Pride Normale!

In Serbia il corteo della comunità LGBT sfila fra tanta intolleranza e pochi scontri. Ferito il fratello del premier Aleksandar Vucić che salva le apparenze con la comunità internazionale nel momento in cui sono in corso i negoziati con l’Unione Europea

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-15-alle-20.39.17.png[/author_image] [author_info]di Francesca Rolandi. @FrancescaRoland. Storica, ha portato a termine un dottorato in Slavistica e si occupa di studi sulla Jugoslavia socialista. Ha vissuto a Belgrado, Sarajevo, Zagabria e Lubiana e ha provato a raccontarle per PeaceReporter, Osservatorio Balcani Caucaso, Cafebabel e Profili dell’Est[/author_info] [/author]

4 ottobre 2014 – I palloncini colorati sventolano sullo sfondo delle divise nere dei poliziotti in assetto antisommossa. Tuttavia, domenica 28 settembre, è stata una giornata storica per il movimento LGBT in Serbia. Il Pride, protetto da ingenti cordoni di polizia, è stato vivace, colorato e si è concluso senza grandi incidenti, ad eccezione di alcuni lanci di pietre e un attacco alla sede della televisione B92, che negli anni ’90 aveva rappresentato l’altra Serbia non nazionalista.
Il suo svolgimento è stato in sospeso fino all’ultimo, dal momento che la polizia, pur non avendo proibito l’assembramento, si era riservata fino all’ultimo la facoltà di rilasciare le ultime autorizzazioni.

Dire che la storia del Pride a Belgrado sia stata travagliata sarebbe un eufemismo. A partire dal 2001 i divieti si sono alternati alle violenze: aggrediti i manifestanti sotto lo sguardo indifferente della polizia alla prima edizione nel 2001; messa a fuoco la città da bande di hooligan che si sono scontrate con la polizia nel 2010; proibito il Pride negli anni successivi per motivi di sicurezza dalle autorità, che così ammettevano esplicitamente di non potere, leggi non volere, garantire la sicurezza di alcune categorie di cittadini.

A questo bollettino di guerra vanno aggiunte le aggressioni, spesso non denunciate, contro attivisti o persone considerate in odore di omosessualità. L’ultima di queste ha visto un cittadino tedesco, che si trovava nella capitale serba per prendere parte a una conferenza sui diritti della comunità LGBT, finire all’ospedale per le gravi ferite ricevute in seguito all’aggressione di due sconosciuti.
“Non si tratta di un caso isolato” ha dichiarato Lydia Gall di Human Rights Watch, rimarcando come l’intolleranza e le discriminazioni siano una realtà diffusa e molti i casi registrati solo nell’ultimo anno. Come il caso un professore di matematica malmenato in un parco da un gruppo di adolescenti perché sospettato di essere omosessuale.

L’ultima aggressione che, coinvolgendo un cittadino straniero, ha avuto una maggiore risonanza, è avvenuta a poche settimane dalla data prescelta per il Pride e ha gettato una luce sinistra sulla prossima sfilata dell’orgoglio LGBT. Il cui effettivo svolgimento era messo in forse anche dall’annunciato sciopero di un sindacato di polizia, che, pur adducendo l’insoddisfazione per le proprie condizioni lavorative, poteva essere ben letto come una dichiarazione politica.

I segnali di intolleranza non si sono fatti attendere, in particolare in quei settori che hanno tradizionalmente avversato il Pride. Tra questi la Chiesa ortodossa, che si è espressa contro il diritto a manifestare, paragonando l’omosessualità a pedofilia e incesto, diffusi secondo il patriarca Irenej nel mondo occidentali. Interessante anche la scelta dei termini: senza fare menzione delle violenze commesse dai manifestanti anti-Pride, Irenej ha sottolineato che il Pride è stato imposto “violentemente” dall’Europa e ha richiamato gli ingenti costi che il suo svolgimento comporterà, un argomento che è stato ripreso da una parte della stampa.

Il fatto che questi costi vadano a contrastare le violenze contro persone e cose perpetrate dagli agguerriti manifestanti anti-pride, che hanno trovato nella chiesa ortodossa un pilastro ideologico, è così passato in secondo piano.

Alcuni dei più accorti osservatori avevano già pronosticato che il premier Aleksandar Vucić, eletto con una maggioranza schiacciante nel 2014, non avrebbe voluto inimicarsi la platea internazionale, nel momento in cui sono in corso i negoziati con l’Unione Europea.

Vucić è stato un giovanissimo leader del Partito radicale serbo, che rappresentava la destra estrema e oltranzista, molto vicina a tutti i settori per i quali il Pride è venuto a simboleggiare negli ultimi anni il nemico pubblico numero 1, il cavallo di troia della penetrazione occidentale nella Serbia conservatrice e ortodossa. In pratica sul Pride si sono concentrate buona parte delle frustrazioni che la Serbia profonda ha covato negli ultimi anni verso la comunità internazionale.
Vucić ha aderito nel 2008 alla svolta moderata che ha portato il suo partito a cambiare nome in Partito progressista e a trasformarsi in una forza di governo.

L’edizione 2014 del Pride belgradese ci parla in modo più ampio delle contraddizioni della politica serba. Ci dice che la forza distruttrice degli hooligan, che era sembrata così ben orchestrata sia nel 2008 in occasione della dichiarazione di indipendenza del Kosovo e durante il Pride 2010, può essere tenuta a freno quando diventa scomoda.

Ma ci ricorda anche dei paradossi della politica per cui l’uomo forte Vucić, il cui partito aveva acquistato popolarità proponendosi come difensore degli interessi dell’uomo comune di fronte ai tycoon e che alcuni giorni fa ha tagliato stipendi e pensioni, ha fatto quello che non era mai riuscito ai democratici: iniziare i negoziati con il Kosovo e con l’Unione Europea da vicepremier e rendere possibile lo svolgimento del Pride da premier.
Anche a costo di maltrattamenti ai suoi familiari. In un incidente non ancora chiarito occorso lo stesso giorno del Pride, il fratello del primo ministro e la sua scorta sono stati malmenati dalla gendarmeria in uno scontro che sarebbe nato dal rifiuto del primo a fornire le proprie generalità. Vucić ha successivamente dichiarato di comprendere il nervosismo della gendarmeria che si trovava a difendere una manifestazione alla quale personalmente era contraria. Così, involontariamente, cercando di dare un colpo alla botte e uno al cerchio, ha ammesso candidamente, quanto siano lunghi i passi da fare, perché le autorità e il sentire comune stiano dalla parte delle vittime e dei diritti e non da quella degli aggressori. Non è casuale che lo slogan del Pride di quest’anno sia stato “Pride – normale!”.

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