Comandante

Gli anni di Piombo nel ricordo di Franco, un magistrato, e Felice, ex membro di Lotta Continua. Un’amicizia oltre la politica e le ideologie. L’intervista al regista, Enrico Maisto

 

di Antonio Marafioti
@AMarafioti 

 

COMANDANTE

 

13 settembre 2014 – In concorso nella categoria lungometraggi del Milano Film Festival, Comandante, di Enrico Maisto ripercorre la storia italiana degli anni di piombo attraverso i ricordi di due dei suoi tanti protagonisti. Franco, padre del regista, era giudice di sorveglianza a San Vittore; Felice Esposito, un comunista della prima ora ed ex membro di Lotta Continua. Due uomini, due scelte di vita opposte, ma una comune visione della giustizia sociale. Il magistrato che combatte per i diritti dei detenuti, il sovversivo che si rifiuta di imbracciare le armi. Nella zona di confine nasce un’amicizia vera fra un uomo dello Stato e uno dell’antistato. Sullo sfondo la Milano delle bombe, gli omicidi eccellenti e la società del tempo divisa fra i palazzi di giustizia e il Mulino Doppio, storica trattoria della Barona in cui personaggi diversi si riunivano intorno ai principi del riformismo.
La condanna bipartisan degli estremismi ideologici è l’approdo dell’opera che Maisto presenta senza pretese didascaliche e nel pieno rispetto delle verità di due persone a lui care.

 

Il suo film si può definire più un diario personale che un documentario.

Beh, sì. In qualche modo sicuramente lo è. È il diario di un percorso di confronto che ho fatto con questi due personaggi. Ho cercato di ricostruire quello che, negli anni, è stato l’evolversi dei miei interrogativi e dei miei dubbi attorno a questa vicenda. C’è sicuramente una parte diaristica.

Alla fine della pellicola ammette di provare un misto di fascino e di repulsione per il periodo degli anni di piombo. Sembra comunque esserci in lei una sorta di rimpianto per non averli vissuti.

Non saprei. Sicuramente c’è, a livello di immaginario, un desiderio di capire di più e di partecipare. Però sono contento di essere nato in un altro periodo storico. Quell’epoca mi ha comunque incuriosito perché ha portato a conquiste importanti per la nostra società, ed è stata anche l’epoca della giovinezza dei miei genitori. La fetta di un passato che io stesso in un modo o nell’altro ho vissuto. Gli anni Settanta: un periodo mitico, dal punto di vista storico e iconografico.

In una battuta sostiene che quando si sceglie si perde sempre qualcosa. Si è mai chiesto quale strada avrebbe scelto se fosse stato presente? Quella di suo padre o quella di Felice?

Per come sono cresciuto sarei stato sicuramente dalla parte di Franco, che comunque è un po’ anche la parte di Felice. È questo il punto centrale del film. La frontiera fra i due personaggi non è così definita, anzi. Franco e Felice in realtà si schierano in modo anomalo rispetto alle contrapposizioni più generali che vedevano lo Stato da una parte e il mondo delle rivolte dall’altra. Loro hanno scelto delle posizioni in controtendenza all’interno dei rispettivi schieramenti, e questa è una cosa che mi appartiene molto. Scegliere di stare con l’uno o con l’altro alla fine non è così contraddittorio. Personalmente non sono cresciuto in una cultura della violenza, che per me non è accettabile sotto nessun profilo.

A proposito di violenza, a un certo punto chiede a Felice qual era il suo compito all’interno del movimento. Ma lui tace. Le ha mai raccontato “off the record” il suo ruolo in Lotta Continua?

In realtà lo racconta a piccole dosi durante il corso del film. Non so perché si sia bloccato proprio sulla domanda secca. La posizione di Felice è molto semplice: ha condiviso una parte del percorso con i suoi compagni di Lotta Continua, un percorso fatto di battaglie civili come quella per la casa, per le carceri che sono state cause condivisibili. Poi le strade si sono diversificate e qualcuno ha deciso di proseguire in clandestinità, una scelta che lui non ha voluto fare. Detto ciò credo che sia difficile tracciare una linea di demarcazione netta tra lui e gli altri, perché quando si inizia un percorso e si instaurano delle amicizie può capitare che un amico torni da te per chiederti un favore dal quale non puoi tirarti indietro. Credo che si sia trattato di piccole cose, non di un vero e proprio fiancheggiamento.

Lei è nato nel 1988, ha solamente sfiorato quel periodo. Che idea si è fatto di quegli anni e dei movimenti che li hanno caratterizzati?

Sinceramente non riesco ad avere una posizione di sintesi, perché non c’è stato da parte mia uno studio sistematico di quel periodo, ma ho cercato, a seconda delle spinte emotive e dell’interesse del momento, di focalizzarmi anche su questioni piuttosto specifiche. Credo che fosse un momento storico in cui si è creata una situazione limite che ha portato la società a ridefinire, a vari livelli, alcuni confini anche morali. Questo è affascinante. Per il resto è molto difficile esprimere un giudizio di valore su un tempo che non ho vissuto direttamente. Preferisco rimanere prudente.

Suo padre ha ricordato l’omicidio di Guido Galli come l’episodio che ai tempi lo sconvolse di più. Per lei qual è stato il momento più duro, il punto di non ritorno?

Ce ne sono stati tanti. Sicuramente il sequestro Moro è stato uno degli episodi più drammatici. Anche io sono stato influenzato dall’omicidio Galli, compiuto alla Statale che è stata anche la mia università. Ho passato anni in quei corridoi. Profanare un luogo sacro con un atto di quel genere è stato davvero assurdo. L’immagine di quest’uomo riverso a terra, con questo codice di fianco, è un’immagine che mi turba ancora adesso.

Parliamo dei tentativi di alcuni colleghi di suo padre di mettergli i bastoni fra le ruote per la sua presunta vicinanza intellettuale ai detenuti politici. Il suo lavoro cerca di riabilitare la figura del magistrato rispetto a quella trama ostruzionistica?

Sì e no. Sicuramente ho avuto il desiderio che mio padre si potesse spiegare rispetto a queste cose, anche se non credo che ci fosse un vero e proprio sospetto di quel tipo. Era una delle accuse che tentarono di muovergli, ma più che altro per coprire qualcos’altro, cioè le sue posizioni di garanzia dei diritti dei detenuti. I maltrattamenti non riguardavano solo i detenuti politici, ne furono vittime tutti i carcerati. La crisi del sistema penitenziario in generale risaliva a molto tempo prima dell’inizio del terrorismo, tuttavia in quel determinato periodo a qualcuno dava fastidio che dall’interno delle istituzioni partissero continue denunce sugli abusi e sul degrado dei nostri penitenziari, e quel qualcuno cercò di osteggiare mio padre che di quell’orientamento garantista era uno strenuo difensore. Ciò fa capire ancora una volta come le contrapposizioni troppo nette difficilmente riescono a rendere conto di una realtà molto più complessa. Anche le istituzioni avevano delle ombre al loro interno, che non erano quelle attribuite a mio padre, che non condivideva affatto le posizioni dei terroristi, ma erano le ombre di chi gestiva il potere in un certo modo.

La posizione di suo padre rispetto ai diritti dei detenuti è forse uno degli elementi caratterizzanti della storia. Oggi la situazione carceraria non è migliorata affatto rispetto ad allora. Il magistrato e l’uomo è mai riuscito a fare pace con lo Stato?

Pace non l’ha mai fatta, ma ha un grande rispetto e un grande amore per le istituzioni e per il ruolo che ricopre. Non vorrebbe demolirlo, però riconosce una grossa difficoltà nel portare avanti questo mestiere in un certo modo. La sua battaglia prosegue ancora oggi che presiede il tribunale di sorveglianza di Bologna. Fa parte di varie le commissioni parlamentari impegnate nella riformare l’ordinamento penitenziario, soprattutto per quanto riguarda il sovraffollamento delle carceri.

Nel film lei tenta di capire perché l’omicidio premeditato di suo padre non sia stato compiuto. Ha mai trovato una risposta?

Credo sia vero che Felice si sia speso, e ciò deve essergli costato qualcosa, perché uno nella sua posizione che si schiera dalla parte di un magistrato, potrebbe essere additato come un informatore. Quindi qualcosa Felice ha rischiato. La verità è che questo sarebbe potuto non bastare. Al tempo nascevano quotidianamente sigle desiderose di affermazione e notorietà. Mio padre era un bersaglio facile perché frequentava il Mulino Doppio. Può darsi che qualcuno abbia pensato al suo omicidio, ma in un ambiente circoscritto in cui è stato facile bloccare la cosa sul nascere.

Felice le ha raccontato di aver scelto di non uccidere. Se avesse imboccato l’altra strada, crede che il vostro rapporto sarebbe stato uguale a quello attuale?

Una domanda difficile. Non lo so. È proprio questo il crinale su cui si muove il film. La paura che c’è stata da parte mia di fare la domanda che potesse poi cambiare la mia percezione di queste persone. Da un lato c’era desiderio di fare chiarezza, dall’altro la volontà di proteggere questi personaggi o quantomeno l’immagine che io avevo di loro. Se Felice avesse ucciso, sarebbe stata dura da accettare. Si aprono sempre delle crepe nei rapporti con le persone quando si scopre che hanno dei lati inattesi. Posso dire di provare un grande affetto per questi due personaggi.

Uno un magistrato. L’altro ex membro di Lotta Continua. Se non fossero stati amici ci sarebbe stato qualcosa che li avrebbe uniti comunque?

Io credo di sì. C’è un’istanza di giustizia e di riforma della società che accomuna entrambi indipendentemente dal percorso che hanno scelto. Questa sensibilità comune ha portato Felice a battersi per ridurre l’emarginazione, e mio padre a posizionarsi all’interno del panorama istituzionale in un punto molto preciso che è quello tra lo Stato e i detenuti, lì dove il potere si riscontra con la fragilità.

Una lezione di Franco sugli anni di piombo.

Il non aver mai rinunciato al confronto. Esistevano rapporti umani che rimanevano profondi comunque, si poteva restare insieme e dialogare rispettando le reciproche differenze. Per lui esistevano dei punti fermi che non si potevano oltrepassare, ma perché venire meno allo scambio dialettico con persone che la pensavano diversamente? Non parlo dei terroristi, ma di quell’ala più radicale della società che voleva riformare. È questa la lezione: il desiderio di incontrarsi oltre la frontiera.

Invece una lezione di Felice?

A me piace il modo viscerale in cui si è sempre messo in gioco. Lui ti dice quello che pensa. È molto diretto, e si sente che ciò di cui parla è qualcosa che ha vissuto sulla sua pelle. Quando ci discuto sono sempre portato a riflettere. Sento che parla con un linguaggio che appartiene a un’altra epoca, un linguaggio che va contestualizzato per non risultare disturbante. È una violenza verbale che esprime un’insofferenza verso una società che non è giusta.

 

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