Tunisia, cinema e biodiversità

A Hergla, Tunisia, la decima edizione dei Rencontres Cinématographiques: film e documentari tra Africa e Mediterraneo

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/05/giada-frana.jpg[/author_image] [author_info]Di Giada Frana, da Tunisi, @Giady87. Giornalista pubblicista, laureatasi a Bergamo in Lettere con la tesi “La questione migratoria nei mass media italiani”. La passione per il mondo arabo si è sviluppata nel tempo. Ama scovare storie che vadano contro i pregiudizi su migranti ed Islam. Attualmente vive a Tunisi e lavora come freelance. Collabora con l’Eco di Bergamo, La Città Nuova, Linkiesta, Vita e Santalessandro.org. [/author_info] [/author]

1 settembre 2014 – Si è parlato anche di biodiversità durante la decima edizione degli incontri cinematografici di Hergla, grazie alla presenza di Abderrahmane Amajou della Fondazione Slow Food Italia e di Khalaf Oueslati di Slow Food Tebourba. A Tebourba, cittadella situata a una trentina di chilometri ad ovest di Tunisi, da quattro anni è nato un presidio di Slow Food, grazie alla segnalazione di Marzouk Mejri, cantante e percussionista tunisino di Napoli che, oltre all’amore per la musica, ha mantenuto l’amore per l’agricoltura della sua terra.

Sulle colline di Lansarin e Gaffaya, tra 500 e 800 metri di altezza, si coltivano due antiche varietà di grano duro: la mahmoudi e la schili, caratterizzate da paglia lunga e da grani ambrati e vetrosi. La varietà schili è tra le più antiche: un tempo era utilizzata per fare tappeti con cui erano rivestite le pareti delle fosse scavate nel terreno e adibite alla conservazione del grano. La varietà mahmudi ha un forte valore nutrizionale e resiste senza problemi alla siccità e alla ruggine nera del grano. Entrambe le varietà stanno rischiando di scomparire, minacciate dall’introduzione di ibridi più produttivi.

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La mission di Slow Food a Tebourba è promuovere la nascita di una cooperativa di agricoltori tunisini e di donne che trasformino la semola in couscous di grano duro a lenta essiccazione e in vari tipi di pasta tradizionale, per far sì che queste varietà continuino ad esistere. In questo modo si potrà riattivare una micro-economia, dando il giusto riconoscimento al lavoro agricolo delle comunità, salvaguardando la biodiversità, il territorio e la cultura locale.

Dai chicchi del grano mahmoudi e schili, tra le altre cose, si ottiene infatti la semola, l’ingrediente principale del cuscus. Proprio per questo motivo durante la serata di presentazione di Slow Food si è proiettato il documentario “Couscous Island” (regia di Francesco Amato e Stefano Scarafia): uno sguardo sull’isola di Fadiouth (Senegal) e l’incontro con Louise, Ana, Elisabeth, Jeneba ed altre donne. Queste donne fanno parte de “la sentinelle”, il Presidio del tradizionale couscous di miglio di questa piccola “isola delle conchiglie”. Se prima l’attività principale degli abitanti dell’isola era la pesca, in seguito alle nuovi leggi a salvaguardia di alcune specie di pesci, ora gli abitanti sono dediti principalmente all’agricoltura e il pesce viene pescato ogni tanto, in quantità minori, per poterlo aggiungere alcouscous. Il documentario mostra le attività di queste donne, cattoliche e musulmane: dalla semina del miglio, al lavaggio nell’acqua marina, alla cottura, alla commercializzazione del prodotto.

 

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