Poche cose uniscono come il raccontare storie

Incontro con Claudio Magris, ospite al Festivaletteratura di Mantova

 

di Giulia Bondi
@gnomade


7 ottobre 2014 –
“So scrivere soltanto a mano. Non lo faccio perché credo che questa penna sia più vicina a Dio della tastiera di un computer. Solo, scrivo come posso”.
Iniziano così le quasi due ore di incontro tra Claudio Magris e i circa mille spettatori seduti in piazza Castello a Mantova per assistere al suo intervento al Festivaletteratura. E continuano con una serie di storie, una per ciascuno dei “Tavoli della scrittura” cui è dedicato l’appuntamento, con un titolo che rende omaggio a Italo Calvino e Robert Louis Stevenson.

Lo scrittore scozzese, nel saggio “La casa ideale”, immaginava uno studio con cinque tavoli: uno per il lavoro del momento, uno per i libri da consultare, uno per i manoscritti e le bozze, uno per le carte geografiche. E uno sgombro, per ogni evenienza.

Saggi, articoli, romanzi e lettere. Eccoli i tavoli di Claudio Magris, separati ma attigui, con un gran viavai di fogli dall’uno all’altro. Dalla realtà delle notizie alla finzione artistica, che le trasfigura in verità più belle e più vere. Dalla ricerca filologica al racconto, perché il personaggio di “Danubio” che vende le sue braghe per restaurare il duomo di Ulm merita – assicura Magris – “la stessa attenzione alle fonti che riserveremmo a Goethe”.

Ancora, scambi epistolari che diventano libri, come quello nato dal carteggio col poeta e scrittore Biagio Marin (“Ti devo tanto di ciò che sono”, Garzanti). E lettere, montagne di lettere ogni giorno. “Rispondo a tutte – conferma lo scrittore: – sono dell’idea che se ti danno un pugno ne devi restituire uno e mezzo”.

 

Claudio Magris a Mantova (foto Festivaletteratura)

Claudio Magris a Mantova (foto Festivaletteratura)

 

Una lezione densa, in cui ogni parola ha peso, eppure non mancano battute che strappano un sorriso. I tavoli, ovviamente, non sono che un pretesto per parlare di libri e storie, e di che senso abbia raccontarle.

Il primo tavolo è quello dei saggi, e Magris comincia il suo excursus dal primissimo, “Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna”, pubblicato a soli 24 anni ampliando la sua tesi di laurea.

“Dell’impero austroungarico potremmo anche infischiarcene – dichiara. – Ma a me serviva come metafora della fine di un ordine e di un’epoca. Un’epoca in cui era evidente che la vita non fosse fatta solo di atomi. In cui – prosegue citando Goethe – era naturale immaginare un filo rosso in ogni cordame di ogni albero di ogni nave della Marina britannica”.

“Prima di iniziare un libro – racconta lo scrittore – ci si illude di sapere cosa sia. Ma i libri, anche le monografie accademiche, sono sempre delle sorprese”. Così, scrivere dell’impero austroungarico diventa l’occasione “di misurarsi con la seduzione delle idee, la necessità di resistere al loro fascino, il bisogno di ribellarsi per mettere alla prova la propria fedeltà”, in una scrittura che è sempre “obliqua”. E Magris cita György Lukács, filosofo e critico ungherese, che i suoi saggi li avrebbe scritti “al posto di poesie e lettere d’amore per la sua adorata Irma”.

Dall’impero asburgico, sul quale Claudio Magris esprime “giudizi negativi che ne tradiscono il fascino”, alla Mitteleuropa perduta dell’ebraismo orientale, il passaggio è ancora una storia.

La storiella jiddisch di un ebreo in partenza per Danzica, per poi imbarcarsi per l’Argentina. “Allora vai lontano”, gli dice un conoscente. “Ma lontano da dove?”.

La risposta è quella di chi non ha una patria, se non le proprie tradizioni. È la frase che dà il titolo a un altro celebre saggio, quello con cui Magris ha contribuito alla riscoperta di un narratore come Joseph Roth. In “Lontano da dove: Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale” (Einaudi, 1971) Magris parte dall’opera di Roth per narrare la fine di un mondo: la fuga degli ebrei orientali dallo shtetl, un villaggio che, almeno nel ricordo, era “un sistema ordinato, come lo scudo di Achille”.

Il centro del libro, spiega Magris, “non è davvero Joseph Roth, che da quell mondo era già sradicato, ma Isaac Singer, scrittore in lingua jiddisch che era lui stesso un dybbuk, come uno dei demoni che descrive nei propri racconti, capaci di vedere senza essere visti”. E conclude con un’altra storia jiddisch, quella del sarto che ci mette due anni a cucire un paio di calzoni, e al cliente che lo rimprovera, ricordando che Dio ha creato il mondo in sei giorni, risponde: “Infatti, e guarda com’è ridotto!”.

Dai saggi ai romanzi. “Per scrivere ‘Danubio’ – ricorda Magris – ho viaggiato quattro anni. E ho scritto confrontandomi con un “io narrante” che non sapevo fino a che punto fossi davvero io. Lo ero solo in parte, tanto che lui muore, mentre io sono ancora qui”.

Realtà e finzione. “L’interesse per la realtà – prosegue Magris – sta su ciascuno dei quattro tavoli. Perché la vita, come ha detto bene Italo Svevo, o anche Mark Twain, è più originale della finzione. È così inverosimile che se la scrivessimo alla lettera sarebbe kitsch. Nessun genio può competere con la genialità obiettiva della realtà – afferma, e rincara la dose: – e nessuna fantasia, anche se intensissima, sarà mai pari alla sensazione reale di bombe al fosforo che ti cadono sopra la testa”. Così Magris racconta del tavolo su cui raccoglie le notizie, per poi riscriverle “stravolte ma in sé autentiche”.

“La promessa di una patria cosacca in Carnia sarebbe, se le conseguenze non fossero tragiche, una notizia da circo equestre. A inventarla non sarebbe credibile”, dice, riferendosi a quello che è stato lo spunto del suo romanzo breve “Illazioni su una sciabola”.

“Nelle ‘Memorie di Adriano’ – prosegue – tutto è vero, incluse le passeggiate notturne dell’imperatore. Eppure nessuno si sognerebbe di dire che quello non è un romanzo. La realtà è più grande, ma l’arte e l’invenzione servono a mostrarne la grandezza”.

Dal rapporto tra realtà e finzione a quello tra narrativa e giornalismo. Per anni collaboratore del Corriere, Magris ha raccolto una serie di editoriali e interventi nel volume “Livelli di guardia. Note civili”.

“Claudio Marabini – dice – chiamava il giornalismo ‘letteratura bastarda’. Con affetto, come Shakespeare chiamava ‘nati sotto una rosa’ i figli illegittimi”.

Parlare di giornalismo significa riflettere sul rapporto tra tempo e racconto, sulla ricerca della “verità del momento” che c’è in ogni racconto giornalistico, evidenzia Magris citando Bernardo Valli, e la raccolta dei suoi reportage pubblicata quest’anno da Mondadori. Racconti istantanei e necessari, perché, sostiene Magris, “esistono cose assolute che si rintracciano solo mettendo le mani, subito, nella polvere mescolata al sangue”.

Certo, l’indicativo presente di un articolo, magari di una polemica, è ben diverso dallo stile di un racconto, ricco di congiuntivi o condizionali. Dal giornalismo, Magris passa a parlare di uno degli scrittori sudamericani che ha più amato, Ernesto Sabato, e con lui del rapporto “che sta su tutti i tavoli, tra scrittura diurna e scrittura notturna”.

“Ognuno di noi ha un sosia – afferma – il quale, per dirla con Hoffman, esprime ‘verità detestabili’ con una ‘voce orribile’. Il sosia, “l’io notturno”, va lasciato parlare, “perché esistono orrende verità della vita con le quali fare i conti”. Lo spazio del sosia è quello della letteratura, certamente non quello dell’etica, afferma Magris con decisione: “Ernesto Sabato arriva a scrivere che ‘fare è innocente, essere è colpevole’. Una frase che sarebbe aberrante in un contesto etico politico. Ma la letteratura ci consente di dire il vortice, di cercare il senso e l’armonia attraverso la distorsione”.

Il riferimento è in particolare alla narrativa del Novecento: “Nell’Ottocento l’azione si svolgeva dentro la Storia: Zola poteva usare lo stesso linguaggio per scrivere ‘Germinal’ e i suoi articoli di attacco a Napoleone Terzo. Kafka non può scrivere allo stesso modo quando esprime solidarietà ai minatori della Slesia e quando racconta di un uomo che diventa scarafaggio”.

E arriva così la domanda finale, sul perché si scrive. “Per amore, paura, protesta, ricerca di ordine o di senso”, elenca Magris, ma soprattutto “Per la lotta contro l’oblio, per salvare cose e persone”. La scrittura, come un’Arca di Noè, assume un senso religioso, nel senso etimologico e profondo di legame. “Poche cose uniscono quanto il raccontare storie”, conclude Magris. E lo dice ancora con una storia.

“Nella tradizione hassidica le storie, non solo quelle pie, erano una forma di preghiera. E si dice che il rabbino Ba’al Shem Tov conoscesse un posto del bosco, un modo di accendere un fuoco e una preghiera che gli permettevano di comunicare con Dio”.

“Il suo discepolo – racconta Magris – perdette la preghiera, ma aveva ancora il bosco, e il sapere che gli permetteva di accendere quel fuoco. Il discepolo del discepolo dimenticò come accendere il fuoco, ma conosceva ancora il posto nel bosco. Il discepolo di quest’ultimo, poi, perdette anche l’ultimo sapere, quel posto nel bosco”.

E a noi cosa rimane? “Noi – conclude la storia hassidica, e con lei Claudio Magris, – noi abbiamo perso tutto, ma di tutto possiamo raccontare la storia”.

 

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