In nome di Benjiamin. Benjiamin Dummai

Ventimila ettari di terra concessi in gestione a una società italo-senegalese. Per molti è un business redditizio, per le famiglie dei villaggi senegalesi è solo accaparramento di terra . Land Grabbing

 

di Lorenzo Bagnoli, foto di Germana Lavagna, da Saint Louis, Senegal
@Lorenzo_Bagnoli e @germanalavagna

 

25 giugno 2014 – Benjiamin è appollaiato sulla schiena della mamma, dorme. Suo padre Salif Dibi Sow lo indica, pieno di orgoglio, mentre ci accompagna dentro la sua capanna. Indossa una maglia blu scolorito, con una grossa scritta bianca. Senhuile, si legge.
Salif abita a Yetti Yonne, un agglomerato disordinato di paglia e mattoni che sorge a cavallo di un canale
. «Mio figlio si chiama come il direttore di Senhuile», dice. Dalla capanna si vede la base di questo mega progetto. Affiorano in lontananza i profili blu dei tir della Volpi trasporti e i container ammassati come fossero pezzi di Lego.

Senhuile è una società italo-senegalese, controllata al 51% dalla romagnola Tampieri Financial group e al 49% dal gruppo senegalese Sénéthanol, a cui il 20 marzo 2012 l’ex presidente Abdoulaye Wade ha concesso con un decreto ministeriale 20mila ettari di terra.

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Il Benjiamin direttore dell’azienda all’anagrafe fa Dummai, ha passaporto israeliano e brasiliano e sulle spalle una condanna per evasione fiscale in Brasile.
Dal 18 maggio è in carcere a Dakar dove è accusato di aver sottratto all’azienda quasi 500mila dollari. Una storia controversa, quella della nuova nata del Gruppo Tampieri: il progetto aveva come meta originaria Fanaye, una comunità agricola a 5 chilometri dal confine con la Mauritania. All’epoca, fine 2010- inizio 2011, l’obiettivo della dirigenza era produrre bioetanolo dai semi di olio di girasole.

Era stata la comunità rurale, l’autorità a cui è in capo la gestione delle terre, ad approvarne la realizzazione, concedendo anche in quel caso 20mila ettari di terra. Ma nei villaggi attorno, ancora oggi, la popolazione dice di non essere mai stata avvisata di questa espropriazione in corso. Di aver visto “les machines” di Senhuile-Sénéthanol tagliare gli alberi e prendersi la terra.

Così è montata una protesta che si è chiusa in tragedia, ad ottobre 2011, con due morti da arma da fuoco durante un’assemblea pubblica del Consiglio rurale.

Il fatto di sangue ha obbligato Wade, al tempo ancora presidente del Senegal, ad arrestare il progetto. Fino al 20 marzo 2012, quando con due decreti, cinque giorni prima del secondo turno delle presidenziali in cui era ampiamente prevista la sua sconfitta, in contemporanea declassa una riserva naturale in modo da renderla terreno agricolo e ne affida 20mila ettari a Senhuile – Sénéthanol. E così Saif , pastore a Yetti Yonne, si trova il progetto sull’uscio di casa.

Gli occhi vispi, la pelle secca che sembra una corteccia, un principio di barba bianca: dimostra il doppio dei 38 anni che porta sulla carta di identità. Salif Dibi Sow ha sentito le voci sul conto di Benjiamin Dummai. Ma poco gli importa: da quando c’è Senhuile è riuscito a strappare qualche lavoro giornaliero (anche se dice di non avere mai firmato contratti), che gli frutta più denaro di quanto non ne porterebbe a casa facendo il pastore, il mestiere che fa da sempre. «Poi i miei animali pascolano là – indica – fuori dalla proprietà di Senhuile».
È al corrente che che molti villaggi della regione, difficile dire quanti, sono contrari. «Il progetto ha recuperato l’acqua, ne porta più di quanta non ce ne sia mai stata – spiega -. La gente contro ha visto solo i propri alberi distrutti e le terre occupate. Non hanno ottenuto un lavoro e non sanno dove mandare i loro animali».
E così la comunità si divide tra chi trova profitto dal nuovo arrivo e chi non si trova più la terra dove era solito pascolare i propri animali. Action Aid, Grain, Enda Pro Nat, Re:Common, Oakland Institute, il Collectif de la défense de la réserve de Ndiaël e il Consiglio Nazionale per la Consultazione e Cooperazione Rurale chiedono da un anno di chiudere il progetto. Perché 20mila ettari sono difficili anche solo da immaginare, figuriamoci da coltivare. Ci sono villaggi e famiglie di mezzo, la comunità è divisa. Secondo le associazioni questa cessione di terra che il Senegal ha fatto a un’azienda si chiama land grabbing.


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