Uno pari, palla al centro

 

Milano, 13 giugno 2014. Il giorno dopo l’inizio dei Mondiali di calcio in Brasile, alla vigilia del debutto della Nazionale italiana, seduti al tavolino di un bar, Christian Elia, condirettore di Q Code Magazine, e QLAUS, anima buia collettiva e antagonista del giornale, decidono di parlare di calcio, partendo da posizioni diametralmente opposte. Ma sono davvero inconciliabili? Ecco il resoconto del loro incontro-scontro.

Christian Elia vs. QLAUS
@eliachr vs. @iosonoQLAUS

 

QL: Per amplificare ulteriormente le nostre differenze, ho ordinato un caffè americano, freddo.

CH: Zzz, degno di un fan del softball…

QL: No, bello. Il softball è per voi ragazzine europee.

CH: Il pallone, noi, lo abbiamo nel sangue.

QL: Un embolo, praticamente.

CH: Una vertigine, un’origine: vedi un pallone che rotola, e ti ricordi da dove vieni. Profuma di mamma, di nonna, di prima fidanzata.

QL: È bizzarra questa cosa che associ il pallone a delle figure femminili: avrei giurato che c’entrassero i padri, che fossero loro il passaggio obbligato per sviluppare l’amore per il calcio.

GianniBrera

Gianni Brera

CH: Non dico niente di originale. Il grande Gianni Brera lo spiegava bene: la porta, o la vìoli o la difendi, è tua madre o la madre degli altri… La porta è femmina, il pallone è maschio.

QL: Una tragica metafora della copula, insomma.

CH: O della conquista, della vittoria. Pensa al valore differente che viene dato alle sconfitte in casa o nei derby: valgono tre punti uguale, ma fanno più male.

QL: Sarà, ma quando uno mi dice che la porta è femmina, io penso che allora va difesa.

CH: Anche conquistata.

QL: Ma, comunque la metti, è sempre passiva: la porta sta, giace, aspetta. Dipende in tutto e per tutto dal maschio, sia che questo la penetri o la difenda. Insomma, non ha ruolo.

CH: O ha il ruolo più nobile: rappresenta la vittoria, l’obiettivo massimo. E non sta mai ferma: vive, e spaventa. “Solo davanti alla porta” …un incubo.

QL: Già, la porta dentata, come la vagina freudiana. Roba da psicoterapia di massa. Non abbiamo abbastanza terapeuti nel mondo, mi dispiace.

CH: La porta cresce e diminuisce a seconda delle sensazioni, dell’umore. È una cosa viva. I portieri, infatti, sono tutti mezzi matti.

QL: Non ne starai facendo una questione troppo simbolica? Voglio dire, non sarà che tutte queste metafore del corteggiamento sono in realtà paraventi dietro cui nascondere il fatto che il calcio, come del resto ogni sport, è solo una piccola guerra sanguinaria?

CH: Certo che la è, come il sesso, il lavoro, la colonna in autostrada e la carriera del tuo miglior amico. È solo che il calcio è meno ipocrita e lo rende evidente.

QL: Come immagini, io non ho amici, tantomeno migliori. E infatti io lo detesto, il calcio.

CH: Saresti un caso interessante, un desiderio a somma zero di vittoria e sconfitta, uno 0-0. Che per alcuni è la partita perfetta.

QL: Guarda che non sei obbligato a esprimerti sempre in termini calcistici. Altrimenti sono autorizzato a pensare che tu sia una specie di fanatico, e invece da quel che si dice in giro sembri essere persona di cultura e intelligenza… Ecco, il punto è questo, per quanto mi riguarda: come può uno come te essere anche fanatico di calcio?

CH: Ammesso e non concesso che io sia colto e intelligente, non riesco a collegare nessuna di queste due qualità alla mancanza di umanità. Se sei umano speri, soffri, sogni, competi, ti confronti, sbagli, rimedi, riprovi e fai meglio, o peggio: vivi, insomma. Il calcio come metafora della vita è uno dei pilastri della noia. Ma è la passione che sembra un peccato da rimproverare a qualcuno che si presume colto e intelligente… Ti annoierei se dovessi farti un elenco di persone colte e intelligenti che sono anche appassionate di calcio. Comunque sia, io ho paura di chi non ha passioni.

QL: D’accordo, ma perché proprio il calcio? Perché non la raccolta di tappi? o un coro alpino? o il brocantage?

CH: Ma va bene tutto, la passione è la differenza tra una vita vissuta e una attraversata. Ma il calcio, per motivi che sono diversi per ognuno di noi, è la più grande passione del mondo. Quali sono questi motivi? Difficile dirlo; forse è semplicemente il più completo degli sport. O forse è perché racchiude in sé tutti i ruoli della commedia.

QL: Facciamo che a me interessano i “tuoi” perché.

CH: Diciamo che il mio amore nasce in una fase quasi sgrammaticata della vita. Per me ad esempio è un ricordo: il primo stadio, mio nonno, il boato. Ecco, non so perché, il boato. Il primo che ho sentito, per il Bari. Mi sono sentito immerso in un’emozione collettiva. Poi è venuto l’aspetto della squadra, della tecnica, ma in principio fu il boato, che non spaventava, ma ubriacava.

QL: È interessante questa cosa, soprattutto perché si lega a un’esperienza sia fisica che in un certo senso liturgica… Chissà come vivi male la mutazione che il calcio ha subito negli ultimi anni. Dov’è finito quel boato? C’è ancora?

CH: Sì, assolutamente sì. Ti accorgi, con gli anni, che lo porti dentro. Sei un “iniziato”. Anche se sei da solo, ma resta il brodo primordiale. Non sarà mai come allo stadio, né può esserlo. E poi, sinceramente, non so quanto sia cambiato. Questa della mutazione la trovo, spesso, un luogo comune.

harrismaiden

Steve Harris degli Iron Maiden

QL: Ma allora non sarà una questione di pura e semplice nostalgia per l’infanzia? Come quando uno è un metallaro da primo adolescente e poi gli si bagnano gli occhi ogni volta che sente “Transylvania” degli Iron Maiden?

CH: No, non sarà mai così. Perché qui, a differenza di altre passioni, tutto scorre. Qualunque Iron Maiden, a un certo punto, invecchia, fa cose commerciali, ti delude o resta fissato in un’epoca. Il calcio no: in ogni epoca produce nuovi eroi.

QL: Ma come ti permetti? Ma cosa ne sai tu degli Iron Maiden?

CH: Mi piacciono le band, con chi credi di parlare? È che non riesco più ad amare quelle che amavo, oppure le amo oggi per quello che erano ieri. Prendi i Rolling Stones: sono come una partita fra vecchie glorie. Il calcio no, non lo sarà mai: perché ogni generazione ama gli idoli comuni del passato, ma anche i propri contemporanei.

QL: Torniamo al calcio: al meccanismo con cui si sviluppa la passione. Mi pare di capire che un certo ruolo lo giochino i padri, o i nonni, insomma i maschi della famiglia. Questo spiegherebbe il mio totale disinteresse per il calcio: mio padre se ne frega tanto quanto me. In questo il calcio sembrerebbe seguire una traiettoria diversa dall’amore per la musica, tanto per restare in tema, per il quale invece spesso è proprio il contrasto con i padri a fare da molla.

CH: No, direi di no. Il padre è un possibile inizio, ma poi ci sono la scuola, gli amici, la parrocchia, la scuola calcio, la piazza. Ognuno ha il suo, di vocabolario, ma è una lingua che impari da bimbo. Poi la puoi rimuovere, allontanare, ma l’hai imparata, anche se non la parli più o decidi che non ti piace.

QL: Come ti sarai accorto, non mi interessa parlare dei Mondiali. Vorrei evitare i luoghi comuni di tutti: il baraccone, i soldi, la globalità, blablabla.

CH: Bravo, questo è un ragionamento da amante del calcio vero, senza rendertene conto.

QL: Mio padre mi starà togliendo dal testamento. Ma la domanda è un’altra: esiste una differenza sostanziale per un vero appassionato tra tifare la Nazionale e tifare la propria squadra?

CH: Sì, la differenza è enorme, e credo che sia la differenza che passa tra il fanatismo e la passione. È indicativa. Ai Mondiali c’è un intero mondo che traspone la sua passione in una dimensione di cecità, quella che ti fa godere per l’infortunio dell’avversario, per la rete ottenuta con l’inganno. In quella dimensione, tutto diventa una questione di semplici colori, come con i vecchi comuni, e oltre quelli, non c’è nulla. A me invece piace la sintesi, e la Nazionale è un’espressione collettiva. Una cosa ben diversa dal nazionalismo, please.

QL: Ma non credi che la differenza sia solo di scala, in fondo? Cioè, alla fine il campionato italiano è un palio paesano, e il Mondiale è un torneo tra feudi. Ma la sostanza non cambia: si tratta sempre di qualcuno che vuole dominare, o annientare, qualcun altro.

CH: No. Si parla di emozioni, sempre, e la scala diventa globale, il teatro mondiale. Sullo stesso palco, in un mese, sfila il più grande concentrato di talento planetario. I Mondiali mi fanno sentire come si può essere sentito un amante della musica, visto che il tema ti è caro, a Woodstock. E poi è relativo: per me che si tratti di Manchester o Barcellona, è sempre febbre, storia, aneddoti, anche se non gioca la mia squadra.

QL: Tutte queste sono parole molto belle, però io adesso la domanda cattiva te la devo fare, e te la devo fare perché chi come me guarda il calcio da lontano, non necessariamente da snob ma da perplesso, questa domanda ce l’ha sempre in tasca: ma il calcio, nella sua dinamica di gruppo che soggioga un altro gruppo, e nel suo corollario di adesione popolare schiava degli slogan, dei simboli e della coreografia, alla fine non è un po’ fascista?

CH: I partigiani che sfilano per le vie di Milano sono fascisti? L’iperbole è aggressiva, ma hai cominciato tu.

QL: Io sono QLAUS, bello. Essere aggressivo è la mia prerogativa.

CHICCO_QLAUS_AL BAR

QLAUS e Christian Elia

CH: Ma non la mia, però non ti lascio passare facile: giocavo, male, da stopper.

QL: Però i partigiani non c’entrano niente, perché hanno smesso di combattere 70 anni fa.

CH: Pure i fascisti, che ora sono come un concerto degli Iron Maiden. O come Camus, Pasolini, Marley, Sartre… Continuo? No dai, ché si diventa banali.

QL: Però la mia domanda, che tu hai interpretato come aggressiva perché ti ho costretto in difesa, era più personale: tu non li vedi i tratti comuni con certe derive?

CH: La deriva è la medesima, fuori e dentro lo stadio. Solo che per comodità, si fanno dei distinguo. Perché immagini un luogo come facile alla deriva, mentre tutto attorno vanno in pappa le coscienze? Perché un ultras che fa il saluto romano è peggio di un consigliere comunale che a Milano partecipa alla commemorazione della Repubblica Sociale? Allo stadio c’è tutto, come fuori. E non è un bel momento, né dentro, né fuori.

QL: Stranamente mi sono espresso male, ma quello che intendevo era…

CH: Stranamente…arrogante come un centravanti francese

QL: Inglese, casomai. Comunque, sia: il rito e il meccanismo del calcio non sono retaggi da epica delle medie? La patria, l’onore, la squadra, la vittoria, la conquista, la forza fisica… Che noia, non è tutta roba da gente che poi si mette la locandina di “300” come copertina del profilo Facebook, con gli spartani che cenano all’inferno?

CH: Se ci vedi solo quello ti rispondo di sì, ma ci sono persone che ti fanno questo ragionamento anche per i due Marò. Non capisco perché agli appassionati di calcio sia sempre richiesto di essere migliori del mondo in cui vivono.

QL: Forse perché ci avete rotto le palle con questa favola dello sport che rende tutti più buoni.

CH: Il buonismo lo lascio al rugby. Noi siamo brutti, sporchi e cattivi: siamo come voi. Per me, ad esempio, il calcio è riscatto. Ripenso a Grecia-Germania degli Europei di due anni fa. Io credo che in tutto il mondo, ma proprio in tutto il mondo, Germania esclusa, si sognò un sorriso, un momento di riscatto, un’occasione per capovolgere il mondo. Ecco, il calcio è questo: è uno dei pochi posti al mondo dove i ricchi non vincono sempre, dove non basta essere ricchi per vincere sempre. Non me ne vengono in mente molti altri.

QL: È uno spunto interessante. In un certo senso giustifica il perché il business abbia di fatto depredato il calcio. Perché è un campo sempre fertile di aspettative e di speranze.

CH: Già, certo. Comunque il business lo si fa su qualunque passione, a te appassionato di musica non lo devo certo insegnare io. Però poi magari capita che lo sceicco che si è comprato il Paris Saint Germain esca dalla Coppa di Francia contro una squadra di postini della Normandia.

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Sylvester Stallone in Fuga per la vittoria

QL: Sì vabbé, il buonismo si spreca. Parli come se il calcio fosse davvero un film in cui dei prigionieri scappano dai nazisti solo perché Sylvester Stallone, uno che gioca a calcio persino peggio di me, para un gol.

CH: Infatti “Fuga per la vittoria” è ispirato a una storia vera. Diciamo che il calcio è anche una vacanza della ragione. Un viaggio nel sentimento, anche se credo che tiri fuori il peggio di me, a volte.

QL: Vabbè, ma quando gioca l’Italia?

CH: Domani. C’è Italia-Inghilterra. Sai cosa diceva Winston Churchill? “Gli italiani fanno la guerra come fosse una partita di calcio, la partita di calcio come fosse una guerra.” Un gran bel complimento, secondo me. Per me ogni Italia-Inghilterra è una storia, condivisa con milioni di persone. Altro che buonismo… è un romanzo collettivo, popolare. Già, sponsor e miliardi a parte, resta popolare. Una droga, quasi.

QL: Peraltro giocano a mezzanotte, l’ora migliore per trovare uno spacciatore.

CH: Ma smettila. Invece è bello, straniante… ma te le ricordi le trombette delle partite a Tokyo? Ma figurati, perdo il mio tempo…

QL: Trombette? Tokyo? …

CH: Ma sì, sveglia alle 4, tutti a casa di qualcuno, Coppa Intercontinentale. Poi l’hanno violentata, creando il mondiale per club, ma la mia nostalgia non riguarda quei ventenni che il Mondiale per club se lo godono alla grande. Capisci? A ciascuno i suoi vent’anni, questo è il calcio. Fantastico.

QL: Guarda, io mi ricordo solo Paolo Rossi.

CH: Ecco, appunto, Paolo Rossi… perché Paolo Rossi?

pertini partigiano

Sandro Pertini partigiano

QL: Me lo ricordo perché ero ragazzino, ed è bello ricordare il tempo in cui si era ragazzini. E perché è un ricordo che non ho filtrato ex post: è rimasto lì, intatto. La stessa cosa ad esempio non è successa con Pertini: non riesco a vederlo come il vecchietto che gioca a carte con Bearzot sull’aereo. Per me Pertini è il partigiano, quello che ha ordinato la Liberazione, mica il nonnino buono e consolatorio di una nazione orfana di padri autorevoli.

CH: Sì, ma io ci giuro che sotto la pipa, al Santiago Bernabeu, mentre li battevamo 3 a 1, Sandro Pertini godeva due volte.

QL: Secondo me ha goduto di più quando ha ordinato la fucilazione di Mussolini, ma questa non la scriviamo. Anzi, invece sì che la scriviamo. Perché una delle colpe che per me ha il calcio è proprio quella di aver normalizzato una figura come quella di Pertini, neutralizzandola come un vecchietto che gioca a carte ed esulta allo stadio. Per molti nostri connazionali lui è il “presidente degli italiani” solo perché tifava la Nazionale, mica perché ha liberato attivamente l’Italia dai nazifascisti. Perle ai porci.

CH: Certo! Ma al 3-1 a qualche fottuto ex-carceriere, ci avrà pensato.

QL: Ecco, guarda, mi piace chiudere qui allora: con un ex-partigiano che ride e un ex-nazista che piange.

CH: D’accordissimo. Ma c’è un problema. Se quando c’era Paolo Rossi avevi vent’anni, ora tutti sapranno quanti anni hai! Ma del resto si era già capito con gli Iron Maiden…

QL: L’età è un problema solo per voi che vorreste essere ancora ragazzini, e per questo vi imbambolate guardando un pallone che rotola.

CH: Il pallone non mi abbandonerà mai, la giovinezza sì.

QL: Patetico.

CH: Snob.

QL: Ma domani sera, facciamo da te o da me?

CH: Da me, ma porta “The Number of the Beast”, che ce lo ascoltiamo durante l’intervallo.

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