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Da una parte c’è l’informazione e dall’altra la carta stampata: sono due cose separate.
(Vint Cerf di Google, citato da Emily Bell su The Guardian e Internazionale n. 1067)

 

[author] [author_image timthumb=’on’]https://fbcdn-sphotos-b-a.akamaihd.net/hphotos-ak-prn2/208826_10151525732097904_583330344_n.jpg[/author_image] [author_info]di Leonardo Brogioni, @leobrogioni. Fotografo, fondatore di Polifemo. Per QCodeMag autore della rubrica HarryPopper[/author_info] [/author]

 

06 ottobre 2014 – Proprio su queste pagine web avevo già parlato del sorpasso dei social media ai danni dei media tradizionali nella fruizione delle news, da parte degli utenti. La tendenza si sta consolidando.

 

Secondo il più recente Rapporto Censis sull’informazione [pdf] (…) per l’Italia: oltre il 37% degli italiani, infatti, usa Facebook per informarsi, ma il dato supera il 71% quando si tratta della fascia d’età 14-29 anni. (…) Il social network offre alle testate giornalistiche un’irrinunciabile opportunità di “presidio” delle audience digitali: da questo punto di vista, un giornale o un qualsiasi medium non può più prescindere dall’essere su Facebook, essendo questo diventato per i lettori uno dei luoghi privilegiati dove si aspettano di trovare le notizie non appena queste avvengono. (Philip Di Salvo su Wired)

 

È noto che oggi spesso sono gli algoritmi a decidere la diffusione delle news online, ovvero i rilanci social creati automaticamente dalle varie piattaforme in base ai nostri gusti pregressi, ai link e agli interessi dei nostri ‘amici’.
Un approccio che ci considera utenti passivi (e oggetti di marketing), con conseguenze di ampia portata pur se raramente evidenziate. (…)
Purtroppo crescono le testate che si affidano incautamente a questi rilanci per incrementare le proprie statistiche, anche se poi è risaputo che spesso la gente non legge gli articoli segnalati, limitandosi a linkarli pubblicamente – mentre la stessa piattaforma social non si preoccupa di valutarne la validità, fatto che a volte ha spinto alla grande le bufale e la disinformazione. E ora questi algoritmi trovano ampio impiego anche nei motori di ricerca, assicurando risultati ‘personalizzati’ in base ai nostri gusti e navigazioni precedenti, ma anche differenziati a seconda del luogo di residenza (…). Tutto ciò ovviamente all’insaputa dell’utente. (Bernardo Parrella su LSDI)

 

Una giornalista in Austria, Nadja Hahn, ha dato uno sguardo approfondito alla questione del perché i social media siano rilevanti nel giornalismo. (…) Le principali conclusioni emerse sono state:
· Sempre più spesso, la gente non cerca attivamente di ottenere informazioni e notizie, ma le trova invece sui social media. Da un certo punto di vista è l’informazione a trovare le persone e non viceversa. Per l’esattezza il 43% dei giovani di età compresa tra 16-24 trova le notizie di suo interesse sui social media piuttosto che attraverso i motori di ricerca. (…) In definitiva, conclude Hahn, i social media non sono una rivoluzione del giornalismo di servizio pubblico, piuttosto un’evoluzione, che serve come uno strumento, come il telefono cellulare.
Le nuove tecnologie e Internet stanno chiaramente cambiando il giornalismo, sostiene la giornalista austriaca, ma i social network hanno ancora bisogno di valori giornalistici tradizionali, come il controllo dei fatti, la precisione, l’obiettività e la comunicazione di ciò che è rilevante e interessante.
Conclusioni sulle quali non si può che essere d’accordo a patto che giornalisti e fonti d’informazione non si facciano invece trascinare nella corsa a primeggiare sulla tempistica della notizia mettendo a repentaglio, appunto, l’attendibilità, come ahimè sempre più spesso avviene. (Pier Luca Santoro su EJO)

 

Il 20 agosto 2014 Dick Costolo, l’amministratore delegato di Twitter, ha twittato “Abbiamo deciso di sospendere tutti gli account in cui troveremo link a queste immagini esplicite”. Il suo messaggio si riferiva al video della decapitazione del giornalista statunitense James Foley da parte dello Stato Islamico. Per la prima volta Twitter ha fatto una scelta editoriale e l’ha resa pubblica.
Quando a prendere queste decisioni sono i giornali, si parla di scelta editoriale. Quando a fare le scelte sono altri, si grida alla censura. La verità è che in entrambi i casi c’è una forma di censura e c’è al tempo stesso una scelta editoriale. Ormai la distribuzione delle notizie non è più in mano ai camion della News Corp o della Tesco, ma a un algoritmo di Facebook o di Twitter. (Emily Bell su The Guardian e Internazionale n. 1067)

La sociologa Zeynep Tufekci ha notato che, anche se su Facebok venivano postati molti articoli sulle proteste in corso a Ferguson per la morte di Michael Brown, all’inizio questi contenuti non comparivano nel suo feed, ma vedeva solo video di persone che si buttavano secchi d’acqua ghiacciata in testa. Secondo Tufekci gli algoritmi dei social network rischiano di nascondere notizie importanti. (…)
Ormai le notizie sono svincolate non solo dalla carta stampata, ma anche dalle redazioni. È impossibile filtrare in modo efficace il gran numero di immagini, video e tweet creati e condivisi ogni giorno. (…) Il declino dei giornali e il ridimensionamento delle redazioni non liberano solo le notizie da qualsiasi restrizione, ma distruggono la selezione editoriale. (…) Da dieci anni i mezzi d’informazione sono troppo condiscendenti nei confronti delle aziende tecnologiche e s’inginocchiano ogni volta ai loro trucchi magici. L’etica del giornalismo invece dovrebbe influenzare queste aziende, diventate i nostri principali fornitori di notizie. (Emily Bell su The Guardian e Internazionale n. 1067)

 

Ricordiamoci che utilizzare un social network significa mettere i fattacci nostri nelle mani di un azienda privata, la quale ne fa o non ne fa quello che vuole. Siamo liberissimi di farlo, seppur con una scelta consapevole. Ma parlare di censura se i social non passano certe notizie è come fare l’autostop ad un taxista, quello il passaggio ce lo dà volentieri, ma si fa pagare. Se il prezzo è insostenibile la soluzione è all’esterno, con app come Uber che fanno imbufalire la lobby, non pretendendo da essa un mutamento contro natura.
Fuor di metafora e riassumendo: io utente vado sui social anche (non soltanto) per trovare notizie; i media tradizionali non possono prescindere dai social e li usano per veicolarle e stimolare il dibattito (proprio perché ci sono io ad attenderli), ma cadono nelle grinfie degli algoritmi, i quali non rendono visibili certe news che ritengono sconvenienti; io lettore rimango a bocca asciutta, ignaro di ciò che mi interessa e succube della manipolazione; loro (i media tradizionali) pure, ignari della mia ignoranza e succubi del social. Un algoritmo che si mangia la coda.

 

Come uscirne? Prova a dirlo Federico Guerrini su EJO elencando alcune tendenze che si svilupperanno in ambito editoriale, come l’adaptive journalism (responsive design abbinato alla capacità di adeguarsi al contesto in cui è immerso l’utente), nuove forme di storytelling (ad esempio partnership per palinsesti video pensati per Google Glass o utilizzo di droni) e l’alfabetizzazione di redattori e cronisti (per sfruttare i contenuti generati dai cittadini giornalisti in maniera sempre più corretta, verificata e strutturata). Ma soprattutto dice Guerrini:
nell’epoca del Web 2.0 è più importante che una storia circoli in Rete, piuttosto che il fatto di conservarne gelosamente l’esclusiva. Questo implica (…) anche adoperare partnership e alleanze per far sì che una certa storia raggiunga la massa critica sufficiente ad alimentare il dibattito online. (…). I giornali di carta, dal canto loro, dovranno rinnovare profondamente i propri contenuti, se non vogliono diventare, come scrive Juan Antonio Giner, solo una “collezione di notizie vecchie, storie già risapute e qualche commento (…) contenuti obsoleti, di cui nessuno ha bisogno e per cui nessuno sarà disposto a pagare”. Qualcosa che in realtà sta già accadendo: i lettori più giovani sanno ormai a stento cosa significhi l’esperienza della lettura su supporto fisico; non ne hanno bisogno, visto che, ben prima che il giornale arrivi in edicola, sanno già tutto grazie a Internet. Fino ad oggi la carta ha resistito perché la pubblicità su cellulosa continua ad essere molto più redditizia di quella fatta di pixel.

Ma gli inserzionisti vanno dove si trovano gli “eyeball”, gli occhi delle gente, e si stanno facendo sempre più scaltri: non saranno disposti ancora a lungo a pagare certe cifre per avere scarsi ritorni. Per questo i giornali dovranno puntare sui lunghi reportage, sul fact checking, sui contenuti di qualità difficili da copiare e altamente piacevoli e istruttivi da scorrere. Sempre meno flash di agenzia rimontati, sempre meno commenti delle “firme” (che faticano sempre più a competere con blogger ultra specializzati che conoscono ogni minima piega degli argomenti di cui scrivono), sempre più grandi lavori collettivi, di quelli che lasciano il segno. (Federico Guerrini su EJO)

 

 

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