From deep

Un documentario sul basket Usa dagli albori nello Springfield College fino ai contratti di LeBron James, il prescelto. In mezzo il grande Dr J, la sfida delle due americhe fra Bird e Johnson, e la carriera di Michael Jordan, il giocatore più forte di tutti i tempi 

di Lorenzo Bagnoli
@Lorenzo_Bagnoli

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16 settembre 2014 – From deep, un saggio in tre capitoli è un film-anatomia della pallacanestro e delle sue interrelazioni con la cultura pop. Lo firma Brett Kashmere, regista nato canadese e ora di base a Pittsburgh. Un viaggio nell’America della palla a spicchi che comincia sul parquet dello Springfield college, dove nel 1891 James Naismith dà a battesimo lo sport dove si butta la palla nel cesto. E che si chiude con il folleggiare delle stelle pagate a peso d’oro della Nba, la lega professionisti, e con l’insensata attesa degli Stati Uniti di fronte a The decision, la trasmissione in diretta sulla decisione di LeBron James, il fenomeno che sta cercando (invano) di scalzare dall’Olimpo della pallacanestro Michael Jordan, se cambiare o meno casacca.

From deep è un tiro tecnicamente perfetto che s’infrange però sul primo ferro. Quando succede in campo, il motivo spesso è che non si è data abbastanza spinta con le gambe. E per il film vale lo stesso: arriva in fondo senza più la spinta epica che aveva mosso i primi due capitoli, il debutto in particolare.

Andiamo con ordine. Si parte dalle “Mosse sotto canestro”, un capitolo-nostalgia sulle stelle che furono che inizia a tessere il duplice parallelismo che regge la trama del documentario: il parallelismo gioco dei professionisti-gioco al campetto e il binomio storia della sport-storia della cultura. Il film scava nell’archeologia della pallacanestro: i primi balzi sotto le retine, quello sport tanto lento e macchinoso che pare un altro rispetto a quello di oggi.

Con lo scorrere degli anni e dei canestri, il rimbalzare della palla a spicchi s’allaccia con le battaglie razziali dei Settanta, quando lo sport era una vera questione identitaria. E alle schiacciate s’alternano i ganci di Mohammed Alì e i pugni alzati delle Black panters.

Sono gli anni in cui quello sport per giganti che s’aggirano dinoccolati per uno spazio che pare troppo piccolo per contenerli diventa un modo di vivere e di pensare. Le mosse si affinano, diventano “stilose”. I giocatori paiono ballare, tra virate, zompi al tabellone e “galleggiamenti” in aria di ore.

Star assolute dell’epoca, gli Harlem Globetrotters, una squadra di girovaghi (globetrotters, appunto) per forza, dato che la Nba non voleva dare loro una casa, una città di appartenenza. Sono i primi che fanno crollare i palazzetti a furia di far saltare sulle sedie gli spettatori. È l’epoca in cui il profeta del verbo cestistico si chiamava Julius Erving, uno che ha scritto la storia con la maglia dei Sixers. Si racconta che il suo appoggio a canestro così sinuoso ed elegante fosse un regalo dell’indice della mano destra, qualche centimetro più lungo della norma. Le braccia lunghissime facevano il resto: immarcabile. Faccia da schiaffi, Dr J, uno che non si sarebbe negato al palco nemmeno se l’avessero pagato per stare a casa. Uno della sfilza di eroi di questo sport che quando dio distribuiva l’arroganza ha fatto la fila due volte.

Il secondo capitolo, “La dialettica del funky”, blinda ad un unico destino musica e pallacanestro. Ad officiare l’unione, il reverendo Joseph Simmons, maestro di cerimonia (mc, questo l’acronimo degli aizzatori di folle, un ruolo canonizzato nella cultura rap) dei Run Dmc. Il gruppo predicava hip-hop e ha fatto dello sguisciare di scarpe e palla sul parquet il loro coro gospel.

 

Dopo le violenze dei Settanta, che allontano parte del pubblico medio borghese e bianco che riempie i gli stadi, si prendo il palcoscenico Larry Bird e Earvin Magic Johnson. Amici/nemici come ce ne sono stati pochi nella storia del gioco, Magic e Larry incarnano perfettamente le due facce del cielo. Bianco, quadrato, lavoratore (e tiratore micidiale) il biondone dall’Indiana, che gioca con la maglia dei Celtics di Boston, i figli dell’Europa. Geniale, irriverente e fuori dal coro il playmaker di 2.06 in gialloviola, maglia dei Los Angeles Lakers (illegale – soprattuto all’epoca – che un uomo di quella stazza si muovesse così). Detto addio alla contestazione, è tempo di vendere l’anima al dio pubblicità. Partendo proprio da quei due.

Si apre il terzo saggio: “Cambio campo”. E torna di moda la violenza, ma non in chiave antisistema. È il “gagasta-style” celebrato dai versi maschilisti e violenti del rap urbano. Da Tupac Shakur in giù. Incarnazione di questo modo di vivere è il gioco di Detroit, città operaia, sporca e cattiva, che vince per rabbia e mai per tecnica. Anche perché altrimenti sarebbero pure potuti stare a casa quando giocavano contro i Chicago Bulls di Michael Jordan, fenomeno mai visto della storia di nessun gioco. Dietro il suo stellone intramontabile si sono eclissati giocatori di tutto rispetto, ma con un talento incomparabilmente minore rispetto al suo. Vuoi che la pubblicità si perdesse un fenomeno così? Il faccione del Mike campeggiava ovunque, brandizzando tutto. Jordan è diventata una multinazionale che fatturava negli anni d’oro come il Lussemburgo. From deep lo illumina anche sotto questa luce diversa, che un po’ fa male a chi ha indossato la canotta sognando le movenze del messia della pallacanestro. Il 23 è stato un feticcio a consumismo e conformismo che impazzavano nei Novanta.

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Contrappunto di quest’ode dei signori del grande basket, l’apologia della sua versione street, la più jazz secondo l’autore: il basket da playground. La telecamera steady ci avvicina alle azioni dei campetti sparsi per tutti gli States, accompagnati dalle immagini di pietre miliari della filmografia sulla palla a spicchi, come “Chi non salta bianco è”, “He got game”, “Glory road”, “Basta vincere”.

Peccato per i toni un po’ supponenti di quello che per il resto è un affresco appassionato di uno sport che ha segnato anche una cultura, che ha attraversato i mutamenti degli Stati Uniti è che ha raggiunto poi le coste di mezzo mondo. Peccato, appunto, che nel film si riduca ad una ballata per l’idea di libertà (incarnata nel basket dei playground) americana. E il documentario così salta il pezzo più grande della storia: la mondializzazione del basket, fenomeno globale che ha veicolato un nuovo sogno americano. Un esempio concreto? Pensate a quanti ragazzini sono cresciuti sotto le plance dei canestri europei, africani, asiatici. Pensate ai talenti partiti per giocare in Nba, la vera Lega dei professionisti mondiali. Esiste per caso un Danilo Gallinari (il più forte italiano che sta calcando i campi americani) con la maglia da football? No. Esiste solo in questo gioco. Il più bello del mondo.

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