Iraq, pensieri impensabili

Riflessioni sulla natura e gli obiettivi dell’ISIS, da parte di un veterano di guerra, oggi attivista di pace

di Ross Caputi*, tratto da Osservatorio Iraq

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18 giugno 2014 – L’Iraq torna al centro del dibattito e dell’interesse dei media mainstream: ma le notizie che vengono diffuse non tengono conto di alcuni fattori, ed è del tutto assente il punto di vista iracheno. Se l’ISIS non fosse un attore isolato e Mosul fosse stata “liberata” invece che “conquistata”? Ross Caputi, veterano di guerra, oggi attivista per la pace, fornisce un quadro alternativo della situazione.

Negli ultimi giorni l’Iraq è riemerso dai meandri della memoria collettiva statunitense per tornare ad essere scottante argomento di conversazione. Titoli allarmanti sulla “presa del potere” di Mosul da parte dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) e della sua marcia verso Baghdad hanno sollecitato una serie di reazioni opposte.

L’appello di stampo più conservatore è quello che incita ad un nuovo intervento militare diretto dagli Usa, in modo da garantire che il governo di Nouri Al-Maliki rimanga saldo al proprio posto a Baghdad. I più liberali invece lamentano che le continue violenze e le divisioni all’interno dell’Iraq sono state causate dall’occupazione americana.

Fighters of  al-Qaeda linked Islamic State of Iraq and the Levant parade at Syrian town of Tel Abyad

Entrambi, tuttavia, non si sforzano minimamente di fare una distinzione tra le violenze dell’ISIS e quelle del governo di Al-Maliki.

Questo insieme di idee e prospettive è affascinante, e la dice lunga sulla cultura bellicista diffusa da noi: ma ancora di più fanno luce su tutti quegli elementi che vengono completamente omessi dal dibattito.

E’ infatti del tutto assente il punto di vista degli iracheni, così come le tematiche che stanno loro a cuore: responsabilità, indipendenza, resistenza. Inoltre, le reali complessità della questione attuale si sono ovviamente perse tra gli innumerevoli binomi tanto cari ai media occidentali: terrorismo/antiterrorismo, bene/male, insurrezione/stabilità.

Se solo osassimo prendere seriamente in considerazione le voci irachene e andare oltre il quadro logico che ci viene offerto dai mezzi di informazione di massa, ne risulterebbe un affresco dell’attuale situazione di violenza in Iraq molto diverso, e una più vasta gamma di opzioni per cercare di ottenere pace e giustizia.

LA CRESCITA DELL’ISIS

Un anno fa l’ISIS concentrava le sue azioni in Siria, ed era quasi assente in Iraq. Durante questo periodo un movimento di protesta nonviolento, auto denominato Iraqi Spring, era in piena attività e riceveva un diffuso supporto nelle province a maggioranza sunnita e un significante appoggio da alcune province sciite.

Questo movimento ha organizzato sit-in di protesta nonviolenti in diverse città in tutto il paese nell’arco del 2013.

Le richieste dei manifestanti si articolavano principalmente nella fine della marginalizzazione della comunità sunnita all’interno della struttura della “nuova democrazia” irachena; la riforma della legge anti-terrorismo che sotto Al-Maliki è stata spesso utilizzata per marchiare il dissenso politico di “terrorismo”; l’abolizione della pena di morte e la fine della corruzione. Il movimento si schierava inoltre contro il federalismo e le divisioni confessionali.

Invece di prendere in considerazione l’ipotesi di fare concessioni ai manifestanti, in modo da calmare la loro rabbia, il primo ministro ha ignorato le loro richieste e ha scelto di utilizzare la forza militare per attaccarli in più occasioni.

Nel corso dell’anno gli attivisti sono stati attaccati, uccisi, rapiti, e i loro leader assassinati, ma ciononostante sono rimasti saldamente legati alla loro strategia nonviolenta. Questo fino a quando Al-Maliki ha inviato forze speciali di sicurezza nei sit-in di protesta di Fallujah e Ramadi nel dicembre 2013: a quel punto la speranza di continuare con l’approccio nonviolento è venuta meno, ed è stato inevitabile virare sulla resistenza armata.

E’ importante notare che sin dall’inizio, tuttavia, la lotta armata è partita da milizie tribali che hanno poi assunto la leadership delle azioni contro il governo. L’ISIS è arrivato soltanto in un secondo momento in supporto agli abitanti di Falluja e soprattutto per approfittare del loro successo per promuovere i propri obiettivi politici.

Una struttura di comando è stata allestita a Falluja durante le prime settimane di battaglia. Era composta principalmente da leader tribali ed ex ufficiali dell’esercito, e ha preso il nome di General Military Council for Iraqi Revolutionaries.

Questo Consiglio era guidato dallo Sheikh Abdullah Janabi, a capo anche del Consiglio della Shura dei Mujiaheen di Falluja nel 2004. Dopo il secondo attacco della città ad opera delle truppe statunitensi, Janabi è volato in Siria, per tornare in Iraq soltanto nel 2011. Il suo appello alla cooperazione tra le varie fazioni militanti a Falluja, all’epoca, è stato un fattore di unificazione determinante.

Nonostante le evidenti differenze tra i vari gruppi militanti a Falluja, il governo iracheno ha insistito a trattare tutti i combattenti come terroristi. Un ufficiale del governo l’ha chiaramente affermato alla Reuters: “Se qualcuno continuerà a voler combattere contro di noi, sarà considerato un militante (dell’ISIS), che lo sia davvero o meno”.

Il governo iracheno ha quindi lanciato un campagna di bombardamenti indiscriminata che sino ad oggi ha ucciso 443 civili e provocato 1657 feriti a Falluja, causando la fuga di oltre 50.922 famiglie dalla provincia di Anbar.

L’ospedale della città è stato colpito più volte, e i quartieri residenziali sono stati bombardati per sei mesi consecutivi. Struan Stevenson, presidente della Delegazione del Parlamento Europeo per le relazioni con l’Iraq, ha scritto una lettera aperta in cui ha definito le operazioni del governo iracheno un “genocidio”. 

Nel corso dei mesi di battaglia contro il governo centrale, l’ISIS ha accresciuto la sua potenza. Il suo accesso a fondi e armi lo ha reso un gruppo attrattivo per giovani sunniti che non vedono la possibilità di un futuro dignitoso in Iraq fin quando al-Maliki resterà al potere.

Molte delle reclute che hanno ingrossato le fila dell’ISIS sono gli stessi uomini che manifestavano in modo nonviolento solo un anno fa.

Molti di loro restano contrari all’idea di federalismo e divisioni su base confessionale centrale nella piattaforma politica di ISIS. Quello che però li avvicina al cuore dell’ideologia del gruppo  è il disperato desiderio di liberarsi del primo ministro, che li ha lasciati senza scelta se non quella di agire al di fuori del sistema politico per cercare di vivere la propria esistenza in Iraq in modo più dignitoso.

INSURREZIONE O RIVOLUZIONE?

Questa settimana i media mainstream hanno diffuso la notizia della conquista di Mosul, la seconda città per grandezza in Iraq, da parte dell’ISIS, che si stava preparando a marciare su Baghdad.

In questa ricostruzione, però, due ipotesi sono state date però per scontate: che ISIS fosse un attore solitario, e che Mosul fosse stata “conquistata” piuttosto che liberata. E’ questione di dati di fatto e di prospettive. 

Anche il New York Times ha fatto notare che l’ISIS ha collaborato con diverse milizie locali a Mosul, tra cui i Baathisti e gruppi islamisti, anche se l’importanza di questo elemento non è stata compresa.

Se si riconosce che l’ISIS ha collaborato e continua a collaborare con diverse milizie in diverse città, inizia a divenire chiaro che non si tratta di un attore isolato che tenta di conquistare un territorio per la costituzione del futuro Stato islamico. Piuttosto, sembra che ISIS sia solo una delle fazioni in un più largo contesto di ribellione popolare contro il governo di Nouri al-Maliki.

Quando 500 mila abitanti di Mosul hanno abbandonato la loro città all’inizio di questa settimana, non l’hanno fatto per paura che l’ISIS li avrebbe sottoposti alla Sha’aria: l’hanno fatto piuttosto per timore di rappresaglie da parte del governo. Molti hanno addirittura espresso gratitudine ai combattenti per aver cacciato le forze di sicurezza di al-Maliki fuori dalla loro città.

Quest’ampio fronte di milizie – da quelle tribali di Falluja a quelle Baathiste come Naqshabandi, ai gruppi islamisti come ISIS – è riuscito ad incarnare le aspirazioni dei sunniti in Iraq, che sperano un giorno di essere liberati dall’oppressione di Al-Maliki.

Per loro non esistono altre opzioni, nessun futuro è immaginabile, a non c’è possibilità di tornare indietro.

UN PASSO AVANTI

Il presidente Obama ha annunciato che gli Stati Uniti non intendono intervenire in Iraq fin quando il governo centrale non farà concessioni alla comunità sunnita, privata di diritti civili e politici. Ma, di contro, ha già incrementato “l’assistenza in termini di intelligence e sicurezza”, e non ha mostrato cenni di voler diminuire il proprio sostegno in termini di armi fornite al governo centrale.

Mentre criticano apertamente le politiche settarie del governo di Al-Maliki, gli Stati Uniti stanno aiutando e facilitando questo “genocidio” contro la popolazione sunnita, in atto da mesi.

L’impunità del governo iracheno non è mai messa in discussione nel dibattito in corso negli Stati Uniti: è semplicemente inimmaginabile infatti che Al-Maliki possa essere ritenuto responsabile per i crimini di guerra che il suo regime ha commesso contro il suo stesso popolo. Allo stesso modo è impensabile l’idea che il suo regime possa cadere, e che gli iracheni possano essere in grado di smantellare il sistema di corruzione e le istituzioni che l’occupazione guidata dagli Stati Uniti hanno imposto loro per anni.

Dobbiamo prendere seriamente la legittimità della resistenza sunnita, così come il timore che gruppi come ISIS tentino di imporre la Sha’aria agli iracheni.

Le diverse comunità in Iraq, oggi spaccate, devono decidere da sole del proprio futuro, senza l’interferenza di Washington o di Teheran.

E, ancora più importante per noi, come statunitensi: è necessario compiere uno sforzo per analizzare le questioni al di fuori del paradigma imposto dal pensiero politico dominante, cercando di guardare alle cose attraverso gli occhi di chi ne è maggiormente colpito.

Dobbiamo rispettare le idee e i valori del popolo iracheno, la loro politica e la loro cultura, e il loro diritto di autodeterminare il proprio futuro, liberi da interferenze straniere.

*Ross Caputi, 29 anni, è un veterano statunitense. Di stanza in Iraq nel novembre del 2004, ha preso parte alla seconda battaglia di Falluja. Quell’esperienza lo ha portato a diventare un attivista contro la guerra. Oggi è a capo di ISLAH, organizzazione creata “per chi sente di essere stato complice di operazioni di guerra e occupazione, e vuole assumersi la responsabilità dei crimini commessi in loro nome”. Ha diretto e prodotto il documentario “Fear Not the Path of Truth. Ritorno di un veterano a Falluja”.

**La traduzione dall’inglese è a cura di Cecilia Dalla Negra. Per la versione originale dell’articolo, pubblicato secondo licenza Creative Commons Attribution Share Alike 3.0, è disponibile qui.

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