San Calò, il santo nero

Ad Agrigento il culto del santo germoglia nel paesaggio remoto del basso medioevo, e ibrida elementi berberi, precristiani, bizantini e ispanici, compenetra storia e mito

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/05/foto.jpg[/author_image] [author_info]foto, video e testo di Tano Siracusa. Fotografa dagli anni ’80. Ha collaborato con numerose testate ed è stato direttore della periodico Fuorivista. Attualmente è coordinatore di redazione di Gente di Fotografia. Ha realizzato numerose mostre in Italia e all’estero. www.tanosiracusa.it[/author_info] [/author]

4 luglio 2014 – In occasione della finale Italia Spagna degli ultimi campionati europei di calcio, la fama di s. Calò volò da Agrigento e raggiunse Madrid.

Era il 2012 e qualcuno aveva scoperto laggiù la veritiera notizia che durante i precedenti campionati del mondo di calcio vinti dall’Italia nel 2006, il rientro del santo in chiesa dopo la processione era stato celebrato assieme ai festeggiamenti per la vittoria della nazionale, evidentemente propiziata dal suo miracoloso influsso. E che l’identica coincidenza era avvenuta anche nel lontano 1982, quando l’Italia aveva vinto la finale contro la Germania. Si temeva in Spagna una replica del miracolo che, come è noto, non ci fu.

Dopo la sconfitta dell’Italia contro i fenomeni spagnoli El Pais titolò: Ni con l’ayuda di s. Calogero. L’articolo cominciava: A la tercera s. Calogero se fallò.

Non sapevano in realtà di cosa parlavano. Non lo sanno bene neppure gli agrigentini chi fosse veramente s. Calò, neppure quelli che per lui vanno pazzi. Esile e solenne, curvo sulle mani aperte come un leggio e lo sguardo stupefatto, spalancato sul libro delle meraviglie che sta leggendo.

Legge o sogna, contempla sbalordito ciò che noi non vediamo. Fuggiva da oriente o dalla costa africana dove dominavano i Vandali seguaci dell’eresia ariana. Sullo sfondo l’impero di Giustiniano, la Sicilia ancora bizantina, mentre le prime testimonianze scritte su di lui risalgono al IX secolo, cioè più di trecento anni dopo.

 

 

Il culto del santo germoglia nel paesaggio remoto del basso medioevo, e ibrida elementi berberi, precristiani, bizantini e ispanici, compenetra storia e mito, offrendosi allo studio di antropologi, studiosi delle religioni e delle tradizioni popolari. Ma di s. Calò non vi può essere scienza, solo letteratura, anche grande letteratura: Politi, Pirandello, Camilleri, ma soprattutto Biondi, Settimio Biondi, custode di tutto lo scibile sul santo e fascinoso, funambolico scrittore, autore di un formidabile saggio-racconto, ‘Una festa americana’.

Quello che accade ogni anno è comunque sotto gli occhi di tutti. Verso mezzogiorno, appena finita la messa, in chiesa irrompe una folla scalmanata e vociante, preceduta dai portatori che a spalla trascinano nel ventre buio della chiesa la grande piattaforma di legno su cui verrà poggiato il simulacro del santo.

I preti sono spariti. Dentro l’unica navata i fedeli stanno in piedi sulle panche, mentre sotto di loro la ressa cresce con l’attesa, con il clamore e con il caldo soffocante. Appena la statua viene issata sulla piattaforma i più giovani balzano sulla vara e aggrappati l’uno all’altro, fra urla e spintoni, imprecazioni ed evviva, lo abbracciano e lo baciano sulla bocca, cominciano ad asciugargli il sudore, fanno volteggiare davanti al suo volto terreo, agli occhi spalancati sul libro aperto, i neonati che urlano terrorizzati e che vengono affidati alla sua protezione.

Fuori, nella piccola piazza infossata, la folla attende sotto il sole furioso della prima domenica di luglio, eccitata dal rullo africano dei tamburi, dalla birra, da una musichetta spiritata che la banda suona ininterrottamente, anche perché se non suonano la folla protesta.

E alla fine il santo esce, barcollante come un ubriaco, accecato dalla luce e nel tumulto della folla che lo festeggia come si può festeggiare un Cristo Risorto, il ritorno atteso da un anno del vecchio sapiente e terribile, che durante le notti d’inverno esce dalla sua chiesa, attraversa a grandi passi la città e appare ai prepotenti, a quelli che si sono comportati male, e li spaventa, li minaccia, a volte li bastona.

 

 

La piccola chiesa di s. Calogero è stata espugnata dal popolo in festa, che per l’intera giornata trascinerà o verrà dal santo trascinato lunghe le viuzze e le scalinate del centro storico, al ritmo dei tamburi e della musica da tarantolati che non smette mai.

I borghesi vedranno da dietro le persiane socchiuse schiumare quella processione senza preti, quel baccanale sussultante, tellurico, a strappi e tonfi, a scossoni e scivolamenti, a boati e bolle di silenzio: guarderanno con curiosità e con divertito distacco, ma anche con dissimulata apprensione. Li rassicura   non la fede nel santo, ma nella sua libertà   provvisoria e ritualizzata.

La baldoria del popolo e del vecchio eremita fuggiasco e scapestrato durerà infatti fino al tramonto, tra fiumi di birra, arrembaggi alla vara, invocazioni e ringraziamenti, fra il pianto di chi chiede la grazia e l’ esultanza di chi l’ha ricevuta, a volte con qualche scazzottata fra i portatori, qualche parapiglia, qualche autoambulanza. Dura il tempo di una giornata, di un viaggio rituale attraverso la città vecchia da est ad ovest, alle spalle dagli orrendi palazzoni che negli anni ’50 e ’60 hanno trasformato uno dei territori più belli del mediterraneo in una esemplare mostruosità urbanistica.

S. Calò non c’entra con quel disastro, il suo territorio è quello della vecchia città murata, di un centro storico che oggi cade a pezzi, di una città antichissima che il santo ha abitato e che forse tornerà ad abitare, quando il cielo scenderà sulla terra, scivolando sulle sue spalle ricurve di vecchio miracoloso e santamente bastonatore.

Poi, con il buio della sera, le autorità religiose e civili riprenderanno in consegna il fuggitivo bizantino, lo metteranno su un furgone solennemente addobbato e lo ricondurranno in chiesa, dove resterà chiuso per un anno. Un lungo anno durante il quale le autorità torneranno ad esercitare il potere nella città, e lui, il santo, continuerà a sognare il tumulto e la luce di luglio che gli vengono incontro fuori, nella piazza dove lo acclama il popolo in festa, dove mescolati agli agrigentini lo aspettano ormai anche quelli neri come lui.

Qualche anno fa l’attuale arcivescovo di Agrigento, Franco Montenegro, ha detto che se ci fossero state allora, millecinquecento anni fa, le attuali leggi italiane, s. Calò non sarebbe sbarcato in Sicilia, oppure sarebbe stato un clandestino meritevole di essere sbattuto in un centro di accoglienza o rispedito senza tante storie in Libia o in Siria, e pazienza se ci sono guerre, fame e dittature oggi più di allora. Oppure sarebbe affogato nel mediterraneo.

Don Franco Montenegro ha dato autorevolezza ad un sentimento presente ad Agrigento dai primi anni ’90, quando era apparso a molti evidente che il santo dei contadini, il santo che per un giorno consegnava la città ai villani, agli abitanti fuori le mura, quelli di Rabato, era con ogni evidenza anche il santo degli immigrati. Nero ed esile come loro, fuggitivo, e come loro vicino alla sacralità della vita che rischia di spegnersi in fondo al mare o in un deserto solo per continuare ad essere vita. Il santo del pane che piove dall’alto, che si mangia e si calpesta, del sogno dell’abbondanza, della libertà dalla fame, dal dolore, dall’ingiustizia.

E’ anche questo s. Calò, il santo nero. Il suo culto, diffuso in buona parte della Sicilia,   costituisce anche la prova di quanto sia vana e a volte ingenua la pretesa di certa chiesa cattolica di possedere il monopolio della religiosità.

Il sincretismo religioso   ha permesso alla chiesa romana di diffondersi fra le popolazioni indigene dell’Africa e dell’America. Che in Sicilia, ma ovunque si oltrepassi la spessa coltre della modernità e della sua cultura, la mediazione del sincretismo non sia più necessaria, è un’illusione. Negli ultimi venti anni la diocesi di Agrigento è riuscita a convincere molti fedeli a rinunciare   al lancio del pane, ritenuto pericoloso, antigienico ed esibizione di spreco (sic!), e oggi un gruppo di intellettuali laici agrigentini e molti fedeli ne auspicano pubblicamente il ripristino.

Uno di loro, Giandomenico Vivacqua, rintraccia nel lancio del pane la scena della lapidazione, l’evento sacrificale del capro espiatorio. La leggenda popolare vuole che il santo raccogliesse il pane che gli lanciavano gli abitanti della città dove imperversava la peste e che lui portava agli ammalati del lazzaretto. Vittima sacrificale al culmine di una crisi mimetica secondo lo schema di André Girard o acclamato benefattore di un’umanità sofferente secondo la tradizione popolare, il lancio del pane costituisce un reperto etnologico e una spontanea espressione di religiosità che non ha alcun senso reprimere. La materialità della processione può essere amputata ma non fatta sparire.

In una chiesetta frequentata dagli indios in Chiapas, non lontano da San Cristobal, i fedeli fanno dei pic nic seduti per terra, eruttano la coca cola e la birra perché cacciano gli spiriti cattivi, poi una donna tira fuori da una cesta una gallina, le accosta la testa ad una delle mille candeline che illuminano la chiesetta e dopo avere recitato delle preghiere nella sua lingua, non i spagnolo, tira il collo al pennuto. Un’ora più tardi il prete celebrerà la messa.

Il dubbio è che la chiesa cattolica abbia continuato a praticare il sincretismo, ma con le religioni della modernità, del secolo, con le religioni prive di trascendenza, ‘deboli’, continuando a fronteggiare con l’arcigna intolleranza di sempre le grandi eresie, la pretesa altrui di custodire ed esprimere una diversa esperienza del sacro. Il santo nero di Agrigento ne è uno straordinario esempio

 

 

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