L’ultima speranza di Obama

Alle elezioni di midterm del prossimo 4 novembre, le speranze dei democratici sono legate ai risultati del Senato, che si spera di non perdere

di Antonio Marafioti

 

Barack Obama non si è mai visto costretto come ora ad affidarsi a questa parola, speranza, sulla quale, nel 2008, costruì la campagna elettorale che lo portò a diventare il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti.
Alla vigilia della seconda, e ultima, prova da presidente nelle elezioni di midterm, la posizione del suo partito risulta essere molto debole in entrambi i rami del Congresso che si rinnoveranno il prossimo 4 novembre.

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Ricambio totale per la Camera dei Rappresentanti, 435 membri, attualmente divisa fra i 234 del Gop, i 199 dem, mentre due sono i seggi vacanti. È dal 2010, anno delle sue prime midterm, che l’attuale inquilino della Casa Bianca è costretto a governare senza maggioranza alla Camera.

Quella volta fu decisiva l’esplosione mediatica ed elettorale del Tea Party, il movimento legato ai repubblicani, che mise sotto scacco il presidente sull’Afforable Care Act, la riforma sanitaria. Da allora la percentuale dell’elettorato che si identificava con il movimento capeggiato da Sarah Palin è sceso dal 35 percento all’attuale 18. Una diminuzione comunque non irrisoria se si pensa che attualmente un americano su quattro appoggia gli ultraconservatori e che, fra di loro, la percentuale dei votanti che si è detta altamente interessata a partecipare alle elezioni è del 73 percento.
La massa rimane esigua a livello assoluto, ma importante in relazione ad altri due dati. Il primo è il peso che lo stesso Tea Party gode all’interno dello schieramento repubblicano, ormai sempre più dilaniato fra conservatori e moderati. Il secondo è il tradizionale disinteresse delle minoranze, latinos e afroamericani, naturalmente a favore dei democratici, a partecipare alle elezioni di metà mandato.

Senza questo appoggio, che il partito di maggioranza sta cercando di recuperare impiegando una buona parte dei quattro miliardi di dollari stanziati per la campagna, la batosta da certa (il Gop ha già la maggioranza al sicuro) rischia di diventare totale.

Riuscire a mantenere il controllo del Senato è l’ultima spiaggia per Obama e per ciò che resta della sua presidenza. Attualmente la camera alta è divisa fra 53 senatori democratici, 45 repubblicani e due indipendenti che votano nel caucus democratico.
Tra tre giorni il ricambio di 36 seggi coinvolgerà quelli attualmente occupati da 21 democratici e 15 repubblicani. Per il momento pare che non ci sia alcun fattore a favore del partito del presidente che, secondo i sondaggi, non dovrebbe godere dello stesso ritrovato vigore politico che nel 2012 gli consegnò il secondo mandato e una risicata maggioranza al Senato grazie alla quale riuscì a schivare mine importanti come il government shutdown dell’ottobre 2013.

Il New York Times, per il quale i repubblicani hanno il 71 percento delle possibilità di conquistare la camera alta, nell’ultimo sondaggio proietta un senato con 45 democratici e 48 repubblicani. Sono i seggi “likely”, quelli in cui i giochi sembrano ormai fatti. Rimangono 7 Stati tossup, gli incerti, che continuano a cambiare tendenza e colore: New Hampshire, North Carolina, Kansas, Georgia, Iowa, Alaska e Colorado. Solo il primo, fra di essi, sembra poter facilmente essere acquisito dal partito di governo. Il Granate State, è uno dei più ricchi del Paese e oltre il 50 percento dei suoi cittadini afferma di non accusare i problemi legati all’economia, che invece sono fra i più sentiti da tutto il resto dell’elettorato.

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Fonte: New York Times

Le elezioni di midterm sono un vero e proprio referendum sull’azione del presidente. Solo due di loro, nella storia degli Stati Uniti, sono riusciti a non perdere la prova: Bill Clinton nel 1998 e George W. Bush nel 2002 che ha sfruttato l’ondata emozionale scatenata dagli attentati dell’11 settembre. Obama sembra destinato a non rappresentare la terza eccezione alla regola visto che dalle ultime elezioni presidenziali l’approvazione degli americani sull’operato del presidente è passata dal 53 al 42 percento.

Uno dei minimi storici per l’uomo del Yes We Can, che nel 2008 s’impose sul veterano di guerra, John McCain, con il 52,9 percento dei voti. Lontani quei tempi. Lontana quell’America che, anche se guarda prima di tutto all’economia, non dimentica altri nuovi impellenti problemi. Dal 2010, alla domanda “Quale pensi sia il problema più importante da affrontare in questo Paese?”, gli elettori statunitensi che hanno risposto “i problemi economici” sono passati dal 67 al 17 percento.
Resta il giudizio più importante, ma non di molto rispetto agli altri. Seguono “Disaffezione per il governo”, al 16 percento; Disoccupazione/Lavoro al 10; Sanità all’8; Immigrazione al 7.

Nuova voce della lista è quella sull’Ebola che il 5 percento degli elettori percepisce come il primo problema da risolvere. Sul dato, inserito per la prima volta nella lista di Gallup, avrà pesato la morte di Thomas Eric Duncan, il paziente 0, deceduto il 7 ottobre scorso a Dallas dopo diversi giorni di isolamento. Nelle ultime settimane i portavoce di Washington e lo stesso presidente hanno assicurato che non c’è nulla da temere e che i controlli alle frontiere rimangono rigorosi.

La partita politica delle ultime ore si gioca a colpi di dichiarazioni e spot politici. Dalla parte del presidente c’è la lunga battaglia sul salario minimo che il numero uno dei democratici vorrebbe portare da 7,25 a 10,10 dollari l’ora. Sarebbe la prima di una serie di manovre promesse e che coinvolgerebbero il controllo delle armi, le politiche d’immigrazione e gli accordi sull’ambiente. Tutte impensabili con un Congresso a maggioranza repubblicana e un presidente che a quel punto diventerebbe una lame duck, un’anatra zoppa, con il potere di proporre riforme, ma l’impossibilità di ottenerne l’approvazione in aula.

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Hillary Clinton                                                                      Jeb Bush

Il filibustering promesso, potrebbe, però, non giovare al Gop che in caso di vittoria dovrebbe fare i conti, fra due anni, con la dura legge dell’alternanza al potere. Gli americani hanno quasi sempre premiato il partito di minoranza, identificandolo con quello senza potere decisionale e quindi colpevole dei possibili fallimenti politici. La regola potrebbe premiare, nel 2016, Hillary Clinton che già molti vedono come candidata di punta dei democratici. Dietro di lei la macchina da guerra del clan capeggiato dal marito, ed ex presidente, Bill. Di fronte Jeb Bush, ex governatore di quella Florida che nel 2000 ribaltò a vantaggio del fratello George W., i risultati delle urne nella corsa presidenziale contro Al Gore. Sarebbero due corazzate da guerra elettorale che intanto osservano silenziose che cosa si prospetta negli ultimi due anni della presidenza Obama.

 


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