Senegal, la geopolitica dei trasporti

Dai primi Mercedes Benz ai bus sudcoreani: il cambiamento di un Paese attraverso la geopolitica dei suoi mezzi di trasporto

di Lorenzo Bagnoli, foto di Germana Lavagna
@Lorenzo_Bagnoli, @germanalavagna

 

Dal parabrezza di un taxi

Dal parabrezza di un taxi

 

13 settembre 2014 – Tharoye, orgoglioso sobborgo popolare di Dakar, inizi degli anni Ottanta. Il Senegal sta cercando di dimenticare la ginnastica d’obbedienza che l’ha tenuto sotto scacco francese fino al 1960, anno della sua indipendenza. In un operoso garage, intanto, si coltivano sogni di grandezza. Sono le sette del mattino quando il ragazzo entra. Varcata la soglia, trova dentro suo padre, già intento a fare conti. Pensava che sarebbe stato solo a quell’ora: “Il sudore paga sempre”, gli dice il padre, senza nemmeno alzare lo sguardo dal foglio.

Questo aneddoto è entrato ormai nell’apologia dello Stakanov senegalese, quell’uomo che non smetteva mai di lavorare, dedito a casa, famiglia e a servire il buon Dio. Si chiama Ndiaga Ndiaye e oggi è un vecchio pensionato che ha rivoltato come un calzino la mobilità in Senegal. Con il suo nome oggi si chiamano i Mercedes-Benz 508d che trasportano i senegalesi nei quattro angoli del Paese. Come fosse un Agnelli dei mezzi pubblici.

Nato nel 1931 a Darou Mousty, nel cuore del Senegal, a due anni perde la madre. Suo padre vive con poco, ma s’è svenato pur di fargli studiare il Corano con i mouride, quella setta di fedeli che interpreta il testo sacro in un modo molto spirituale, maggioritaria in Senegal. Dopo gli studi, imbraccia la zappa, come il padre, per andare a coltivare i campi di Mbacké. Ma non è il mestiere per lui: non sopporta che le sue giornate siano dettate dalla pioggia, che rende o meno fertile il campo: quattro mesi di lavoro forsennato per stare fermi altri otto. Durante questi ultimi, la stagione secca, si mette così a imparare a guidare. Gli piacciono tanto i motori, già allora. Nel 1955 diventa autista, a Saint Louis, nel nord del Paese, quando non ce n’erano che poche dozzine.

Torna a casa e comincia a trasportare nella capitale Dakar i suoi compaesani. Fa la tratta anche dieci volte al giorno, si narra nella sua storia che ormai ha assunto molto più i toni della leggenda: 180 chilometri avanti, 180 indietro. Lavora tanto e sa risparmiare. Così, piano piano, inizia a comprare dei Mercedes-Benz 508d di seconda mano dalla Germania. A Berlino erano van commerciali e ambulanze, in Senegal si trasformano in pullman. Ndiaga Ndiaye li imbianca, li copre di scritte benauguranti che inneggiano alla grandezza di Allah e ne trasforma gli interni, aggiungendo piccoli divanetti. Trasportano fino a venti persone circa, oggi. Nel 1986 Ndiaga Ndiaye possedeva 355 mezzi, il 90% di tutti quelli presenti in Senegal.

Così è cominciato il suo impero.

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Oggi il governo di Dakar vuole smantellare la vecchia flotta di Ndiaga Ndiaye e di car rapid, la versione più piccola e urbana degli Ndiaga Ndiaye, ricavati da vecchie Citroen. Di fondo sono blu e gialli, poi artisti di strada si sono sbizzarriti a renderli pezzi unici. Un po’ kitsch, ma indimenticabili.

Francia e Germania: questi sono i primi Paesi a cui il Senegal si rivolge nella sua geopolitica dei trasporti. Paesi con i quali intratteneva fittissimi rapporti economici e non solo. Ma il vento sta girando: i mezzi ricavati dalle vetture europee di seconda mano hanno più di trent’anni e vanno rottamati. Sono il simbolo di un’epoca che il governo vorrebbe archiviare. Così il Senegal ha cominciato a guardare a Oriente.

Gli imprenditori privati che hanno seguito le orme di Ndiaga Ndiaye (compreso il figlio) oggi formano un oligopolio, che ha dato alla luce un’associazione:  l’Association de financement des professionnels du transport urbain (Aftu). Ai colori sgargianti dei mezzi del padre, la nuova flotta ha sostituito delle sobrie scritte blu su sfondo bianco. I mezzi sono rigorosamente dell’indiana Tata: dal 2003 la ditta fondata da dei fratelli indiani si sta mangiando la fetta più grossa degli affari nei trasporti. Nulla da eccepire sul miglioramento del servizio: ora le fermate sono più chiare rispetto agli anni passati, così come i tragitti. Manca la poesia di salire in questi angusti spazi dove ci si accartoccia per stare seduti e dove si aspetta il cocciare assordante di una moneta sul tetto fatto dall’addetto ai “biglietti”, segnale che si è giunti a destinazione.

Non è l’unico cambiamento di questi anni: i bus per le tratte più lunghe sono King Long, sudcoreani. E poi ci sono i taxi, un altro dei simboli di Dakar: tratti di carrozzeria sono neri, altri gialli. Quelli della vecchia generazione sono soprattutto Toyota di seconda mano: ferri vecchi che però non ti lasciano mai a piedi. Ce ne sono poi dei nuovi, bombati, tutti gialli e con l’aria un po’ goffa. Sono prodotti a Thies, il Lingotto senegalese, da una società iraniano-senegalese: SenIran. I risultati? “Se vedi un taxi fermo all’angolo stai pure certo che sarà uno di quelli nuovi, quelli che circolano dal 2008”, dice Mocktar, un ragazzo di 28 anni che ci guida per Dakar. A volte serve tempo perché le nuove convergenze diano i frutti sperati.

 

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