Croazia: “Il referendum sull’indipendenza era illegale”

Dejan Jović, principale analista politico del presidente Josipović, analizza il referendum scozzese dello scorso 29 settembre e ritorna sulla legittimità di quello croato del 1991


di Giorgio Fruscione, EastJournal

 

19 ottobre 2014 – Lo scorso 29 settembre l’opinione pubblica in Croazia è stata scossa dalla comparsa di un articolo a cura di Dejan Jović professore della facoltà di scienze politiche di Zagabria e principale analista politico dell’ufficio del presidente della Repubblica croata Ivo Josipović, dal titolo “Solo nei miti ogni popolo desidera uno stato. Nella realtà – no”.
Nel testo – pubblicato sulla rivista politologica della facoltà di scienze politiche e di cui Jović è direttore – l’autore espone un’analisi circa il referendum sull’indipendenza da poco tenutosi in Scozia, effettuando un confronto con quelli tenuti ad inizio anni novanta nelle repubbliche jugoslave che ambivano l’indipendenza, ed in particolare sul referendum croato del 1991.

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Secondo l’interpretazione di Jović, il risultato del referendum scozzese – che ha sancito la permanenza di Edimburgo all’interno del Regno Unito – è la dimostrazione che “non è vero che ogni popolo desidera un proprio stato indipendente”.

Questa visione sarebbe quindi condivisa solo dai nazionalisti, convinti che la mancata indipendenza di una nazione sia da attribuire all’interposizione di un ostacolo, ovvero lo stato federale in cui la stessa nazione è inserita. L’analisi di Jović prosegue sostenendo che l’autodeterminazione di un popolo, sia interna che esterna, sia ostacolata principalmente da due fattori: la presenza di elementi “estranei” alla nazione, ovvero di appartenenti ad altri gruppi nazionali, definiti a seconda dei casi come “occupatori”, “aggressori” o “colonizzatori”; e da quegli appartenenti alla nazione che invece si rifiutano di partecipare alla costruzione di una nuova entità indipendente, definiti “traditori della nazione” o “privi di una coscienza nazionale”.

Tralasciando per un momento il primo fattore, l’autore smonta la tesi per la quale ogni popolo persegue la costituzione di uno stato-nazionale. In merito al caso scozzese egli spiega quanto siano forti la coscienza e l’identità nazionale scozzesi, così come esse si sono evolute nel tempo, e di come queste si siano a loro volta sviluppate all’interno del contesto multinazionale britannico. La vittoria “unionista” al referendum non sarebbe quindi da attribuire ad una poco sviluppata identità nazionale in Scozia. Di conseguenza, è tutt’altro che corretto definire “traditori della patria” coloro che dissentono dal progetto indipendentista. In particolare, “è chiaro a tutti – scozzesi, inglesi, irlandesi e gallesi – che la Scozia non è né un’entità né una contea né tanto meno una regione autonoma, ma bensì una delle nazioni creatrici del Regno Unito”.

Così come nel caso della Jugoslavia socialista, le nazioni inserite all’interno di uno stato federale assumono lo status di “popoli costituenti”, e di conseguenza nel caso britannico il Regno resta Unito solo finché questa sarà la volontà congiunta di inglesi, scozzesi, irlandesi e gallesi. Coloro che si oppongono ai piani nazionalisti di secessione non vanno dunque interpretati come elementi estranei alle “aspirazioni nazionali”, ma al contrario vanno intesi come la volontà di preservare lo spirito nazionale in un contesto però di autodeterminazione e crescita comune, che solo gli stati multinazionali possono garantire.

Nel caso jugoslavo questa autodeterminazione comune dei sei popoli costituenti (serbi, croati, sloveni, musulmani, macedoni e montenegrini) è stata conseguita nel corso delle fasi storiche che hanno visto il prevalere di valori e battaglie comuni sugli interessi nazionalistici locali, come nel caso della lotta partigiana contro le forze nazi-fasciste.

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Dejan Jović

 

L’analisi di Dejan Jović si muove quindi in considerazione del referendum sull’indipendenza croata, focalizzandosi su ciò che distingue il caso scozzese da quello dell’ex-Jugoslavia: ovvero l’assenza di un contesto di violenza reale e psicologica e l’equa partecipazione delle parti in causa. Infatti, i referendum tenuti nell’ex-Jugoslavia, ad eccezione del referendum montenegrino del 2006, possono essere definiti sì “democratici” se per democrazia si intende l’espressione di una maggioranza ed una minoranza ma allo stesso tempo altamente “illiberali”.

Il motivo di questa definizione, sempre seguendo il ragionamento di Jović, risiede nel fatto che nel contesto della Croazia del 1991 “non vi era abbastanza libertà per esprimere il proprio pensiero, senza la paura giustificata di subire drastiche ripercussioni,”.
Da un lato infatti vi erano coloro che sostenevano a priori che il separatismo era un atto inaccettabile di tradimento; e dall’altro coloro che a loro volta definivano quest’ultimi come “aggressori e occupatori”, in quanto appartenenti a un altro gruppo nazionale, o “traditori”, nel caso di appartenenti allo stesso gruppo nazionale.

In quest’ottica appare chiaro che i referendum per l’indipendenza nell’ex Jugoslavia non potevano non assumere il carattere di apertura alla guerra. In particolare, la Croazia del 1991 era un contesto caratterizzato da un’alta tensione psicologica così come da un elevato tasso di violenza. A vincere fu dunque la minaccia e la violenza esercitata dalla pressione psicologica delle elite nazionaliste al governo, e non il libero pensiero dei cittadini.

La secessione fu infatti, in base all’analisi di Jovic, un progetto politico premeditato ed organizzato a prescindere dalla volontà popolare, e il risultato del referendum non fece che constatare il processo di omogeneizzazione etnico-politica messa in atto dalle elite al governo. A differenza del caso scozzese infatti, dove le parti a favore e contrarie all’indipendenza hanno partecipato in maniera uguale e pacifica al dibattito pubblico che ha preceduto il voto, nel caso croato (e poi bosniaco) nessuno poteva permettersi di esprimersi liberamente senza essere vittima di violenze, minacce e soprattutto esclusione sia sociale che nazionale.

Le tesi del politologo Jović hanno generato un notevole dibattito a livello accademico mentre a livello politico le reazioni sono state più drastiche, anche in virtù dell’imminente voto per la presidenza della repubblica. Dejan Jović è stato infatti licenziato dall’ufficio della presidenza di Ivo Josipović, che ha definito le dichiarazioni dell’accademico “nocive e sbagliate”.

Inoltre, appare piuttosto ironico che in questi giorni alcuni media croati stiano definendo il professore di scienze politiche come un elemento dannoso per la politica e l’immagine della Croazia, confermando de facto la stessa tesi di Jović che accusa il pensiero unico e l’illiberalità che hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare le questioni relative alla storia dell’indipendenza della Croazia.

In conclusione, il caso di Dejan Jović e del suo licenziamento, più che la questione del referendum in sé, confermano quanto illiberale sia in realtà l’arena politica di Zagabria che con la controversa e discussa indipendenza cercava proprio di democratizzarsi e rendersi aperta al pluralismo.
Infatti, chi accusa di illiberalità le politiche nazionali, condannando le etichettature di “traditore della causa nazionale” per coloro che ne dissentono, finisce ironicamente per essere vittima di trattamenti illiberali e diventare un traditore della patria.

 

Dell’indipendentismo scozzese, così come della questione del federalismo jugoslavo, ci siamo occupati nell’ultimo numero di MOST.

 

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