi diffuso: non certo fra gli storici, ma nell’opinione pubblica − grazie ad alcuni libri di molta fortuna e di poco rigore − e da lì alle classi dirigenti. Anche Beppe Grillo, in un suo post, aveva definito “glorioso” il Regno delle Due Sicilie.

 

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