@_Pontifex: la messa [così] è finita.

@Pontifex: d’accordo adesso si twitta, ma vogliamo fare una riflessione sulla comunicazione nella liturgia della domenica? E se sì ecco anche perché. Una provocazione in tempo di Sinodo

di Angelo Miotto
@angelomiotto

 

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7 ottobre 2014 – I campanili che svettano percorrendo lo stivale, la cupola delle basiliche e cattedrali, una società sempre più secolarizzata, un papa che incarna una dottrina sociale avanzata e senza peli sulla lingua. L’oratorio, il campetto e il bar vicino la canonica, sono luoghi che attraversano per tradizione – e spesso per mancanza di strutture pubbliche – frammenti di vita più o meno lunghi di persone più o meno, o per nulla, credenti.
C’è una funzione sociale, di accoglienza specie nei luoghi di frontiera, che riguarda l’agire dei ministri di Dio, che lamentano spesso il percorso inarrestabile di secolarizzazione delle nostre società e cercano anche goffamente a volte di colmare un gap comunicativo che nella velocità dello shock digitale va a schiantarsi contro un muro impossibile da scalare.

 

Ecco però che in questo Kratos, rapporti di forza, vorrei cercare di capire perché il proselitismo della Chiesa cattolica subisce un handicap formidabile in quello che è il momento clou della sua comunicazione e capacità di penetrazione sociale: la messa domenicale.

 

Se ci credete, o se siete praticanti, può essere interessante porsi una domanda. Se non lo siete è un buon terreno di analisi della comunicazione da parte di un editorie forte, capillare, capace di intercettare l’attenzione per la sua presenza costante e spesso invasiva. Insomma @Pontifex, verrebbe da scrivere in un tweet che cercheremo di arginare in 140 caratteri alla fine, vogliamo ragionare su come parlate durante la messa domenicale?

Breve riassunto per chi non frequenta. C’è una liturgia, ci sono dei passaggi: prima la Parola quindi le letture e il Vangelo, poi l’omelia, quindi il momento della consacrazione del pane e del vino e la memoria dell’ultima cena, quindi proprio dopo il memoriale c’è la comunione e il commiato finale. Se va bene sono circa 40/45 minuti, ma se vi imbattete nel sacerdote logorroico, o in quello che soppesa ogni gesto – e ogni gesto ha un significato – allora mettete in conto un’ora piena. Messa solenne, dimenticate l’orologio.

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In questa analisi, vale la pena confessarlo, gioco una conoscenza diretta, quella di chi è stato per molti anni un chierico fedele al servir messa. Sgombriamo il discorso personale sulla fede, perché ci sono parole che giocano agilmente anche in un versante puramente laico. Servire, questo verbo umile, è la porta di una dimensione anche e soprattutto laica. Mettersi al servizio di qualche cosa. Se poi aggiungete la religiosità, anche quella di Lucrezio quindi in qualche modo della ‘superstizione’ (tantum religio potuit suadere malorum, cit.), si spalanca tutta una visione sul servizio accompagnato dal fatto di mettersi in relazione con oggetti e azioni che rientrano nel sacer, nel sacro che è un elemento che contraddistingue fin dalla sua radice indoeuropea di etimo una ricerca di qualche cosa che sia relazionato alla comprensione di un significato del mondo, in maniera prevalente, poi legato – e indissolubilmente – alla religione.

Allora non si è qui a negare che la messa domenicale, la liturgia scritta perché ogni passaggio avvenga così e non in maniera casuale, abbia un significato voluto, tanto quanto voluta era la dimostrazione che il sacerdote forniva ai fedeli celebrando messa di spalle rispetto alla comunità. Lui e il Dio e dietro i fedeli, in una gerarchia sempre cercata dalle religioni rivelate. Ma analizzando la comunicazione del sacro in questione ci si ritrova piuttosto sperduti. Davvero si può pensare oggi che solo l’elemento fideistico sia capace di reggere una struttura comunicativa così vetusta come quella della celebrazione della messa domenicale? Come sostenevo, le dinamiche sociali negli oratori, sui campetti, nei campeggi, nelle castagnate (viva il parroco!) e gite varie non dovrebbero essere dei messaggi precisi rispetto a una direzione diversa di quella stessa comunicazione di sacralità?

L’elemento della ripetizione, qui ci addentriamo in molte religioni e in un discorso anche musicale, è tremendamente affascinante. Leggete i salmi. Ve ne sono alcuni che nella ripetizione trovano una musicalità interna che porta a una dimensione di meditazione. Suonano. Risuonano. Credenti e non, la stessa cosa si potrebbe dire del sacro Om.

Ma in questo caso siamo dentro un meccanismo che non è quello che si cerca nell’impianto comunicativo liturgico della messa domenicale. Le frasi del celebrante e le risposte dell’assemblea sanno di stantìo. Di per sé hanno un vero significato, quello del rito.

Il rito è un’esperienza sensoriale che affonda le sue radici in una serie di passaggi che ricoprono nel proprio essere simbolici una potenza di significato. Ma solo se il rito è compreso, solo se il rito non è routine. Il Signore sia con voi. E con il tuo spirito. Bene, ha un significato. Ma nella macchinetta del dire e rispondere a comando, come nel Credo, recitato pedissequamente mentre potrei pensare a qualsiasi azione da svolgere nelle prossime due ore, oppure seguendo chi scappa avanti e anticipa le parole e chi cerca infastidito di tenere l ritmo, o chissà altra quale distrazione non vi è nessun elemento che possa aiutare ad aggiungere un tassello a quel sacro che si celebra.

Eppure nel Credo c’è tutto e ogni parola è un contratto, ogni verbo una sua storia che si tramanda nei secoli.

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Certo penseranno alcuni di voi (compimenti se siete arrivati fin qui), la Chiesa usa la comunicazione come strumento di potere e di controllo. Accettiamo questa visione per un attimo: ma allora? Se depotenzi il meccanismo di comunicazione e rendi logore formule di per sé scrigno di una tradizione, come potrai mai pensare di avere ‘armi affilate’ per il famoso evangelizzare?

Tralasciamo l’omelia, perché le Scritture in sé hanno un sapore letterario sempre interessante, ma l’omelia diamola per persa, così come molto spesso è solo il compitino dal pulpito in una comunicazione frontale e non condivisa che non può che generare che sbadigli. O, al contrario, un sistema di preferenze: vado in quella chiesa perché c’è un frate che parla bene…

Non c’è un momento, forse il Padre nostro, in cui si senta un’innovazione comunicativa, una formula diversa, un tentativo di capire lo spirito del tempo per raccontare una storia vecchi di millenni. Dal punto di vista della comunicazione, insomma, l’aver trascurato l’elemento fondamentale del messaggio – e cioè che deve essere compreso e quindi essere udito e quindi essere tanto più interessante quando i tempi di attenzione diventano così sottili e disponibili alle interferenze, si può dire caro @Pontifex che c’è molto da lavorare.

Da vecchio cattocomunista – siamo i peggiori – non resta che consigliare non di svendere la liturgia al marketing, ma di capire la lingua che viene oggi parlata per poter esprimere e far passare il messaggio. Non bastano un milione di tweet a colmare questa lacuna. Salvate la bellezza del rito, che nella sua ritualità prevede la ripetizione, caricando i momenti di passaggio di nuova forza comunicativa. Contemporanea. Da laico, in fondo mi dispiace vedere che mentre le conferenze episcopali cercano, crollata la Dc, di utilizzare strumenti moderni per influenzare la sfera pubblica, quindi laica, proprio sul loro ‘main message’ non ci mettono la stessa attenzione, lo stesso entusiasmo.

 

Caro Francesco, vediamo se riesco a dirtelo in un tweet.

@Pontifex liturgia messa logorata da routine. Per dare un messaggio perché non usare la lingua d’oggi? Così sia. #lamessaefinita

 

 

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