Miradas, diario boliviano – 1^ parte

Partire per capire. Viaggio nella Bolivia profonda, sguardi tra donne, uomini e bambini

[di Gabriella Ballarini, da Riberalta (Bolivia). 

 

23 agosto 2014 – A volte si parte per vedere, a volte si parte per andare, io sono partita per capire. Perché c’è una Bolivia nascosta, che grida e la voce rimane impigliata, che cammina con l’acqua alle ginocchia, una Bolivia fluviale, amazzonica, che corre in moto e colleziona storie.

Eccole, eccone gli sguardi, las miradas.

 

Beatriz

Beatriz, sguardo fiero di donna spagnola, del sud, che il temperamento tu lo vedi subito “che fate lì? Non mangiate niente? Non è che non vi piace il cibo?” Ci spiazza subito Beatriz, che da vent’anni vive in Bolivia “ci sono venuta una volta, così, per fare un’esperienza, ma non me ne sono più andata”. Solo da due anni Beatriz vive a Guayarà, città che il nome che si dice in due modi, dipendendo dalla frontiera. Siamo al confine con il Brasile e la lingua si frammenta, si mischia, qualcuno parla brasiliano, sono i frontalieri, ci sono anche qui.

Le terre di frontiera sono dure, questa ancora di più, Beatriz accetta la sfida e da due anni prova a fare il suo. Ha mani piccole, ma le agita da tutte le parti e imita gli italiani, dice che gli italiani gesticolano, ma lei sembra tentare il volo ad ogni discorso.

Ci lascia, scappa, deve fare delle cose, Beatriz è così, lei va, lei deve andare.

 

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Ci lascia con i bambini, io capito nella stanza dei più grandi, mi metto a colorare un disegno e mi improvviso pittrice, ma i ragazzi se ne accorgono subito, mi rimettono a colorare, almeno non esco dai bordi.

È instancabile Beatriz, torna e ci mostra tutto il resto, quello che c’è, quello che vorrebbe ci fosse, “che bello sarebbe poter lavorare di più, fare più cose” apre la porta della sala informatica e ci mostra tutte le macchine, messe insieme da tutto quello che gli altri non vogliono più. “Li ho rimessi insieme io, in questi posti lontani dal mondo devi imparare a fare tutto, ho comprato un libro e ho imparato ad aggiustare computers”.

La guardo e penso che io non avrei nemmeno mai potuto sfiorare un’idea simile, nemmeno in mezzo al deserto.

Beatriz è una cascata d’acqua fredda in questo caldo senza via di scampo, la guardo e vorrei dirle qualcosa, ma lei non mi lascia il tempo, scappa Beatriz, ci sono cose più importanti di me, rimango con tutte le mie parole e il suo indirizzo mail, magari un giorno le metterò in fila tutte queste parole, darò loro una forma.

Beatriz ci saluta, i suoi bimbi ci chiedono di tornare, noi saliamo in auto, ci allontaniamo dalla città con due nomi, il tassista accende la musica, la strada è dritta, la strada verso Riberalta.

 

Non nascemmo contadini

Le strade di Bolivia sono rosse e poi asfalto (poco), e poi campi e l’amazzonia e le zanzare.

Arriviamo alla comunità di San Juan e ci sediamo su una panca mal assestata sotto agli alberi, al fresco, al riparo dal calore delle tre e mezza. Calore che appesantisce i lineamenti e rende il sorriso sfocato. Ci accolgono due uomini, poi tre, poi arriva Mario, il capo villaggio e porta con sé due cestini con il cacao e las ciruelas, con le arance e le noci. Si presenta, nome e cognome. A Mario mancano due denti davanti e la pancia grossa accompagna il viso paffutello, Mario sorride mentre parla e gli sorridono anche gli occhi piccoli, un po’ orientali, un po’ nativo americani. Mario spacca in due la fava di cacao grande come una mano e sembra stia dividendo un fico, ma il cacao è duro e cresce sul tronco degli alberi, è una pianta pregiata e il frutto è dolciastro, Mario ce lo fa provare e un po’ sorride della nostra goffaggine di assaggiatrici di passaggio.

La comunità rurale di San Juan, vicino a Riberalta, è una sfida, una scommessa con lo stereotipo. Non sono nati coltivatori, anzi la terra l’hanno odiata e dopo le inondazioni ancora di più. Un odio vero, che sbatti il macete a terra e vuoi scappartene in città. Ma poi anche se non saranno alberi da frutta, saranno carote o cipolle oppure anche i peperoni, che quelli ci mettono poco a venir fuori e così, mentre aspettiamo, mangiamo, mentre mangiamo, aspettiamo.

Mangiare, dormire, il tavolo e l’amaca, un caffè e un bicchiere di succo di limone.

Mangiare e dormire, attendere e raccogliere: Mario ce lo fa vedere e poi chiede se abbiamo dei suggerimenti. “Ma secondo voi stiamo facendo bene?”. E chi lo sa? Dico senza dirlo.

Arriviamo alla piantagione antica, che qui ognuno ha il suo appezzamento e la comunità serve a farsi forza, a rialzarsi dopo una caduta, serve per litigare e giocare a calcio, che qui nel campo facciamo il torneo inter-comunitario, che anche le donne giocano. Certi calci tirano le donne, che se non stiamo attenti un giorno di questi ci prendono a calci anche a noi. Scherza l’uomo dai capelli corti, scherza e sorridendo ci mostra il suo sorriso d’oro.

Nella piantagione antica ci godiamo l’ombra e poi il signore che ci mostra il suo frutteto, si gira verso sua moglie e dice: “lei, lei è la mia compagna, il mio sostegno, senza di lei nulla sarebbe stato possibile. L’amore è così, è più forte di tutto il resto” muove le mani e guarda in basso, poi continua “che senza l’amore che vuoi fare? Con lei ho costruito tutto questo, a volte, quando non andiamo d’accordo sembra che anche gli alberi se ne accorgano, che siano più tristi, che producano meno frutti”.

L’amore che muove, il calcio giocato in campagna, la scuola con un maestro per tutti e una piccola cappella dove ritrovarsi a pregare.

Salutiamo la comunità di San Jaun, portiamo tra le mani il cesto di frutta, portiamo tra le mani l’attesa e il raccolto, la sfida e il sorriso di Mario.

 

[Continua]

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