La resistenza curda contro le milizie dell’Isis si regge su una rete di appoggio logistico e morale, innervato da una militanza politica che si nutre di autogestione e collettività. Un racconto dall’interno di un movimento che non è mai stato solo guerriglia, un modello socio-economico che è sgradito a molti
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/11/181740_10150143203754948_615317_n.jpg[/author_image] [author_info]foto e testo di Luca Manunza, da Soruc (Kurdistan turco), confine turco-siriano, a pochi chilometri da Kobane. Nato a Roma il 27/12/1982, dottore di ricerca in sociologia, presso l’Università degli Studi di Genova e membro di URIT (Unità di Ricerca sulle Topografie Sociali) presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. Ha pubblicato saggi di ricerca etnografica per i tipi di Mimesis, e Ombre Corte. Video maker free lance ha lavorato come operatore/producer per emittenti televisive nazionali ed estere. Dal 2006 media attivista nella telestreet pirata napoletana INSUTV. Dal 2009 operatore/producer per la casa di produzione Figli del Bronx, con cui ha realizzato numerosi documentari e fiction.[/author_info] [/author]
3 novembre 2014 – Sono da alcuni giorni a Suruç, la piccola cittadina rurale curda di circa 100mila abitanti al confine con la Siria. Suruç è a otto chilometri da Kobane (Ayn al-Arab). Suruç passa quotidianamente in sordina all’interno delle cronache sulla resistenza che da ormai 50 giorni difende Kobane e il Rojava[1] occidentale dall’ingerenza fascista -come si dice da queste parti- dell’ISIS.
L’informazione main stream ha imposto, quasi unilateralmente, l’idea che per raccontare le guerre degli ultimi decenni possano bastare le immagini dal fronte, caricature embedded di conflitti raccontati esclusivamente come semplici giochi politici e luoghi comuni.
Gli esempi sono tantissimi italiani e non. Il racconto della resitenza e dalla guerra, quella che si muove tra SURUÇ-KOBANE, impone un’altra responsabilità: quella più complessa di avere a che fare con la gente dei territori periferici al conflitto, interpretarne gli umori e osservare con pazienza tutto ciò che accade attorno, raccontare o almeno provare a narrare la dimensione curda del conflitto e parlare di resistenza e Rojava.
“LA RESISTENZA HA ROTTO I CONFINI”: è così che si apre l’articolo di alcuni giorni fa pubblicato dagli attivisti di FRAKTIYON (collettivo di media attivisti che lavorano da tempo sulla questione curda e che hanno perso un loro attivista, Suphi Nejat, durante il conflitto di Kobane), sul loro sito di informazione .
L’editoriale evidenzia come uno degli elementi strutturali della resistenza in atto sia il risultato di un complesso lavoro che ha mosso la solidarietà “non umanitaria” della cittadinanza di Suruç e della stessa di Kobane, verso un obiettivo politico e sociale comune: il Rojava.
Non ci sono differenze tra le due città e la battaglia di Kobane e quella tanto della regione del Rojava quanto quella di Suruç. Mentre scrivo queste righe sono le 10:00 del mattino del 28 ottobre e i bombardamenti di dell’aviazione statunitense sono da poco cessati dopo una notte di fuoco. Sono giorni che giro per la città di Suruç e, in alcuni dei numerosi nobet (presidi autorganizzati della resistenza curda) in prossimita del confine Turco/Siriano.
[new_royalslider id=”188″]
Mi sono trasferito in una di queste micro comunità resistenti accettando l’invito da parte di alcuni membri della resistenza curda alla mia presenza come internazionale nei villaggi: “Gli internazionali sono pochissimi nei nobet e la tua presenza è utile anche solo per evitare gli attacchi che quotidianamente subiamo dall’esercito e dalla polizia turca”. A dirmi questo e Z., un’attivista curda che mi accompagna dalla sede locale del partito BDP (Partiya Herêman a Demokratîk), al presidio più prossimo a Kobane.
I nobet sone dei piccolissimi villaggi rurali costruiti dagli agricoltori in prossimità degli sterminati campi di cotone e melograno della zona sud di Suruç. In periodo di pace, semina e raccolto, questi villaggi fungono da residenze per gli operai e le operaie. In periodo di guerra, i nobet, sono gli avamposti della resistenza dello YPG e YPJ [2].
Per una settimana il nobet di Çaykara è stata la mia casa. Nei nobet vige l’autorganizzazione, “non ci sono vie di mezzo”, mi viene detto. Sono circa 200 le persone che in pianta stabile o a turnazione vivono qui. Tutti devono organizzarsi in sinergia e nulla deve essere lasciato al caso. Il “centro direzionale” è la piccola moschea costruita al centro del villaggio. Due grossi stabili che fungono da dormitori per la resistenza, uno per gli uomini e uno per le donne. Al centro dei due caseggiati una piccola piazzetta dove si mangia, si passa il tempo, si fanno riunioni e si ascolta con mezzi di fortuna e walkye talkye le cronache in diretta dal fronte di guerra, Kobane è distante solo pochi chilometri.
Una delle principali funzioni e responsabilità della resistenza di Çaykara è quella di controllare minuziosamente una porzione di confine di circa trenta chilometri, evitando le decine di scorribande quotidiane dei mercenari dell’ISIS che da mesi entrano e escono indisturbati dal confine Turco/Siriano per recuperare munizioni, generi alimentari e uomini.
“Tutto avviene in totale commistione con il governo turco che appoggia questi mercenari. Nessuno vuole crederci, ma questo succede quotidianamente”, mi dice F., coordinatrice del nobet. A ribadire questo sono le immagini registrate dall’agenzia di stampa turca DOHA, diffuse due giorni fa in rete che riprendono il passaggio dei militanti dell’ISIS in Turchia e il loro incontro con l’esercito turco, proprio in prossimità di Kobane e dei nobet in territorio Turco.
Un’altra importante funzione dei “presidi di solidarietà” è quella di portare immediato soccorso ai militanti dello YPJ e dello YPG feriti a Kobane: “Il confine ufficiale e chiuso quindi quando ci sono feriti gravi che hanno bisogno di cure specifiche proviamo a farli passare il confine attraverso corridoi non ufficiali in modo da poterli curare da questo lato del fronte. Siamo ben coordinati con i compagni e le compagne della resistenza dentro Kobane e proviamo in ogni modo a supportarli. Stiamo tutti e tutte qui, giorno e notte a dare supporto alla resistenza. Da qui la notte sentiamo le loro voci. La sera allora urliamo slogan e urliamo loro che non sono soli. Il problema poi è la polizia, la sera entrano spesso nei villaggi e sparano, per loro noi siamo i nemici”.
La sera si accendono i fuochi fuori la moschea e, come raccontava F., il rituale è ascoltare le voci e i messaggi urlati dai partigiani e le partigiane verso i nobet e risponde tutti in coro facendo sentire la vicinanza e la solidarietà di chi sostiene questa lotta. Le notti sono lunghe, tra i controlli al confine e l’allerta contro le possibili azioni dell’esercito e della polizia. Poi si sta sui tetti delle piccole case a guardare Kobane, per capire i movimenti della guerriglia in città, nell’attesa che arrivi qualche segnale che posa richiedere la mobilitazione del presidio.
Ricordo, prima di partire, le foto fatte attorno a questi presidi e diffuse su molte testate giormnalistiche. Ricordo molte di quelle immagini accompagante da didascalie che raccontano i nobet e le persone che affollano questi presidi di democrazia come “banali curiosi del conflitto”, gente che va lì a vedere gli spettacoli pirotecnici offerti dall’espolosione delle bombe statunitensi su Kobane.
A molti editor di testata vorrei ricordare che questi luoghi non sono comparabili all’osceno spettacolo offerto da alcuni istraeliani di Sderot posizionati sulle colline Palestinesi durante l’ultimo attacco su Gaza. “É una resistenza per l’umanità” e sono unanime le voci che mi dicono questo. Su Kobane si combatte una battaglia importante”, mi dice S., giornalista di Firat news, l’organo di stampa ufficiale del Kurdistan, bandito in Turchia e con un sito intrenet inaccessibile se non atraverso l’utilizzo di un proxy.
[new_royalslider id=”189″]
S. è appena rietrato dal centro di Kobane, dalla sede di uno numerosi media center che inviano le news della resistenza al di là dei confini del Rojava. S. tiene a precisare come la “modernità capitalista” abbia un ruolo strategico negli sviluppi dei conflitti in corso in tutto il mondo, non solo a Kobane: “É evidente che il Rojava come modello politico e sociale venga visto come un nemico. La durezza con cui la Turchia sta fronteggiando questa guerra e la presenza stessa degli Stati Uniti in supporto ai bombardamenti contro l’ISIS sono la faccia di una unica medaglia. Da un lato Erdogan che continua a definire la resistenza come terrorista, negando qualsiasi appoggio ai curdi mentre, dall’altra, il gioco a doppio filo dell’America che, appoggiando questa resistenza pensa un giorno di poter contrattare qualcosa con l’autogoverno del Rojava in chiave anti siriana anti Turca. Nessuno dei due contendenti, purtroppo per loro, avrà spazio. Da un lato continueremo a lottare in Turchia per la nostra causa, dal’altro, e lo abbiamo piu volte sottolineato anche in sedi ufficali, se sarà vittoria sarà la nostra vittoria, quella delle popolo curdo e di tutti quei cittadini e cittadine che si riconoscono nel Rojava come modello. Questa è una “Primavera del Popolo”.
S. porta le ultime notizie al nobet e, durante una assemblea generale, illustra la situazione a Kobane: ”Non è un momento facile per la resistenza. Le perdite tra i compagni e le compagne sono 230, mentre sono circa 400 quelle tra i fascisti dell’ISIS. Alcune bombe U.S.A hanno colpito degli avamposti dello YPG, sbagliando quindi bersaglio. Oggi la città è libera anche sul lato est ma i miliziani dell’ISIS circondano Kobane, e le incursioni di piccole truppe in città sono numerose. Una delle loro pratiche è quella di entrare, minare interi edifici e farli saltare in aria durante la ritirata. In questo momento sono migliaia i rinforzi che si stanno muovendo da Raqqa verso Kobane. La resistenza mantiene alto il morale ma c’e bisogno di armi, cibo e acqua, tutto sta iniziando a scarseggiare. Dobbiamo poi trovare il modo di accogliere e far passare da questa parte ancora migliaia di civili. É importante spingere per un corridoio ufficiale ed è importante continuare il lavoro di contrasto al confine”.
S. è molto diretto e comunica a tutti quali sono le esigenze della guerriglia partigiana. In prossimità del confine, sempre in uno dei nobet, ho conosciuto Barac, portavoce del consiglio municipale di Kobane. Barac è uscito da Kobane qualche giorno fa, è in attesa di rientro in Siria. Questo è un lungo stralcio della sua intervista che traccia le coordinate dello stato di assedio di Kobane: “Siamo sotto assedio da più un anno, e da cinque settimane l’IS è penetrato dentro la città. A nord siamo a ridosso dell’esercito turco, ed esposti ai passaggi tattici che lo IS riesce a compiere fra nord-est e nord-ovest infiltrandosi dal lato turco. A ovest abbiamo il fronte più protetto; siamo riusciti a respingere i jihadisti fino al villaggio di Tell Shaer, in un raggio di due chilometri. I fronti aperti sono quello meridionale e quello orientale. A sud, lo IS puó contare sui rinforzi da Raqqa; a Est, controlla ancora un 20 percento di città. Liberare Kobane significa in pratica riuscire a far retrocedere i jihadisti di almeno tre chilometri, e mantenerli a distanza. Ormai controllano una fascia regionale troppo ampia tutto intorno a noi per sperare in qualcosa di più che forzarli alla tregua. Durante l’assedio lo IS ci ha tagliato l’acqua; la prima urgenza è stata quella di evacuare bambini e anziani verso Suruç. Noi che siamo rimasti ci siamo organizzati -io vivo nel centro città -scavando pozzi e razionando quanto rimasto nei container delle case abbandonate. Zucchero, sale, farina vengono reperiti con lo stesso sistema. Ogni tanto, dopo lunghe trattative, il governo turco permette alla municipalita’ di Suruç e ai villaggi vicini di mandarci del cibo, e apre il passaggio lungo la strada principale di Mürşitpınar che come vedete entra dritta dentro Kobane. Le armi e le munizioni invece non possono passare i controlli turchi, e sugli altri fronti suamo circondati. Quindi lo YPG ha istituito dei mini-commando incaricati di rubare le armi ai jihadisti. Fin dall’inizio abbiamo combattuto con tattiche di guerriglia, non si puó fare altro contro i carri armati e i missili a corta gittata dei jihadisti. La tattica più efficiente sono le imboscate notturne, perchè i jihadisti non conoscono il terreno e sono meno agili negli spostamenti. I partigiani si organizzano in commando di massimo sei combattenti che procedono a doppia mandata: un primo raid va in avanscoperta e apre il fuoco, un secondo gira fra le case coprendo le spalle e raccogliendo le armi. Il fatto che da qualche giorno i bombardamenti occidentali colpiscono obiettivi mirati ci ha consentito di mettere da parte qualche arma in più“.
Suruç è la citta del cotone e del melograno. Un grande obelisco di fronte al municipio ricorda l’oro di questa terra. Nelle immediate viciananze la piazza centrale del paese, spazio di incontro per centinaia di familiari della resistenza che passano giornate intere a organizzare gli aiuti, cercare i propri cari e trasmettere informazioni, in una città che non si è mai dignitosamente e con sacrificio voluta fermare.
I negozi sono aperti, sono aperte le scuole e le banche, funzionano i mercati e i ristoranti e le sale da thè sono gremite di uomini e donne che si scambiano idee, informazioni e costruiscono i modi di far arrivare gli aiuti al fronte e nei numerosi campi profughi che la città ospita. Anche Suruç è in guerra ma la resistenza, a differenza di un normale conflitto, impone una particolarità: la vita.
CURDI IN PIAZZA A ISTANBUL IN SOLIDARIETA’ CON I FRATELLI DI KOBANE
[new_royalslider id=”190″]
Un libro di un pò di anni fa, Bagdad café, raccontava la vita nella città irachena durante l’occupazione. Ne raccontava la vitalità, la voglia di resistere e di continuare a vivere nonostante le bombe della coalizione. Suruç è anche questo. Ieri ho avuto la fortuna di conoscere e poter parlare con il sindaco della citta di Suruç, un uomo che viene dalla base del BDP mi dicevano, uno che passa giorno e notte a mettere le mani nelle situazioni piu complesse: gestione campi, organizzazione amministrativa (in una citta cresciuta di 160mila abitanti in poche settimane), supporto alla resistenza, supporto ai nobet e tanto altro ancora.
Qui nulla è lasciato al caso, la presenza dei compagni e delle compagne del BDP sul territorio amministrato da Suruç è capillare e a garanzia della macchina organizzativa della resistenza. Negli ultimi giorni la situazione è sempre più dura. Nei campi iniziano a mancare i generi di prima necessità, il governo turco con la protezione civile locale e l’UNHCR ha un bassissimo impatto nell’arginare queste esigenze.
Il loro unico intervento è basato sulla costruzione del “profiling” delle migliaia di persone in fuga dalla guerra, niente di pù. Tutti gli aiuti sono coordinati dal BDP locale appoggiato dalle centinaia di volontari e attivisti che per lo più dalla Turchia si spostano verso la piccola cittadina del Kurdistan turco.
Il governo centrale, come era prevedibile, rimane lì a guardare. E’ anche per questo che è molto importante il sostegno diretto dall’Italia e dall’Europa in genere. Uno degli strumenti che in queste ultime settimane ha dato ottimi risultati è la campagna internazionale Support Kobane.
Attraverso questa piattaforma di fundraising si possono sostenere direttamente e senza intermediari le comunità resistenti e il loro difficile lavoro, si possono tessere relazione con attivisti provenienti da tutto il mondo e costruire canali e contatti di solidarietà reali con Kobane. Per tutto il resto Suruç rimane una città stupenda, a poche ore di volo dall’Italia, non poi così lontana come alcuni vogliono farla apparire in modo da allontanare lo spettro di una guerra alla fine anche nostra e che ci coinvolge direttamente.
[1] Il Rojava è una confederazione di Regioni Autonome e Democratiche auto costituita poco più di due anni fa nel Kurdistan siriano. Le regioni di afferenza sono quelle di Afrin, Cizre e Kobane. La confederazione del Rojava ha come prima caratteristica la presenza di cittadini afferenti a svariate provenienze e confessioni: curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni. L’autoregolazione della società è scritta all’interno di una complessa carta Il contratto sociale del Rojava che, in 96 articoli, ne esprime i principi generali.
[2] YPG: Le Unità di Difesa del Popolo sono le uniche forze armate dei tre cantoni, con il compito di garantire la sicurezza delle Regioni Autonome e dei suoi popoli da minacce interne ed esterne. Le Unità di Difesa del Popolo si conformano al diritto legittimo di autodifesa.
YPJ: Le Unità di Protezione delle Donne sono una brigata afferente allo YPG, ma composta esclusivamente da donne militanti.
Sosteneteci. Come? Cliccate qui!