La faccia triste del Brasile

Nella foresta Amazzonica intere comunità di indios iniziano a lasciare i loro habitat, altre rischiano di scomparire per sempre. E per Brasilia l’unica cosa che conta è la crescita del Pil

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/05/foto.jpg[/author_image] [author_info]foto e testo di Tano Siracusa. Fotografa dagli anni ’80. Ha collaborato con numerose testate ed è stato direttore della periodico Fuorivista. Attualmente è coordinatore di redazione di Gente di Fotografia. Ha realizzato numerose mostre in Italia e all’estero. www.tanosiracusa.it[/author_info] [/author]

26 giugno 2014 – Nella foresta amazzonica brasiliana ci sono 77 gruppi umani ‘isolati’: così li definisce il FUNAI, l’ente governativo preposto alla protezione degli indios. Si tratta di gruppi a volte di poche decine di individui, che hanno deciso di isolarsi nella foresta, sopravvissuti alle stragi degli allevatori e delle compagnie del legname, alle malattie contratte attraverso il contatto con i coloni bianchi, come la polmonite.

Sono quelli che tirano le frecce contro gli elicotteri che li sorvolano. Alcuni gruppi rimangono nomadi, altri sono più stanziali. C’è ancora territorio a sufficienza: il FUNAI di recente ha delimitato un territorio per un individuo solo, sopravvissuto a chissà quale catastrofe abbattutasi sul suo gruppo, che rifiuta in modo assoluto qualunque tipo di contatto. E poi ci sono ancora quei gruppi che non sanno che fuori dalla foresta c’è un altro pianeta, che non sanno che esistiamo.

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Queste poche persone, al massimo qualche migliaio, sono le uniche che in Brasile non vedranno i campionati del mondo di calcio. Gli Arawete invece li stanno seguendo.
In ciascuno dei loro sei villaggi lungo il fiume Kingsu c’è infatti il gruppo elettrogeno e un televisore che guardano la sera, seduti o sdraiati per terra davanti una capanna o in uno spazio comune.
La città, Altamira, è a qualche ora di navigazione lungo il fiume, e adesso che una compagnia privata ha regalato a molti arawete una barca con il motore i rapporti con la città si sono intensificati, provocando anche numerosi incidenti dovuti all’imperizia e al loro modo spericolato di guidare le imbarcazioni.

Soprattutto vi si recano spesso i giovani, che si aggirano poi spaesati fra le case basse della città, nei posti dove si può comprare una maglietta del Brasile con il numero 10, dove si può bere coca cola o comprare l’alcol, che fino a quattro anni fa non bevevano e la cui diffusione preoccupa molto il personale del FUNAI perché ha già disastrato diverse etnie.

Gli arawete sono circa 400, hanno una loro lingua ma ormai parlano anche un po’ il portoghese, perché oltre a fornire il televisore il governo brasiliano ha istituito una scuola in ogni villaggio. Gli insegnanti, che condividono la vita degli indios – meglio, che ne condividono il tempo libero, non essendo né cacciatori né pescatori – stanno molto attenti a non contribuire alla ulteriore disgregazione della loro cultura.
Nel 2010 una coppia di insegnanti brasiliani, pastori di una delle tante chiese cristiane, non diceva nulla agli indios né del cristianesimo né della sfericità della terra. E neppure avevano voglia di parlare con estranei dell’infanticidio gemellare che gli arawete praticano, probabilmente inorriditi dalla duplicazione, da quel perfetto mimetismo del doppio studiato da René Girard e attestato da molti etnologi in varie parti del mondo.

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Il FUNAI, il governo brasiliano, vigilano: servono permessi speciali, autorizzazioni, molta pazienza per raggiungere i sei villaggi, dove vivono tutti gli arawete. Il territorio è vasto, ed è sufficiente scendere di qualche chilometro lungo il fiume e in pochi giorni si costituisce una nuova e più frazionata comunità: l’abbondanza di territorio consente in questo modo di superare i conflitti interni che, almeno da quando sono stati per la prima volta censiti alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, non hanno mai prodotto incidenti gravi. Quando il villaggio è troppo poco numeroso e i rapporti di parentela troppo stretti i ragazzi vanno a cercare la sposa in un altro villaggio.

Le premure del governo brasiliano per la tutela dell’integrità culturale degli indios appaiono tuttavia contraddittorie.
Sullo schermo del televisore scorrono le immagini di un altro pianeta, città sfavillanti di luci e grattacieli, un pianeta di cui Altamira è solo un piatto e buio avamposto.

Non sono soltanto il televisore e la diminuita lontananza dalla città a corrompere e destabilizzare culturalmente gli arawete. Anche la presenza dell’infermeria ha una sua ambivalenza. Assieme alla scuola in ogni villaggio c’è un’infermeria e un infermiere che la abita. In una di queste infermerie, dentro un recipiente di vetro si vedono le spoglie di tre serpenti velenosi uccisi dall’infermiere con il machete. Serpenti, topi, scarafaggi, entrano ed escono dai locali di questi avventurosi presidi sanitari.
I farmaci sono pochi e di cattiva qualità.

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Mancano gli antibiotici, le medicine efficaci per l’ipertensione, le apparecchiature elementari da pronto soccorso, per non parlare di ciò che occorre per le patologie gravi, che rendono necessario il ricovero nell’ospedale per gli indios di Altamira, sovraffollato da persone appartenenti a diverse etnie, che dormono separate, reciprocamente diffidenti, nelle camere dove hanno appeso le amache.
E tuttavia questi sgangherati ed eroici avamposti sanitari della medicina occidentale sono sufficienti per screditare una figura un tempo rilevante nei villaggi, quella dello sciamano, depositario del sapere, della conoscenza delle erbe e delle parole, delle danze, di droghe e preghiere che servivano per ogni malattia. Ormai, se il vecchio sciamano inizia una danza rituale la sera davanti alla gente del villaggio sdraiata sulla terra battuta, a seguirlo sono in pochi.

Nell’ospedale di Altamira hanno separato le diverse etnie perché le guerre fra di loro ci sono state, e gli anziani ne hanno memoria. Potrebbero raccontarle la sera come si faceva prima: le guerre, le vecchie storie, le leggende, i miti. Solo che adesso la sera c’è il televisore con la telenovela che tutti in Brasile stanno vedendo.
Tutti gli anziani, non solo gli sciamani, presso gli arawete stanno scendendo rapidamente nella gerarchia del prestigio sociale. Il capo del più grande dei sei villaggi è un trentenne. Una volta i giovani parlando con gli anziani abbassavano lo sguardo in segno di rispetto. Adesso non è più così.

I ragazzi ridono quando un vecchio, invitato da un medico volontario, suda e fatica per accendere il fuoco con i legnetti. Ormai tutti hanno gli accendini. E anche le lampade con le batterie, a causa delle quali perderanno quella visione notturna che permette ai ragazzi di giocare a pallone dove un cittadino non vede nulla a un metro di distanza.

Il televisore, l’infermeria, e anche la scuola, con i suoi orari sia pure approssimativi e soprattutto con l’insegnamento del portoghese, contribuiscono in misura diversa alla confusione culturale degli indios. La lingua portoghese, come ogni lingua, non è soltanto un sistema funzionale di segni, ma è anche una macchina pensante secondo regole proprie e che pensa un mondo diverso dal loro.
I fucili stanno sostituendo gli archi e le frecce, il motore i remi, un telefono sta sostituendo la pazienza dell’attesa, le magliette i tatuaggi, quel colore rosso che ancora orna la pelle di alcune donne.
Ma se queste possono essere conseguenze collaterali e in parte non volute di un intervento statale che si prefigge come obiettivo di fondo il miglioramento delle condizioni di vita degli indios, la stessa cosa non si può dire se si guarda alle strategie complessive dello Stato e a quello che succede fuori dalla foresta, dove il campionato mondiale di calcio ha scoperchiato la pentola del malcontento e della protesta, rovente ormai per il fuoco della cultura del PIL e della sua crescita illimitata.

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Le preoccupazioni per l’integrità degli indios cessano infatti se è in gioco il PIL nazionale. È per la sua crescita accelerata che le masse premono e per lo stesso obiettivo lavorano i governi di tutto il mondo. Anche quello di Lula che ha voluto le due dighe sul fiume Madeira e i cui lavori sono cominciati con il governo di Dilma Rousseff, malgrado le proteste di molte etnie e di alcune pop star del cinema e della musica: e già alcuni gruppi di indios si sono allontanati dal loro habitat a causa dei rumori e dell’inquinamento provocati dai primi cantieri. È previsto che alla fine alcuni territori abitati da etnie scompariranno. È previsto che un affluente del fiume diventerà un ruscello in un vasto territorio abitato da indios.

Non sarà così per gli arawete, che nel loro fiume pescano, lavano gli indumenti, si tuffano e giocano, e ai quali hanno dato rassicurazioni che potranno continuare a farlo.
Perciò la sera possono sdraiarsi soddisfatti anche loro sulla terra battuta del villaggio davanti il televisore acceso, fra i cani, le galline, i pappagalli colorati con le ali tagliate, e tifare per la squadra di uno Stato di cui, fino a pochi decenni fa, non sapevano nulla.

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