Intervista ad Andrea Lehotská

Un dialogo con Andrea Lehotská, modella che si è guadagnata le copertine di importanti riviste di moda, è conduttrice televisiva e — anarchicamente sopra ogni cosa — fotografa e viaggiatrice instancabile. Qui si racconta alla vigilia del suo ultimo viaggio in Thailandia.


testo di Paolo Cappelletti
foto di Andrea Lehotská

 

8 novembre 2014 

Che cosa ti ha avvicinato alla pratica fotografica, Andrea?

Credo che nel momento in cui ci interroghiamo sul perché di una passione, essa non sia già più autentica, spontanea. Ma se ci penso, l’aspetto che più amo della fotografia è che essa è un’arte muta: la tua immaginazione può spaziare a 360 gradi. Quando guardi un filmato, ascolti le parole o il ritmo di una canzone, ne comprendi subito il contesto, l’umore, l’appartenenza. Una fotografia coglie un nanosecondo, un frammento della vita, una brevissima espressione e spesso te ne accorgi solo riguardandola. E anche lì, scopri i mille significati che può avere — se tu guardi lo scatto di un bambino indiano senza gambe, con una forte smorfia, puoi solamente immaginare se egli stia piangendo per il suo destino, per il freddo o perché gli si è ammalato il cane, oppure se stia invece ridendo perché è alto quanto il suo cane. Intendo dire che la fotografia si può estremizzare; a ciò s’aggiunge il fascino dell’interpretazione individuale, dovuto al fatto che non saprai mai che cosa essa volesse trasmettere mentre è stata scattata — e forse nemmeno il fotografo stesso lo sapeva. Spesso si dice o si sente dire “com’è bravo questo fotografo”, ma nella maggior parte dei casi, il merito del risultato va dato al soggetto, alla situazione, al carpe diem, perciò sarebbe più giusto dire “com’è veloce questo fotografo”

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Qual è il linguaggio artistico che ti si attaglia maggiormente, a parte quello fotografico?

Indubbiamente la scrittura. Forse per un motivo molto simile al primo — la carta non giudica, non risponde, non chiede — assorbe solamente. E, a differenza degli umani, non cambia versione… Ed è severa, autentica, più della fotografia. Mentre il soggetto fotografato ti aiuta con la sua stessa presenza, sulla carta ciò non accade — sei solo tu a esprimerti, essa ti fornisce unicamente uno spazio. Puoi scrivere di argomenti molto interessanti, ma se non lo sai fare bene non c’è scampo. Al contrario, un bravo scrittore che ti seduce con sua scrittura, può ed è in grado di scrivere del nulla, pur facendoti sentire quasi inghiottito dal vortice delle sue pagine.

Io ho spesso delle vere e proprie “crisi d’astinenza” da lettura e, se fosse per me, abolirei gli audiolibri e tutto ciò che non si può sfogliare. Sembra quasi che ormai di cartaceo esistano solo le pagine gialle! La gente non manda più cartoline, ma email; non scrive più lettere, ma “skypa”. L’agenda è stata sostituita dagli smartphone a comando vocale e i diari personali dalle “bacheche” dei social network. E con un click puoi cancellare la tua esistenza, cambiarla; puoi nasconderti dietro uno schermo. Nei miei viaggi solitari in Asia, un quarto del mio zaino è generalmente pieno di fogli, cartelle impermeabili, penne e nastro adesivo; registro ogni giorno gli accadimenti e le impressioni “fresche”, perché la memoria tende a metterle nello stock delle, come le chiamo io, cartelle principali e i ricordi si limitano poi a un accadimento specifico e non, per esempio, a un preciso odore che percepivo in quel momento. Inoltre, la scrittura completa in modo estremamente simbiotico la fotografia, è la coppia più consolidata dell’universo.

Il tuo stile fotografico — come, ad esempio, mi sembra di poter evincere leggendo le tue immagini raccolte in Thailandia — sembra essere diretto, senza filtri d’alcun genere. Quasi una fenomenologia del viaggio attraverso la quale puoi lasciar manifestare liberamente i nuovi sentimenti e i nuovi pensieri che esso può generare. Con quale criterio scegli i lavori da pubblicare successivamente o da esporre in galleria al tuo ritorno?

Lehotska_Thai_2A differenza di un fotografo di moda, di cronaca o comunque di un fotografo che vive di fotografia a “tempo pieno”, io cerco di scegliere unicamente le immagini che più mi toccano. Naturalmente gli scatti dei reportage non sono sempre perfetti, perché è evidente che una cosa è scattare con calma in studio e un’altra è cercare di inquadrare nel miglior modo possibile un soldato israeliano che ti rincorre con alcune granate in mano, ma trovo bellezza anche nel difetto dell’immagine, perché esso la rende più autentica, vissuta, veritiera. Mi baso su ciò che l’immagine trasmette: un sentimento, una situazione o un’atmosfera. E’ importante che lo scatto “parli da solo”, anche se, guardandolo, esso ti trasmette una sensazione apparentemente distante dalla situazione in cui è stato scattato.

In quale misura la registrazione di questi eventi modifica il tuo sentire di viaggiatore?

A esser onesta, all’inizio ho fatto tantissimi viaggi senza creare alcuna “testimonianza tecnologica”, perché ero gelosa della potenziale condivisione di ciò che vedevo, sentivo, vivevo — e non riuscivo a fare coesistere la mia Nikon con la giungla. Poi sono arrivata a un punto in cui, raccontando per esempio ai miei amici l’episodio dello psicopatico col machete che voleva uccidermi su un’isola deserta, ho capito di non poter descrivere a parole l’accaduto, di non aver abbastanza parole a disposizione per spiegare la desolazione del luogo, il verde delle palme, il buio di una notte tropicale; perciò mi sono “convertita”, lasciandomi accompagnare da un po’ di tecnologia e ora ne sono felice: è giusto che persone che non possono viaggiare per problemi di età, salute, tempo, impegni o per paura, possano vivere quello che vivo io replicando il mio punto di vista.

 

Utilizzi tecniche particolari quando il tuo sguardo si orienta verso soggetti diversi da quelli del reportage?

Prediligo indubbiamente gli scatti da reportage, scatti “rubati”, fatti a sorpresa. Lì c’è sempre poco tempo per prepararsi, attrezzarsi: devi semplicemente esser pronto e cogliere l’attimo. Nei casi in cui ho lavorato su commissione come fotografa di oggetti, ho sempre sentito il forte bisogno di ambientarli, di dare loro una vita, un senso, un’angolazione diversa; non amando per nulla i ritocchi, che uso solo nei casi estremi in cui la luce è davvero scarsa, non mi era facile spiegare al cliente che le immagine troppo pattinate sono noiose.

Riprendendo un concetto di Fëdor Dostoevskij, quanto ritieni importante l’umiltà amorosa? Pensi che essa possa aiutarti ad accostarti ai tuoi soggetti con maggior forza espressiva?

Associando l’umiltà amorosa ai soggetti fotografati, direi che indubbiamente bisogna amare, coccolare, ammirare e rendere prezioso l’oggetto/soggetto che si mette a fuoco. Solo così puoi trovare un’estrema bellezza in un tappo di sughero buttato per terra, in un bidone della spazzatura in India, in uno scarafaggio schiacciato su un binario ferroviario; credo siano proprio l’amore e l’affinità con il soggetto ciò che ci può dare maggiore forza espressiva; ed essa, unita a un tocco di passione, può portarci a creare lo scatto perfetto. Per esempio non amo i tramonti, e nonostante io li fotografi da sempre, non mi è mai uscito uno scatto decente…

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So che sei atea. Come hai sin qui sperimentato l’osservazione delle pratiche religiose thailandesi? In quale misura esse ti hanno influenzata?

Sono buddista. Ma in realtà hai detto bene tu, atea: non essendo il buddismo una religione ma una filosofia. Credo che più che un “Dio” o un mantra, il pacifico buddismo sia soprattutto uno stato d’animo. Io lo percepisco nel sorriso di uno sciamano, nella gioia triste espressa ai funerali thailandesi… E percepisco la pace dell’anima persino nei cani randagi. Quando entro in un tempio, non ci entro per pregare, meditare, sperare: ci entro per sorridere, ammirare, rasserenarmi.

Credo che l’inclinazione verso il buddismo abbia cambiato la mia vita: se prima mi circondavo di persone che non mi interessavano e partecipavo ad eventi per me poco piacevoli, semplicemente per educazione e senso del dovere, adesso non lo faccio più. Ho imparato a rispettare e seguire il mio corpo, perché esso mi terrà compagnia fino all’ultimo, non gli altri. Perciò ora sorrido di fronte a tutto ciò che ho sempre ritenuto negativo, superfluo, inutile, e semplicemente dico “no, grazie”. Cerco di non assimilare brutte notizie, non guardo alcun telegiornale, non mi interesso di moda e gossip, me ne frego della politica — cerco di occuparmi di ciò che a livello umano mi rende serena, mi insegna qualcosa, mi interessa davvero.

Tutto questo grazie all’Asia che ha saputo indirizzarmi quando a un certo punto della mia vita mi sono trovata al bivio tra la “Andrea-personaggio-televisivo” e la “Andrea-essere-umano”. Il primo viaggio in Asia non mi ha lasciato scelta: sono stata definitivamente fregata a vita, nel momento stesso in cui ho iniziato a percepire l’afa subito dopo il primo atterraggio, e ho capito che non avrò mai più la possibilità di farne a meno, né di scegliere di fare qualcosa di diverso. So che sarò sempre dipendente da viaggi, vite, storie altrui da raccogliere.

Presuntuosamente, avevo pensato d’aver scelto il vagabondaggio con il sacco a pelo e la macchina fotografica al collo; invece no, quel mondo aveva scelto me.

Questo vagabondare ricorda la pratica dello hsing-chiao, cioè quella del viaggiare a piedi da un luogo all’altro, da una scuola buddista all’altra incontrando diversi maestri — essa sarebbe la cosiddetta terza fase, quella che dovrebbe portare l’allievo alla illuminazione. Ti senti inserita in tale pratica durante i tuoi viaggi?

Sono una buddista, non un’illusa fanatica, perciò non credo che basti allontanarsi da Milano e seguire la “retta via” per raggiungere l’illuminazione. Naturalmente sono persuasa che chiunque possa portare se stesso a una sorta di illuminazione oppure di consapevolezza, indipendentemente dalla propria religione, etnia, condotta, e che ciò possa accadere sia camminando per mesi verso il monte Kailash in Himalaya sia sbucciando patate in un ristorante di Londra. Perché la pace interiore è una cosa talmente complessa e legata alla propria individualità che sarebbe presuntuosamente folle pensare che ci sia un solo e unico modo per raggiungerla. Ma se raggiungere lo stato del nirvana vuol dire trovare quel qualcosa che cerchiamo, io quasi preferirei non trovarlo e continuare a cercarlo — perché ciò mi rende più creativa e assetata di vita.

 

Lehotska_Gaza_6E hai già (o senti d’aver) sperimentato satori o wù?

Io ho avuto la mia “illuminazione” personale anni fa, nel momento in cui ho scoperto che non potevo diventare buddista perché lo ero già: in modo del tutto naturale e inconsapevolmente mi comportavo come tale. Ecco perché io, sradicata e senza alcun legame con nessuno dei paesi dove ho vissuto — nemmeno il mio paese nativo — in Asia mi sono sentita compresa, mi sono sentita a casa. Mi veniva spontaneo inchinarmi, rimanere immobile ogni giorno alle 6:00 e alle 18:00 durante l’esecuzione di un inno nazionale locale, tracciare la sottile differenza tra l’etica e l’immorale, capire i meccanismi della sopravvivenza. Non credo di essere arrivata, anzi: so di poter solamente imparare ancora tanto; e di poter donare altrettanto.

A questo proposito: hai scattato splendide fotografie di monaci concentrati e di bellissimi stupa. Me ne parli un po’?

Per me i monaci hanno un fascino che va al di là del concepibile. Potrei stare ore e ore con il cavalletto sottomano, appostata intorno ai templi ed esaltarmi per aver colto una loro apparentemente insignificante mossa. Mi trasmettono pace, saggezza, bontà, pazienza, forza interiore, comprensione e consapevolezza.

L’ultima domanda non può che vertere sui tuoi viaggi nello Stato di Palestina e in quello di Israele. Le tue foto della barriera di separazione israeliana, in particolare un tuo intenso autoritratto di fronte a questo muro della vergogna — in perfetto controcanto con i tuoi scatti di fronte al Kotel, il muro occidentale — e il triplice autoritratto nel quale ti copri la bocca con un velo, mi hanno impressionato. Mi racconti qualcosa di quell’esperienza e di quelle fotografie?

Hai toccato un tema molto dolente, perché questa è una causa che mi sta parecchio a cuore. Va detto che, nonostante io fossi partita per andare nella Striscia di Gaza, non era quello il giorno che avevo previsto per il reportage. Mi ero semplicemente addormentata su un autobus pubblico in Israele, ed ero stata svegliata a fine corsa. Scesa dall’automezzo, felice a causa della perfetta luce pomeridiana, mi ritrovai nel bel mezzo di un paesino sconosciuto e apparentemente idilliaco. Camminando, vidi ciò che sembrava una truppa di forze dell’ordine. I militari mi fecero dei segni con le braccia, che solo successivamente interpretai come un perentorio “Spostati!”. Non lo capii, perciò, ancora sorridente, avanzai verso di loro. Poi partirono gli spari. Il primo a un pelo dal mio orecchio destro…

Lehotska_Gaza_1Lehotska_Gaza_2Lehotska_Gaza_3Non avevo ancora collegato nulla, perciò, assordata e un po’ contrariata, andai di corsa a insultare l’uomo che aveva sparato, temendo anche che avrebbe potuto fare del male al bambino che camminava dietro di me. Mentre agitavo le braccia, e stupidamente cercavo di spiegargli il pericolo, notai una scritta: Bank of Palestine… Poi altri mi chiesero di allontanarmi dall’entrata del campo profughi, ma ciò si rivelò invece un ottimo stimolo per farmici andare attraverso il poco distante, e fin  troppo ampio, cimitero. Quello che vidi accadere là dentro, rimanendoci per una settimana, non è ora descrivibile a parole. So solamente che mai mi sono sentita più impotente, arrabbiata, insignificante e inutile nei confronti del popolo che giorno per giorno, da decenni, affronta una situazione disumana intorno alla quale regna una voluta disinformazione nel resto del mondo. I giornali possono raccontare ciò che vogliono, ma io ho visto donne sparare a bambini senza alcun motivo e ripensamento, solo per seminare panico e paura. Io stessa sono stata così invisa ai militari israeliani che, dopo essermi schierata con i palestinesi durante gli attacchi, aver ripreso tutto ciò che stava accadendo e aver evitato i loro gas nascondendomi in un sotterraneo, quelli hanno pensato bene di tenermi là per parecchie ore, esigendo che io cancellassi ciò che avevo documentato. Mi è stato detto chiaramente: “Se vuoi fare le foto, devi metterti dalla nostra parte e fotografare i bambini che ci tirano le pietre con le fionde, non noi che gli spariamo proiettili veri. “Ecco spiegato il velo sul mio viso — non lo stavo certamente indossando per stigmatizzare l’uso del burqa delle donne palestinesi, ma per proteggermi dai vari gas che mi lanciavano di continuo e per evitare di replicare l’intossicazione che avevo subito il primo giorno. La cosa più assurda è che nelle baracche ammucchiate vivono — o meglio sopravvivono — decine di persone malate, in chiara difficoltà, e l’Unione Europea ha inviato come “aiuti” alcuni televisori al plasma… Per non parlare degli Stati Uniti che inviano le medicine e i medici, ma che producono le granate — alcune delle quali ho raccolto personalmente (marchiate Made in USA) — usate nel conflitto. Tornata in Italia, provai a proporre il reportage sulla Palestina ai giornali con i quali collaboro. Risposta: è molto interessante il tuo materiale, ma noi per ragioni politiche non possiamo pubblicarlo, perché l’Italia è un alleato degli Usa, i quali lo sono di Israele. Et voilà! Ecco come finisce la storia, per loro. Ma non per me: ho aperto un blog dove ho pubblicato l’intero reportage e il mio materiale fotografico. Però, in fondo, vorrei non dover più scrivere di tutto ciò, perché significherebbe che qualcosa è cambiato…

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