I partigiani di Giulio Questi

Classe 1924, partigiano per due inverni e poi regista di culto, Giulio Questi racconta la sua guerra senza retorica, in una raccolta pubblicata da Einaudi

 

Testo di Giulia Bondi – @gnomade

Video di Glauco Babini

 

“Si vide appeso a un gancio di macellaio esposto nella piazza. Si vide trascinato da una camionetta sul selciato dei vicoli legato per i piedi. Si vide sparato nella testa da una calibro nove. Vide tutte le sue possibili morti e lei accettò. Gli sembrò inaccettabile morire in mutande”.

18 ottobre 2014 – Ha 18 anni Clem, protagonista di uno dei primi racconti di “Uomini e comandanti” (Einaudi, 2014). E aveva vent’anni, all’epoca dei fatti, l’autore oggi novantenne, Giulio Questi, partigiano nelle montagne bergamasche per due inverni consecutivi, 1943 e 1944. Dopo la guerra, Questi si dedica al cinema, come aiuto regista, sceneggiatore, perfino attore nella “Dolce vita” di Fellini.

Firma anche lungometraggi diventati di culto, come il thriller visionario ed ecologista “La morte ha fatto l’uovo” e lo spaghetti-western “Se sei vivo, spara”, appena uscito sequestrato dalla censura per le sue scene violente (ispirate, secondo il racconto del regista, alla sua esperienza della guerra partigiana), ma apprezzato da Enrico Ghezzi e Quentin Tarantino e ri-proiettato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2007.

“Per tutta la vita ho scritto per il cinema”, spiega Questi, ospite al Festivaletteratura di Mantova in una serata condotta dallo scrittore Davide Longo e intitolata “Nuovi racconti partigiani”.

“Quella del cinema – prosegue – è una scrittura sfacciata. Soggetti e sceneggiature sono testi alla disperata ricerca di soldi. I racconti, quelli sulla guerra partigiana e su alcune mie esperienze del dopoguerra, sono invece frutto di una scrittura intima. Quelle storie battevano alla mia porta così forte da farmi sentire a disagio”.

 

 

La raccolta “Uomini e comandanti” contiene racconti scritti nel primo dopoguerra, altri degli anni Novanta, gli ultimi degli anni Duemila. Alcuni li aveva pubblicati Elio Vittorini, sul “Politecnico”. Altri, Giulio Questi li porta all’Istituto storico della Resistenza di Bergamo, dove consulta l’archivio e stringe amicizia con il direttore, lo storico Angelo Bendotti (che oggi firma la postfazione del volume).

Questi mette i racconti a disposizione, perché siano pubblicati sul periodico dell’Istituto bergamasco, “Studi e ricerche di Storia contemporanea”. “È così – racconta – che sono finiti nelle mani di Sergio Luzzatto”. Luzzatto, storico, autore della “Crisi dell’antifascismo” (Einaudi, 2004) e del discusso “Partigia” (Mondadori, 2013) prende contatti con la casa editrice Einaudi, che un giorno d’autunno, con una telefonata a casa dell’ignaro Questi, manifesta l’intenzione di pubblicare una raccolta. “Hanno fatto tutto a mia insaputa, come accadde al famoso ministro”, si schermisce.

Ha una testa di capelli lisci, Giulio Questi, di un color grigio tendente al paglierino. Le sneakers che calza e la camicia beige fuori dai pantaloni sportivi lo fanno sembrare più giovane. Una seconda occhiata rivela le rughe del volto, il leggero tremore delle mani, gli occhi chiari e vivaci dentro la fossa delle occhiaie.

Scrive di partigiani sgarrupati, poche battaglie, molta attesa. E sogni che riaffiorano nel dopoguerra, sul lettino dello psicanalista. Anche i racconti che non narrano di vicende partigiane, ma di storie del dopoguerra o intrighi caraibici, entrano, con scene semplici e ineluttabili, nelle profondità feroci dell’animo umano, nelle potenzialità di violenza degli spazi senza regole.

Su tutto, uno sguardo senza filtri, con risultati perfino divertenti. L’ironia di Questi non è quella del narratore-studente dei “Piccoli maestri” di Meneghello, che sperimentando il rinculo dello sten medita sulla “certezza della fucilazione del culo”. È un’ironia che sgorga direttamente dai suoi personaggi proletari.

Come Angelo, nel racconto i “Tre volontari”. Una bottiglia di Campari gli esce da sotto la giacca e finisce in frantumi “sul selciato della mulattiera”. E lui replica, ai compagni indispettiti da improvviso moralismo: “Ebbene sì! L’ho rubata giù in paese nel Bar dello Sport! È da piccolo che sognavo di bere un aperitivo. E ora ce l’ho fatta! Viva la guerra!”.

I partigiani di Questi non sono eroi. Sono ventenni, finiti in montagna per avere scelto il male minore: “In una banda partigiana – spiega l’autore – metti in gioco la tua vita, ma in base a una tua scelta. E se dici di no non ti fucilano per diserzione: semplicemente, hai avuto paura”. L’ideologia, commenta ancora l’autore, arriva dopo.

“Ho raccontato quello che accadeva sul campo. In mezzo al fango, tra i sassi, le rocce, la neve. Sono partito dall’autenticità dei miei compagni e dei miei comandanti. La mia memoria si è congelata e mantenuta perfettamente, senza polvere, come nel surgelatore”, spiega Questi, e riprende: “Eravamo giovani ignoranti di tutto, soprattutto della politica. Una tabula rasa. È stata la guerra a scrivere sulle coscienze di questa gente semplice”.

 

 

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E così, sempre nei “Tre volontari”, a Beniamino, che parla come un volantino stampato, ricordando che “i tedeschi bruciano le nostre case e i nostri villaggi, calpestano il sacro suolo della partria, violentano le nostre donne…”, il coetaneo Pasquàl risponde: “Io non ci ho una casa”. E il terzo, Cleme, aggiunge: “E io non ci ho né madre né sorelle. Né una ragazza d’andarci sul fieno, tutta per me! M’è rimasta una zia che non vedo quasi mai”. Concludono che la lotta va fatta ugualmente “per le case e le donne degli altri”. E che magari, un giorno, avranno qualcosa anche loro, come Angelo, che “ha già rimediato una giacca nuova”.

Con la stessa semplicità dei suoi personaggi, Giulio Questi ripercorre l’episodio da cui è nato il suo “Se sei vivo, spara!”: “Io e Franco Arcalli, il mio montatore, stavamo lavorando alla sceneggiatura di quello che poi sarebbe diventato ‘La morte ha fatto l’uovo’. Ci bussa alla porta un produttore e ci dice: ‘Scrivetemi subito un western per domani, basta una paginetta’. A quel tempo i film western erano moneta corrente”.

Altrettanto schietto è il ricordo dell’incontro con Beppe Fenoglio, assieme al quale Questi lavora per qualche tempo alla sceneggiatura di un film  sulla guerra partigiana. “Non ricordo che anno fosse – dice Questi. – Avevo già le mie storie partigiane, segrete. La scrittura di Fenoglio mi sembrò impressionante. Ci incontrammo in una trattoria e lui mi disse: ‘Ti spiego cosa sto scrivendo’ e iniziò a fare la scaletta sulla tovaglia. Era ‘Una questione privata’.” Il lavoro continua per qualche tempo, Questi cerca di adattare alle esigenze cinematografiche i personaggi di Fenoglio, “così raffinati, intellettuali, sottili, mentre io cercavo una storia proletaria”. Il film non si fa, per la malattia e poi la morte dello scrittore piemontese.

Restano i giovani carbonai e contadini di Giulio Questi, a muoversi dentro una guerra irregolare, che tradisce le aspettative di eroismo, che si cementa per sempre nella memoria, che fa crescere all’improvviso un’intera generazione.

C’è il soldato siciliano, che si è unito alla banda partigiana dopo essere rimasto incastrato a nord della Linea Gotica, che sorprende i compagni montanari tuffandosi nudo in un lago montano. Ci sono azioni di guerriglia raccontate in forma di sogno.

Ci sono omicidi che si rivelano l’opposto di quanto progettato, come in “Gioventù”. Il protagonista irrompe a casa del generale che deve assassinare, immaginando “una tavola imbandita” tintinnante di candelabri e vassoi. Trova invece “un uomo di mezza età in ginocchio su un letto matrimoniale nell’atto di alzare le coperte per mettersi sotto, a gambe nude, vestito soltanto di una camicia grigio verde troppo corta, e in piedi accanto al letto una donnetta in vestaglia color amaranto, sua moglie o amante, che si girò stupita”.

Le immagini del novantenne narratore si materializzano davanti agli occhi: quando parlando descrive la città di Amburgo “piena di vento, nuvole e navi”, dove si trova a lavorare negli anni Sessanta come aiuto regista di Francesco Rosi. E quando scrive. Nel racconto “Una battaglia”, dipinge la preparazione dei fuochi in attesa di un aviolancio alleato.

“Ci precedeva – scrive Questi – il comandante M., che con due fiaschi di petrolio tenuti per il collo gridava: – Un triangolo isoscele con la punta in direzione del vento! – come un folle maestro elementare anch’ egli in fuga con i suoi scolari, portati a un picnic maledettamente istruttivo a 15 gradi sotto zero. Il risultato di quella lezione di geometria furono tre falò che si accesero a grande distanza sul ghiaccio dei laghi”.

 

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Dall’affresco immaginifico del triangolo di fuochi accesi sul ghiaccio alle frasi lapidarie sulla fucilazione di tre ribelli troppo ribelli, nel racconto “Il roccolo”: “Consegnai il messaggio sigillato al comando della brigata. Era un ordine di fucilazione. Tre ragazzi vennero disarmati e messi al muro. Intervenni di slancio, con una domanda di grazia. Venni messo al muro anch’io. Ritirai subito la domanda.”

Niente eroi, in queste pagine. Qualche comandante, dagli occhi chiari e dalla giacca a vento bianca. E molti uomini. Giovanissimi, affamati, rapiti da sogni di tette e di polente. Giovani che sarebbero cresciuti in fretta, durante quei mesi concitati.  “È lecito dire – scrive Questi in “Uomini e comandanti”, racconto che dà il titolo alla raccolta – che si trattava di una raccolta dei peggiori arnesi, svaligiatori di tabaccherie e ladri di vitelli, come da qualcuno è stato detto?

“Mi limiterò a riferire quel che ho sentito in un’aula di tribunale dalla voce tonante di un vecchio avvocato, in uno dei tanti processi che seguirono a quegli anni: ‘Il moralista giri sui tacchi e si allontani senza più farsi vedere! Se la gioventù è un delitto, che la sua bandiera criminale possa sempre sventolare su speranze e sogni mai privi di risvegli improvvisi, con evidenti scarti e soprassalti!’

“Il processo fu un disastro.”.

 


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