#HumanGaza2

Raccontando delle persone, delle vite, delle giornate di quelli che la guerra la pagano


di Q Code mag
@QcodeM

 

13 luglio 2014 – L’ennesima punizione collettiva alla quale viene sottoposta la popolazione civile di Gaza, come tutte le altre, non porterà a nessun risultato. Sempre che il risultato non sia quello di nuovi lutti, di nuove distruzioni, di un odio che non potrà che crescere, ingrossando le fila di coloro che non hanno più alcuna fiducia in una soluzione giusta del conflitto.

Il governo israeliano, attraverso il suo esercito, ancora una volta scatena una pioggia di fuoco in risposta al lancio di razzi di qualche gruppo, come se ne fossero responsabili i civili di tutta la Striscia di Gaza. Che dieci anni fa, mentre festeggiavano la fine di un’occupazione, si sono resi conto di essere finiti reclusi in una prigione a cielo aperto. Cielo dal quale, a cicli alterni, piovono bombe.

Questa raccolta di pensieri (in quindici righe) vuole essere un racconto ‘altro’ di Gaza, reso da coloro che hanno avuto per i motivi più diversi la fortuna di incontrare l’umanità di Gaza, quella che non viene mai raccontata, da media che si ricordano di Gaza solo quando c’è un attacco, come se la vita a Gaza non fosse un inferno quotidiano. Ma anche nell’inferno la vita esiste e resiste, sempre, ogni giorno. Ed è questa resistenza di umanità che questa raccolta di voci vuole raccontare. 
Perché a un popolo si può togliere la libertà, ma non gli si può togliere l’umanità.

Se siete mai stati a Gaza, mandateci le vostre quindici righe a redazione@qcodemag.it

 

HumanGazaOK

2) Lorenzo Bagnoli, giornalista

Gaza, dicembre 2013. Più ci avviciniamo al valico di Erez, più s’ingrossa la fila di mezzi dell’esercito israeliano incolonnati, in attesa dell’inizio di un’esercitazione militare. È l’immagine dell’assedio, presente e costante anche quando i bombardieri tacciono. Con la caduta di Mohammed Morsi in Egitto, dai tunnel sotterranei a Rafah non passa più nulla. Gaza sta agonizzando lentamente: il 46% della popolazione non ha un lavoro, manca la benzina per spostarsi, la luce elettrica dura per 5-6 ore al giorno. Non di più. Il rapporto dell’Unrwa di agosto 2013 è il bollettino di un paziente malato cronico: “Nel 2020 Gaza non sarà più abitabile”. R.i.p. Non per i gazawi.

Gaza è in guerra anche senza mitra. La stritola l’embargo, gli odi che fino a pochi mesi fa dividevano Al Fatah da Hamas. E lentamente muore ogni volta sotto una pioggia di bombe che si chiamano Piombo fuso, Colonna di nuvola, Bordo protettivo. Che ogni volta hanno lo stesso drammatico e inutile effetto. Eppure Gaza cocciutamente e senza rassegnarsi vive, resiste.

Vive nelle speranze di Jamal: padre medico, dirigente di Al Fatah. Lui 20 anni, alto e slanciato, con la faccia da ragazzone americano più che da gazawi. Sua madre è russa: la commistione ce l’ha nel sangue. Non gli sembra vero di dover stare recluso. Coltiva la speranza di partire per ritornare. Di crescere altrove, ricordandosi sempre da dove viene e dove dovrà tornare. Perché Gaza, così, è solo una gabbia arrugginita, prigione di sogni e di uomini.

Gaza vive nelle prese in giro di Mustafa, in tutte le volte che fa finta di non capire l’inglese, che ostenta la voglia di non fare nulla. Teatrini smentiti irrimediabilmente dall’impegno che ci mette ogni volta che gli si mette in mano una telecamera, che gli si chiede di raccontare la sua vita. Gaza vive nel suo orgoglio. E nei suoi messaggi di Facebook che compaiono in casella di posta, ciclicamente: “Manchi a Gaza. Tutta Gaza vuole il tuo ritorno”.

Anch’io lo voglio. Quello che non voglio, però, è che il viaggio si trasformi nella visita al capezzale di un amico fraterno. E affinché accada, c’è solo una possibilità: che Israele fermi la sua offensiva. E che lasci prendere ossigeno all’umanità di Gaza, che ne lasci aperte le frontiere.

 

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