Chiedi chi era Sebes

Breve storia poetica dei mondiali di calcio


di Dario Falcini
@dario_falcini

 

12 giugno 2014 – Catturate l’attenzione di vostro figlio o nipote oppure sfidate il giudizio popolare e fermate per strada il primo adolescente che passa. A questo punto provate a spiegargli che c’era un tempo in cui Messi, Cristiano Ronaldo e Ribery giocavano tutti nella stessa squadra, in riva al Danubio.

Raccontategli che per Miracolo di Berna si intende quanto avvenne nel Mondiale svizzero giusto 60 anni fa. E che ancora oggi si ricorda l’impresa della Germania che vinse 3 a 2 e interruppe la striscia di quattro anni senza sconfitte di Puskas e compagni. Oggi risulta difficile credere che un paese come l’Ungheria potesse umiliare sistematicamente le grandi del calcio mondiale. Ma per chi ha memoria di quegli anni la vera assurdità è che una simile squadra abbia perso il 4 di luglio tra le Alpi.

Tra le macerie della guerra una generazione di fenomeni non aveva mai smesso di tirare calci a un pallone, al resto aveva pensato il regime. Ogni squadra del campionato ungherese era legata a un potentato economico o militare, su tutti spiccava l’Honved. Significa “difensore della patria” perché era il club dell’esercito e si dice che la creazione della Coppa Campioni sia merito loro: per poterli ammirare oltre cortina inglesi e spagnoli si inventarono una competizione continentale.

Sulla panchina dell’Ungheria sedeva Gusztav Sebes. Era un filosofo, un meccanico e un dipendente del governo. Il suo “calcio socialista” constava di una W e una M tracciata per il campo con i giocatori: lo chiamavano Sistema e il Grande Torino ci vinse quattro campionati.

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Mentre Laszlo Kubala vagava dalle parti di Busto Arsizio per raggiungere la Costa Brava, Sebes schierava Grosics in porta, Czibor e Toth sulle fasce, Hidegkuti più arretrato e Kocsis a metterci la sua zucca d’oro. Direttore d’orchestra Ferenc Puskas, che se non è stato il più grande di sempre fa parte di quel club.

L’Ungheria aveva vinto le Olimpiadi di Helsinki nel 1952, l’anno dopo aveva profanato Wembley con un 3-6 irripetibile. In Svizzera era partita con 9 gol alla Corea e solo uno di meno ne rifilò tre giorni dopo alla Germania. Poi toccò a Brasile e Uruguay, 4 a testa. Dopo 8 minuti erano sopra 2 a 0 nella finale coi tedeschi, quelli dell’8 a 3. Finì 2-3. Sconfitta e carri armati per strada due anni dopo. Fingiamo di sorvolare sull’arbitraggio di quella serata e sui sospetti di doping sugli avversari, molti dei quali furono colpiti da epatite una volta tornati a casa.

Oggi che la nazionale ungherese può al più vantare gli Szalai e i Dzsudzsak (non li conoscete, ecco appunto) resta il mito dei perdenti più forti che si siano mai visti su un campo da calcio.

Quello degli sconfitti non è un bel ruolo, ma c’è modo e modo di interpretarlo. Come Puskas lo ha fatto forse solo un’altra entità: Johan Cruijff. Erano passati venti anni e si giocava in Germania tra la paura: due anni prima a Monaco 11 atleti israeliani furono massacrati da un commando di Settembre Nero. Quello del 1974 fu un Mondiale di belle sorprese: per la prima volta c’era una squadra africana, la Zaire e con un gol di Jurgen Sparwasser la Germania dell’Est batté 1 a 0 quelli di là del muro.

Ma la gente era troppo intenta a ammirare quanto faceva sul rettangolo l’Olanda di Rinus Michels. O per lo meno ci provavano, perché non sempre si riusciva a vedere la palla che in pochi secondi dal difensore aveva attraversato tutto il campo tre volte ed era già finita in porta. All’Argentina ne rifilarono quattro, a Brasile e Ddr un paio. Poi arrivò la finale: contro di loro, come al solito, la Germania. Giocava in casa e aveva più muscoli di chiunque altro con Berti Vogts, Paul Breitner, Gerd Muller e quello con la fascia, Franz Beckenbauer.

Gli Orange erano dei beatnik schierati con il 4-3-3. In porta c’era Jongbloed e non si capiva se il vero libero fosse lui, spesso fuori dalla sua area, o il bombardiere Haan. Largo Ruud Krol: a Napoli per ritrovare uno con quei piedi dovettero aspettare Maradona, solo che lui giocava terzino (in teoria). In mezzo nessuno sapeva fare più cose di Johan Neeskens, davanti e in fondo ovunque Cruijff. All’Ajax insieme avevano già più volte imbarazzato l’Europa.

I numeri di maglia erano in ordine alfabetico: Jongbloed stava tra i pali con l’8, il Profeta il 14 e un pezzo di stoffa in meno degli altri. Nella contesa tra i fratelli Dassler Cruijff aveva scelto Rudolf, fondatore della Puma, e si strappò una delle tre strisce Adidas dalla spalla.

Dopo 1 minuto e 18 secondi all’Olympiastadion la Germania toccò il suo primo pallone: era Sepp Maier che lo raccoglieva in fondo alla rete. Prima, da Cruijff a Cruijff, gli orange la avevano toccata altre 13 volte fino a procurarsi un calcio di rigore. Il calcio totale non era un modo di dire dei giornalisti sportivi, era quella roba lì e faceva spavento. Fu una delle partite più belle di sempre e ovviamente la vinse la Germania. 2 a 1 con gol del maoista Breitner e di Muller.

L’Olanda in finale ci arrivò anche quattro anni dopo. Nel 1978 Cruijff non c’era: i biografi ufficiali sostengono che non andò per non partecipare alla liturgia del vergognoso Mondiale in casa del massacratore Videla, i revisionisti (che non sempre è un’offesa) chiamano in causa la moglie e la reazione non proprio entusiasta alle sue scappatelle da trasferta. Come l’Ungheria, una delle squadre più belle che si ricordi non figura sull’albo d’oro della Coppa.

C’era un periodo in cui ai Mondiali i padroni di casa vincevano molto, troppo spesso. Una regola infranta, di ritorno dal fronte, dal Brasile. Stiamo parlando del Maracanazo del 1950: per la finale di Rio tra la Selecao e l’Uruguay c’erano 173 mila spettatori paganti e almeno 25 mila imbucati. Non staremo a raccontarvi la storia di Obdulio Varela e del rigore più lungo del mondo, c’è chi lo fece prima e molto meglio, ma quella rimarrà per sempre La sconfitta. Esperienza che in Brasile sperano di non ripetere fra poche settimane, a 64 anni di distanza

C’è un solo decennio nel quale i Pentacampeao non alzarono la Coppa al cielo: anche per il Brasile gli anni ’80 furono il decennio del riflusso. Il 5 luglio del 1982 Paolo Rossi (che era da poco tornato in campo dopo essere stato arrestato per calcioscommesse) segnò tre gol e negò per sempre alla generazione di Socrates, Zico, Cerezo e Falcao l’Olimpo del pallone verdeoro.

In una pausa del dominio brasiliano l’Inghilterra riuscì a vincere il suo unico Mondiale. Contestato, come buona parte di quelli casalinghi. A incantare tutti nella terra del football fu però il Portogallo. Era costruito sull’ossatura del Benfica che aveva monopolizzato la finale di Coppa Campioni e diretto dal brasiliano Otto Gloria. Dava i tempi il capitano Mario Coluna, faceva tutto il resto un altro ragazzo del Mozambico: Eusebio, la Perla Nera. Sono morti entrambi pochi mesi, e nonostante quella volta persero in semifinale a Lisbona sono venerati come Amalia Rodrigues.

Meno scalpore desta la casella vuota per Michel Platini e per la sua Francia, cui rimane la gioia per l’Europeo vinto a domicilio nel 1984. Due anni prima e due anni dopo i Bleus più talentuosi di sempre, quelli di Le Roi, Giresse, Tiganà e Fernandez, si fermarono al penultimo atto. Indovinate contro chi? La Germania. Abusato, ma vero (almeno un tempo) l’aforisma del centravanti britannico Gary Lineker: “Il calcio è uno sport semplice: si gioca in undici contro undici e alla fine vincono i tedeschi”.

Un ultimo caso di scuola: l’Argentina del 1994. Reduce dalla bruciante sconfitta e dai fischi degli hijos de puta romani di quattro anni prima, l’albiceleste terminò la sua corsa negli States molto presto: agli ottavi li fece fuori la Romania di Hagi. In realtà erano già finiti qualche giorno prima in uno stanzino dello stadio di Foxborough, quando Diego Armando Maradona fu pescato ancora una volta positivo all’antidoping. Era una squadra strepitosa con Caniggia, Batistuta, Redondo e Simeone, ma senza il Pibe evaporò.

Maradona aveva avuto il suo trionfo 8 anni prima in Messico, un caso unico di Mondiale vinto da solo o quasi. Per molti degli altri la medaglia più luccicante mancherà dal petto. Brilla per Fabio Grosso, forse non potrà mai lucidarla Messi. Il pallone a volte rotola strano e non è detto che serva il piede dritto per sbatterlo dentro.

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