Once Brothers

Divac-Petrovic: simboli di una generazione che la guerra in Jugoslavia ha spazzato via

di Christian Elia
@eliachr

24 ottobre 2014 – Il 22 ottobre 1993 moriva Drazen Petrovic. Se adesso vi state chiedendo chi fosse, non saprete mai cosa vi siete persi e per spiegarlo va benissimo il gran bel pezzo di Alfredo Sasso pubblicato su EastJournal.

Quello che invece, ogni anno, vien da pensare quando si ricorda Petrovic è la storia di una generazione. I ragazzi jugoslavi, che si trovarono ventenni o trentenni a doversi odiare. Già, proprio così. L’odio come condizione necessaria di relazione, come grammatica di una nuova indifferenza. Perché questo ti veniva chiesto, questo capitava, anche se si era cresciuti insieme.

Sia chiaro: Drazen Petrovic era un privilegiato. Star della pallacanestro jugoslava, diventa una delle icone pop di prima grandezza nel suo Paese. Che era la Jugoslavia, poi divenne la Croazia. Un predestinato, quasi ossessionato dal basket. Con lui, una generazione di fenomeni. Radja, Kukoc e, soprattutto Vlade Divac.

Un gruppo cresciuto assieme, nutrito dalla federazione di Belgrado, dove Petrovic e Divac emergono più degli altri. Più grande il primo, ma più fragile caratterialmente, più giovane il secondo, ma spaccone e allegro, sole e luna, coppia perfetta. E questo diventano, come racconta Once Brothers, uno dei documentari più affascinanti tra quelli dedicati a una storia legata allo sport.

 

 

I due ragazzi, selezionati dalla grande Nba statunitense, sono due stelle. Condividono, pur giocando in squadre differenti, l’avventura a stelle e strisce, facendosi forza, tenendosi per mano, aggrappati a un telefono per gestire una celebrità nuova, un mondo nuovo, lontano da casa, con i successi e gli intoppi.

Solo che a casa, lontano dalle loro vite, la Jugoslavia andava a pezzi. I nazionalismi si incancrenivano, aggredendo il corpo dello Stato nato dopo la Seconda Guerra mondiale. Lacerandolo, mordendolo. Secessione, indipendenza, guerra. I ragazzi sono fortunati, giocatori di basket professionisti, ma a casa ci sono – ora su trincee opposte – familiari e amici.

Ecco che, all’improvviso, Vlade e Drazen si guardano sotto una luce nuova: Divac è serbo, Petrovic croato. Anche gli altri, come spiegano bene nel documentario, sono proiettati in un mondo allo stesso tempo lontano e vicino. Un mondo che va in frantumi proprio alla fine del cammino fatto tutti assieme: il campionato del mondo di pallacanestro del 1990, in Argentina.

Quella squadra di fenomeni vince il titolo, ponendo fine alla dittatura delle superpotenze dell’Urss e degli Usa. Giocando una pallacanestro ancora insuperata. Ma un tifoso entra in campo con una bandiera croata, Divac reagisce, urla che sono tutti jugoslavi. Molti compagni capiscono, Petrovic no. Finisce una bella amicizia, perché la guerra si comporta così.

 

Divac abrazando a Petrovic

 

Nei tre anni successivi tra i due scende il gelo, nonostante tentativi di riconciliazione. Gli altri croati del dream team si allontanano da Divac, perché i loro amici al fronte gli chiedono di farlo. Divac vede la Croazia vincere, si chiede perché non giochino assieme, la Croazia abbandona il podio quando suona l’ìnno della nuova federazione tra Serbia e Montenegro. Una guerra fredda, nell’anima. Una distanza gelida.

Che Divac rimpiange di non aver potuto sanare. Perché un incidente d’auto, nel 1993, si porta via Petrovic. Passeranno tanti, troppi anni, prima che Divac possa visitare la tomba del suo amico. Lo fa accompagnato dalla troupe del documentario. Lasciando in silenzio, sulla tomba di Drazen, una foto che li ritrae abbracciati, dopo l’ennesima vittoria conquistata assieme. Perché in quella tomba non giace solo uno dei più grandi giocatori di basket della storia, ma anche una generazione intera, quella nella quale nascevi fratello e morivi nemico.

 

 

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