Les messagers

Presentato al MFF, il documentario francese ripercorre le storie di chi è riuscito a sopravvivere alla traversata del Sahara e del Mediterraneo. Una riflessione sull’immigrazione tra le barriere di Ceuta e Melilla

 

di Antonio Marafioti
@AMarafioti

 

12 settembre 2014 – “Hai mai visto cinquanta corpi galleggiare in riva al mare?”. L’interrogativo spietato apre Les Messagers, una delle perle del Milano Film Festival. Presentato in collaborazione con il Naga, il documentario girato tra la Tunisia, il Marocco e l’enclave spagnola di Melilla, dalle francesi Hélène Crouzillat e Laetitia Tura, raccoglie una serie di testimonianze dei sopravvissuti alle traversate del Sahara e del Mediterraneo.

Disparitions – filet Zarzis, Tunisie, 2012

Settanta minuti di reportage che incidono, uno dopo l’altro, ricordi altrui nella propria memoria. Le storie e i volti di chi li racconta rimangono attaccate addosso tanto quanto il senso di vergogna e di profonda ingiustizia provocati dall’ascolto delle storie sui barbari trattamenti ai quali sono stati sottoposti.

“Avevano voglia tanta di raccontare, di denunciare”, dirà Crouzillat alla fine della proiezione. Si capisce dalla prima intervista quando a colpire forte allo stomaco non sono solo gli aneddoti, ma anche il modo in cui vengono raccontati. C’è un’estrema dignità nel camerunese che ricorda il compagno ucciso dalla Guardia Civil e la fuga del resto del gruppo verso Nador. C’è rassegnazione in chi racconta di un gendarme spagnolo che spezza le dita con una chiave inglese a un algerino rimasto attaccato all’imbarcazione militare nell’estremo tentativo di salvarsi dal mare. Il testimone ricorda l’annegamento e il successivo trascinamento del corpo sulla riva marocchina per inscenarne la morte accidentale.

Non si può entrare a Melilla perché chi arriva non può essere respinto, in virtù delle leggi internazionali sul diritto d’asilo. Ma ciò non conta perché la vigilanza è stretta, i metodi duri e poi c’è una rete elettrificata alta sei metri che è stata montata a difesa del Vecchio Continente. Se tutto ciò non dovesse bastare, i criteri per bloccare il passaggio diventano spietati. Tante le accuse, poche le assoluzioni per i controllori della cortina.

Si parla di chi ha ucciso in modo efferato, ma anche di chi ha salvato vite che gli altri hanno fatto finta di ignorare. E se ci sono dubbi sulle competenze territoriali, le motovedette arrivano a impiegare ore per effettuare i salvataggi. Chi rimane in mare può solo sperare di farcela e non finire in una delle tante fosse comuni scavate sulla costa marocchina, fra colate di cemento ed erba secca. Arrivano con le ruspe, scavano e ammontichiano i corpi l’uno sull’altro. A volte i morti vengono divisi da strati di calce o di sabbia, altre volte nella stessa fossa finiscono fino a tre corpi differenti. I nomi non hanno importanza, così come non conta comunicare alle famiglie la morte di un parente o accertarne l’identità. “Il problema vero è che esistiamo”, dice uno dei sopravvissuti mentre si chiede retoricamente come può un uomo essere così crudele nei confronti di un altro uomo. È quest’epoca a dirlo, e loro sono i suoi messaggeri.

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