Anime nere

di Francesco Munzi. Con Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane, Barbora Bobulova, Anna Ferruzzo.
Nelle sale

di Marco Todarello

Solo chi è calabrese può capire fino in fondo “Anime nere”. Occorre essere nati e cresciuti a sud del Pollino affinché le cupe atmosfere del film ti si attacchino alla pelle, per sentire il cuore che sobbalza davanti a certi sguardi o silenzi, per leggere la geografia umana di un mondo e lo spirito delle anime che lo abitano.

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“Anime nere”, film di rara potenza emotiva e con una fotografia impeccabile, non è l’ennesima solita pellicola sulla mafia: il male non è spettacolarizzato, il sangue che scorre si vede appena, non c’è sensazionalismo e lo sguardo del regista Munzi non giudica, non moralizza, ma si limita a raccontare un mondo assai complesso da decifrare, governato da leggi arcaiche, ineluttabili, e che vigono al di là del bene e del male.

E proprio l’ineluttabilità – dell’onore, dell’appartenenza, della famiglia nella sua sacralità, del vincolo primordiale con il proprio passato – fa di “Anime nere” una tragedia classica ma unica, perché unica è la Calabria profonda, anche nel modo di gestire il conflitto tra arcaicità e modernità.

Si può discutere sul sorprendente finale, del tutto surreale, che però ha il merito di immaginare una via d’uscita, un esorcismo liberatorio, una sorta di catarsi che ancora una volta mette la Calabria e i calabresi davanti agli stessi interrogativi irrisolti.
Infine, “Anime nere” ci ricorda anche che il bene e il male non sempre sono così distanti come vorremmo credere.

 


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