Questo matrimonio s’ha da fare

Più coppie miste in Xinjiang. Riprendendo una politica già attuata in Tibet, una contea del turbolenta regione autonoma promuove i matrimoni interetnici come ennesima strategia per risolvere le tensioni tra uiguri e han. Fare l’amore e non la guerra (civile) sembra una soluzione “armoniosa”, ma deve vedersela con la ritrosia di chi teme di perdere la propria identità. E lo scetticismo abbonda

di Gabriele Battaglia, tratto da ChinaFiles
@Chen_The_Tramp

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15 settembre 2014 – La contea di Qiemo, Xinjiang, estremo occidente cinese, lancia un progetto pilota per favorire i matrimoni misti. La notizia, che sembrerebbe di cronaca spicciola, ha in realtà portata nazionale e forse globale. Lo Xinjiang è infatti la regione dove negli ultimi mesi si sono verificate violenze tra la minoranza turcofona e musulmana degli uiguri – lì ancora maggioranza – e le forze di sicurezza di Pechino. Alla radice, la non integrazione tra gli originari abitanti del bacino del Tarim e gli immigrati han, l’etnia maggioritaria in Cina, sempre più numerosi anche nell’area che si affaccia sull’Asia Centrale.

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Lo Xinjiang diventerà, nelle intenzioni della leadership cinese, il moderno polo economico e commerciale su cui convergerò una rinnovata Via della Seta. All’antico percorso carovaniero, si va sostituendo oggi una rete di trasporti, gasdotti e oleodotti. Anche il turismo è da tempo promosso nell’area. Si tratta di collegare sempre più strettamente la Cina all’Europa – partner commerciale – e ai preziosi giacimenti di materie prime dell’Asia Centrale.

Ma c’è un problema. A partire almeno dalla rivolta di Urumqi del 2009 (200 morti e 1.700 feriti), la regione ha vissuto continue violenze. Se nel 2013 ci sono stati oltre cento morti, quest’anno il fenomeno si è acuito con diversi attacchi terroristici di cui Pechino accusa “elementi separatisti” e, nella fattispecie, il Movimento Islamico del Turkestan Orientale (Etim), organizzazione di cui si sa poco e che per le autorità cinesi sarebbe affiliata ad al Qaeda. Le associazioni uigure all’estero puntano invece il dito contro le politiche repressive del governo cinese. Sta di fatto che, come in Ucraina o in Medio Oriente, una zona politicamente ed economicamente strategica è al centro di un conflitto. Qui a bassa intensità, ma sufficientemente violento da provocare diverse emicranie a Pechino.

Oltre alla crescente repressione, il governo cinese ricorre da anni alla tattica di favorire l’emigrazione han nell’area – i cinesi dell’etnia maggioritaria rappresentavano solo il sette per cento nel 1949 e sono il 40 per cento oggi – investe in sviluppo e infrastrutture e promuove il turismo, sulla base del principio per cui il benessere diffuso eliminerà quasi automaticamente le tensioni sociali. Ora, almeno a titolo sperimentale, si ricorre anche alla politica matrimoniale. È stata denominata “fusione interetnica”, traduzione cinese del melting pot occidentale, e nelle parole del presidente Xi Jinping, dovrebbe “legare i gruppi etnici della Cina più strettamente dei semi di una melagrana”. Così, a Qiemo (o Qargan), eventuali coppie miste che hanno registrato il proprio matrimonio dopo il 21 agosto, possono chiedere una sovvenzione annua di 10mila yuan (oltre 1200 euro). Non è male, dato che il reddito medio annuo di quell’area rurale è di 7.400 yuan.

Secondo dati del 2000, solo l’1,05 per cento dei matrimoni uiguri avveniva con membri di un altro gruppo, il rapporto più basso tra tutte le 56 etnie della Cina. L’esperimento di Qiemo punta quindi a superare questa tradizionale opposizione e anche a incentivare eventuali famiglie miste a restare in Xinjiang. Ma gli uiguri non si mischiano agli han soprattutto per timore di perdere la propria identità etnica e religiosa, meno globalizzata e accattivante di quella della secolarizzata, consumista, grande Cina.

La popolazione turcofona dello Xinjiang (circa 9 milioni di persone) è in maggioranza musulmana sunnita. Sulla montagne del Pamir esistono comunità kazake sciite, mentre l’immigrazione han ha riportato nel territorio il buddhismo, presente anche in un’antichità di cui resta traccia nelle numerose grotte affrescate. Ciò detto, il figlio di una coppia mista sarà difficilmente musulmano osservante, anche perché la costituzione cinese prevede che a nessun cittadino della Repubblica Popolare possa essere imposto un credo religioso prima che diventi maggiorenne (mentre non esistono limitazioni d’età per promuovere l’ateismo).

Quanto alla questione linguistica, parlare cinese significa business e promozione sociale all’interno Paese; con l’uiguro, non si fa strada. La lingua madre rischia così di ridursi a semplice dialetto. In Tibet, dove da tempo misure analoghe premiano materialmente le coppie interetniche, i funzionari hanno ordinato che vengano pubblicate sui giornali locali storie edificanti che le promuovano. In un rapporto pubblicato il mese scorso, l’ufficio ricerche del Partito comunista tibetano ha detto che i matrimoni misti sono aumentati annualmente in percentuali a due cifre: da 666 coppie nel 2008 a 4.795 coppie nel 2013. Non si sa però quanto tali dati siano attendibili.  Tornando a Qiemo, è troppo presto per trarre un primo bilancio dall’esperimento, ma diversi esperti, ripresi anche dai media cinesi, appaiono piuttosto scettici. Il problema Xinjiang non si risolve con un matrimonio.

 

 

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