#HumanGaza18

Raccontando delle persone, delle vite, delle giornate di quelli che la guerra la pagano


di Q Code mag
@QcodeMag

26 luglio 2014 – L’ennesima punizione collettiva alla quale viene sottoposta la popolazione civile di Gaza, come tutte le altre, non porterà a nessun risultato. Sempre che il risultato non sia quello di nuovi lutti, di nuove distruzioni, di un odio che non potrà che crescere, ingrossando le fila di coloro che non hanno più alcuna fiducia in una soluzione giusta del conflitto.

Il governo israeliano, attraverso il suo esercito, ancora una volta scatena una pioggia di fuoco in risposta al lancio di razzi di qualche gruppo, come se ne fossero responsabili i civili di tutta la Striscia di Gaza. Che dieci anni fa, mentre festeggiavano la fine di un’occupazione, si sono resi conto di essere finiti reclusi in una prigione a cielo aperto. Cielo dal quale, a cicli alterni, piovono bombe.

Questa raccolta di pensieri (in quindici righe) vuole essere un racconto ‘altro’ di Gaza, reso da coloro che hanno avuto per i motivi più diversi la fortuna di incontrare l’umanità di Gaza, quella che non viene mai raccontata, da media che si ricordano di Gaza solo quando c’è un attacco, come se la vita a Gaza non fosse un inferno quotidiano. Ma anche nell’inferno la vita esiste e resiste, sempre, ogni giorno. Ed è questa resistenza di umanità che questa raccolta di voci vuole raccontare. 
Perché a un popolo si può togliere la libertà, ma non gli si può togliere l’umanità.

Se siete mai stati a Gaza, mandateci le vostre quindici righe a: redazione@qcodemag.it

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Anna Maria Selini, giornalista – documentarista

Mi si chiede di raccontare l’umanità di Gaza, la normalità, non quello che sta succedendo ora, ma fatico a farlo. Forse perché la normalità, con picchi più o meno alti, in fondo è proprio questa.

Sono stata a Gaza quattro volte e non ce n’è stata una in cui non abbia avvertito esplosioni, ronzii di droni (a Gaza li chiamano ‘zanzare’) o colpi venire dal mare. Ho imparato a riconoscere il suono di un razzo lanciato da un tetto verso Israele e la paura delle bombe, o meglio del criterio, se criterio c’e’, che le fa sganciare.

A Gaza sembra di stare costantemente dentro una lotteria. Una mano che dall’alto lancia la pallina e la ruota che gira. Come se il tuo turno stesse sempre per arrivare. Dovrebbe essere così, certo, ma a Gaza è un carpe diem forzato, con i politici eretti a dei e i militari a giudici del destino altrui.

Osservi i palestinesi e pensi che basterebbe così poco per essere felici. Quel poco che dai per scontato e che a loro è tolto e allora capisci che è davvero tanto.

Poter entrare e uscire dal tuo Paese quando vuoi, per studiare, viaggiare o curarti. Aver diritto a una chemioterapia. Poter pescare o coltivare i campi senza essere colpiti da un cecchino. Poter bere acqua corrente. Poter vivere in casa tua senza che qualcuno, in pochi minuti, ti obblighi a lasciarla per sempre. Poter crescere senza aver mai visto partire razzi e cadere bombe.

Perché è la gente comune, quella che odia la violenza e che vorrebbe solo vivere in pace, in casa propria, esattamente come gli israeliani, che costituisce soprattutto l’umanità di Gaza. Quella che oggi non sa dove rifugiarsi e che muore mentre il mondo, complice, resta lì a guardare.

 

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