Testimone oltre il muro

Il 9 novembre 1989 Livio Senigalliesi era il fotoreporter italiano inviato dal manifesto a Berlino. Ci andò per raccontare una città divisa, finì per scattare le immagini del mondo che cambiava

 

di Antonio Marafioti
@AMarafioti 

Foto Livio Senigalliesi

                                                  

 

9 novembre 2014 – Quando Livio Senigalliesi arrivò a Berlino Ovest, il 2 novembre del 1989, voleva raccontare una città divisa. Doveva starci due settimane, finì per viverci un anno intero durante il quale immortalò il cambiamento dell’assetto politico mondiale per come lo si conosceva. Il 9 novembre del 1989 l’Unione Sovietica gettò la spugna e permise il cedimento della barriera che da ventotto anni proteggeva le basi del socialismo reale dai suoi nemici. Era il sacrificio del check point Charlie sull’altare della Glasnost e della Perestroika di Michail Gorbacev. Senigalliesi era lì con le sue due macchine fotografiche «Una per scattare a colori nella Berlino dei graffiti, l’altra per riprendere il bianco e nero delle macerie nella DDR»; la sua giovane traduttrice della Germania Ovest, Uta Keseling che diventerà un’amica e un’affermata reporter del Berliner Morgenpost; e l’accredito del manifesto che gli consentì di attraversare la cortina tra Est e Ovest con un ritmo proibito agli stessi cittadini tedeschi. Da quella esperienza nacque uno dei più intensi racconti fotografici sul crollo sovietico, un amarcord iconografico esposto in 902 mostre in tutta Europa. «Fu il periodo più bello della mia vita professionale perché ero dentro il maggior cambiamento della Storia contemporanea».

Un cambiamento che però non avevi previsto alla tua partenza.

«Al tempo vivevo a Roma e lavoravo nella redazione del manifesto, che è stata la mia fucina e la mia scuola di giornalismo. Lavoravo al reparto fotografico, ma respiravo le notizie. Era già da un anno che si parlava di mutamenti politici a Est. Io, comunque, partii perché volevo raccontare come si viveva in una città divisa. Una capitale in cui si sparava a vista a chi cercava di fuggire. Volevo capire quella Berlino che da una parte era tutta balocchi, profumi e colori dell’Occidente, il Kudam, e dall’altra un posto in cui i soldati russi marciavano per le strade con gli stivali lucidi e la banda che suonava lungo la Unter den Linden. Per le strade c’erano fino a tre battaglioni dell’Armata Rossa che ricordavano ai berlinesi chi erano i veri vincitori della guerra. Era quello che Wenders chiamò il cielo diviso».

Che cosa hai fatto durante la tua prima settimana a Berlino?

«Tramite i giri del manifesto, trovai una casa occupata a Kreuzberg vicino al Check Point Charlie. La prima settimana la passai tutta a ovest, per raccontare quella parte della città. Per fotografare la porta di Brandeburgo e le zone postbelliche. Fu un periodo di ambientamento durante il quale cercai di conoscere un luogo nel quale non ero mai stato».

Il punto di partenza era una casa occupata di Berlino Ovest a ridosso del Check Point Charlie. Come sei finito lì?

«Avevo maturato contatti in loco, come Guido Ambrosino, corrispondente del manifesto da Bonn capitale. Ebbi la fortuna di avere un accredito del giornale che era uno dei pochi media considerati “amici” a Berlino Est, così come lo erano Libération e gli altri giornali comunisti. Questo pezzo di carta scritto in tedesco che a Milano o a Berlino Ovest non valeva niente, al Press office di Berlino Est era preso in alta considerazione. Si viveva in un clima di guerra fredda, quindi ognuno considerava le voci che gli facevano più comodo».

Parliamo delle voci dei berlinesi. Ti ricordi il loro suono in quella famosa notte di novembre?

«Quella notte non ero fra la gente perché non avendo una radio, non essendoci un telefono, non ne fui consapevole. Rimasi nella casa occupata a fare interviste, ma la mattina dopo mi svegliai molto presto e sentii tutti parlare del fatto che le persone a piedi e in macchina iniziavano ad asserragliarsi nei pressi del Check Point Charlie. I soldati non sapevano che cosa fare. Apparve chiaro a tutti che mancava un ordine preciso. Bisognava sparargli addosso o farli passare? La catena di comando era completamente saltata».

Da che cosa era provocata questa confusione?

«La sera del 9 c’era stata una conferenza stampa a Berlino Est in cui Günter Schabowski, importante membro della SED, accennò ai possibili cambiamenti favoriti dalla Glasnost di Gorbacev. Erich Honecker decise di tentare la via di un programma di permessi di viaggio a richiesta senza però specificare le tempistiche e le modalità del loro rilascio. Il caos scoppiò quando l’allora corrispondente dell’Ansa da Berlino gli chiese da quando sarebbe cominciato il programma.La risposta, un po’ impacciata, fu “ad sofort”.  Da adesso. Fu evidentemente una risposta data senza pensare alle conseguenze e che lasciò tutti di pietra. A Est si sparse rapidamente la notizia che da allora si sarebbe potuto varcare i valichi di frontiera con l’Ovest. La gente che sentì nottetempo la radio e la tv impazzì di colpo e si riversò ai punti d’accesso. A Berlino era notte fonda e le strade erano colme di forze dell’ordine. Tutti iniziarono a chiedere di passare dall’altra parte perché avevano sentito la possibilità di farlo. I militari erano ignari di ciò che avrebbero dovuto fare. Dall’alto non arrivano notizie e intanto si fece mattina quando si decisero ad aprire i cancelli e far passare le prime persone. In quel momento io ero lì».

Che cosa hai visto?

«Era il 10 novembre. Berlino era coperta da un cielo plumbeo, ma la gente era euforica. Centinaia di persone iniziarono a transitare dall’altra parte per poche centinaia di metri. Poi sarebbero dovuti tornare indietro. Ricordiamolo questo. Il 10 novembre non ci fu il liberi tutti. Avevano concesso a qualche migliaio di berlinesi dell’est di attraversare un varco proibito e vedere cosa c’era al di là del Muro, niente di più. Ma dopo 40 anni di odio e di divisione la gioia era tangibile ed anch’io, mentre scattavo, ero inebriato da quegli abbracci, da quelle urla di felicità, da quelle Trabant che sfrecciavano davanti a vopos inebetiti dallo sguardo attonito e con il kalashnikov in mano. Questo fiume di ossie euforici che poco dopo ritornò dall’altra parte, a Est, alla loro vita di ogni giorno. Era come una notte di Capodanno, che lascia bottiglie di champagne sul selciato e tutto torna come prima…».

Quindi, secondo te, quando ci fu una vera svolta?

«Il 3 ottobre del 1990: il giorno dell’unificazione. Grande parata militare sulla Unter den Linden in cui i quattro eserciti occupanti lasciarono Berlino e consegnarono le chiavi della città al sindaco della parte occidentale. Quella fu il momento della vera unificazione e della chiusura con il passato. Berlino diventò città aperta e molti scelsero di andare a vivere dall’altra parte della città. Molte aziende cercarono di comprare immobili a basso prezzo a Berlino Est e si verificò anche un’esplosione del deutch mark occidentale. Un marco dell’est valeva cinque volte di meno di quello ovest. Tutto era stato unificato, anche la valuta. Da quel momento si sarebbe pagato tutto quello che prima era gratis: la casa, la luce, la scuola, la sanità».

 

Torniamo all’89, al tempo i berlinesi si sentivano già uniti?

C’erano grandi manifestazioni a Est e a Ovest. Non tutti erano d’accordo. Molti volevano una ‘terza via’. A Ovest c’erano quelli che volevano l’unificazione e che gridavano Wir sind ein Volk (noi siamo un solo popolo), erano i nostalgici di destra e i moderati. Poi c’erano gli autonomi e quelli di estrema sinistra che non volevano una nuova Anschluss perché avevano capito che la chiave non era sociale e umanitaria, ma economica. Bisognava aprire a un mercato che riguardava milioni di persone».

E milioni di posti di lavoro.

«Si sarebbero presto resi conto che tutto il sapere produttivo e le eccellenze sarebbero state considerate nulle nel nuovo assetto del Paese. Una famosissima violinista, amica da cui ho vissuto a Berlino Est, fu subito radiata dall’Opera di Berlino perché faceva parte della vecchia nomenclatura e il suo diploma di conservatorio di colpo non le valse più a niente. Doveva tornare a scuola, magari andare ad Amburgo a specializzarsi e poi ritornare a Berlino. Immagina la disperazione e il livore che serbavano quando si sono resi conto di questo big game».

La classe operaia come visse il cambiamento?

«Fu colpita dai dettami della legge Kohl che voleva il mercato, der Markt, come parola chiave dell’annessione della DDR. Si decise di chiudere tutte le unità produttive dell’Est che erano anche il tessuto connettivo di un Paese che si basava su un progetto di tipo socialista, in cui tutti dalla nascita alla tomba avevano un disegno di vita previsto dallo Stato. Tu sei figlio di operai, ma se vai bene a scuola puoi diventare il migliore dei chirurghi. Non costerai niente alla tua famiglia, la casa è gratis, la vita costa poco e niente, lavorerai per sempre in un’unità produttiva. L’asilo e la scuola erano dentro la fabbrica o nei pressi della miniera. Uomini e donne lavoravano su cicli di ventiquattro ore come si faceva qui a Sesto ai tempi della Breda. Quindi tutta la società era un fulcro basato su questo tipo di modello, in cui tutti erano uguali».

Dopo i fatti del nove partisti sempre più spesso per lavorare a est del muro.

«Iniziai a chiedere permessi per potermi recare nel territorio della DDR quando mi accorsi che la gente aveva voglia di scappare. Vedevo un sistema che crollava e che veniva considerato improduttivo da Bonn. Si consumava la vendetta dei tedeschi dell’ovest e degli americani che avevano dovuto subire lo smacco del muro, tirato su in una notte».

Una volta a Berlino Est che città ti sei trovato davanti all’obiettivo?

«Era un cumulo di macerie. La Potsdamer Platz era una landa desolata, perché era rimasta come ai tempi della guerra. Dall’altra parte del confine mi trovai davanti il 1946. Tutto era grigio, le case erano bombardate e c’erano militari con elmetto, giubbotto antiproiettile, parabellum di traverso. C’erano carrarmati in mezzo alla strada. Dopo gli estenuanti controlli dei vopos al Chechpoint Charlie ti ritrovavi in una Berlino vecchia. In alcune zone del centro, come la FriedrickStrasse tutto sembrava congelato come in una fotografia ingiallita del dopoguerra. Il Reichstag appariva distrutto e annerito dagli incendi. C’erano pochi negozi con il cibo razionato e c’erano militari ovunque. Alla periferia est, dove c’erano le caserme dell’Armata Rossa e la famigerata prigione della STASI, c’erano posti di blocco e soldati pronti a sparare».

Un luogo non proprio accogliente.

«Sapevo di essere seguito, ma non ho mai temuto per la mia incolumità. I controlli erano molto stretti anche verso i cittadini. Cimici dappertutto. Era un po’ come nel film Le vite degli altri. Però io iniziai a muovermi con molto entusiasmo. Alla mia prima esperienza da fotoreporter professionista su uno scenario internazionale, capii subito l’unicità di quel momento e le occasioni che mi si proponevano dal punto di vista professionale, ma anche umano. Essere parte di quella fase fu una cosa che avrebbe mandato fuori di testa chiunque. Avevo un passaporto consumato per tutti i timbri che avevo collezionato passando da est a ovest. Ero partito per stare un paio di settimane, e tornai un anno dopo».

E che cosa hai fatto?

«Quello che gli altri non potevano fare».

Cioè?

«Visitare e fotografare gran parte della DDR.Immortalare un Paese che a poco non sarebbe più stato lo stesso».

Facile entrare con il biglietto da visita del manifesto. Facile anche lavorarci?

«Affatto. Se avevo un permesso di tre giorni dovevo comunicare ogni mio spostamento e alloggio e far sapere su cosa intendessi lavorare. Alle persone che mi ospitavano veniva inviata un’informativa per chiedere chi fossi e per quale motivo mi trovassi nella loro casa, di che cosa si parlava la sera e quando me ne sarei andato. Quando ho viaggiato nelle zone industriali del sud, dovevo fare una richiesta speciale alla quale loro rispondevano concedendoti un foglio di viaggio come quelli dei soldati. Con un itinerario in cui si specificava: “domattina mattina partirai alle 8.05 a da Lichtenberg, arriverai a Weimar alle 12.14, ti recherai all’albergo X dei minatori che è stato prenotato e che ti aspettano”. Questo era il clima. Quando feci altri viaggi in macchina c’era la proibizione di scegliere il percorso. Veniva imposta l’autostrada, l’orario, e se ti fossi sognato di fare una deviazione, ti venivano a prendere loro».

Uno dei tuoi lavori più importanti di quel periodo è stato quello sulle fabbriche di lignite e rame del sud della Repubblica Democratica. Come hanno reagito quelli che fino ad allora proteggevano quei centri produttivi così importanti?

«Si videro arrivare questa richiesta da Berlino Est. Un fotografo voleva fare un servizio su di loro. Chiesi che Uta potesse venire con me essendo la mia interprete ufficiale, anche se al contempo era ancora una ragazza di vent’anni che non poteva entrare nell’Est del Paese. Riuscimmo ad arrivare nella Lusazia e visitare la grande miniera di rame “Thomas Müntzer”, a Sangerhausen. Il direttore ci ricevette alle 8 del mattino sulla porta della fabbrica. Io andai nel suo ufficio e mi raccontò della tradizione della Thomas Müntzer, che da più di trecento anni estraeva rame e che rappresentava un orgoglio per i lavoratori. Ci disse che quella era una zona militare e strategica e che solo una settimana prima sarei stato arrestato molto prima di arrivare da loro. Invece ora eravamo uno davanti all’altro e si diceva felice di poterci accompagnare nella sala della vestizione per farci scendere a 900 metri sotto terra con il turno dei minatori che iniziavano le loro otto ore di lavoro».

Come avete lavorato a 900 metri sottoterra?

«Quando scendemmo alla luce di piccole lampade ad acetilene dentro un ascensore fatiscente, ci spiegarono l’importanza di restare in squadra e non abbandonare mai gli altri. La galleria dentro la quale lavoravano non era più alta di questa sedia, per cui significò fare parecchie centinaia di metri in ginocchio, gattonando, con il fiato sempre più pesante, per arrivare sul fronte della miniera. Era una discesa da verme nelle viscere della terra. Ad ogni scatto del flash gli elettroni impazzivano e loro avevano un contatore geiger che segnalava il pericolo di esplosioni. Potevo fare una foto ogni quarto d’ora. Fu un’emozione stupenda. Con Uta ritornammo in quella fabbrica nel 2009 cercando gli operai che avevamo incontrato anni prima. Ne nacque un bel reportage per il Berliner Illustrirte Zeitung».

Uno scatto che non hai dimenticato di quel periodo?

«Mi colpì una vecchietta che fotografai al di qua del Check Point Charlie dove c’erano i turchi che martellavano come dei disperati e che vendevano pezzi del muro ein Stück eine Mark (un pezzo un marco) un vero business. Agli ossie che venivano per la prima volta a Berlino Ovest, la Germania occidentale regalava 100 DM per fare la spesa e portare all’est cibo e materiali tecnologici che dall’altra parte venivano venduti a peso d’oro. Poi c’erano i negozietti improvvisati in mezzo alla strada che vendevano solo banane, perché i berlinesi dell’Est o delle città del confine polacco non avevano mai mangiato le banane. Non ne conoscevano il sapore. C’erano così tante banane che nelle manifestazioni dei mesi successivi uno degli slogan era “Basta con la repubblica delle banane”. Agli ossie veniva dato poco o niente. Quella vecchietta venne a comprare le banane per i suoi nipoti».

Hai mai pensato che era ora di tornare in Italia?

«Avevo fatto di Berlino il centro del mio lavoro. Da lì percepivo i movimenti geopolitici molto più in profondità rispetto a come li avrei vissuti dall’Italia. C’è un’immagine che più di ogni altra mi ha fatto rendere conto del cambiamento e che se fossi stato a Milano o a Roma non avrei potuto vivere».

Quale?

«Arrivai a Weimar da Lichtenberg in treno. Sembrava una stazione ottocentesca: gli stantuffi delle locomotive a vapore che generavano queste nubi intense. I treni erano ancora quelli del dopoguerra. I cartelli erano scritti in gotico, nella DDR parlavano il sassone, il prussiano, non c’erano lettere latine. A Weimar vidi uno stuolo infinito di soldati dell’Armata Rossa che occupava il binario. Erano in centinaia armati fino ai denti. Non riuscivo a trovare lo spazio per scendere dal treno. Feci una una foto di sfuggita dal finestrino, ma siccome era proibito misi via la macchina. Bastava poco per farli stranire e avere delle rogne. Quando scesi questi ragazzi che avevano tra i 18 e i 20 anni, e teste chiuse nei loro colbacchi, erano stupiti perché non avevano mai visto un occidentale. Nel binario di fianco c’era la tradotta che li avrebbe riportati in Russia. Era il giorno della fine dell’occupazione dell’Armata Rossa in Germania. The red army withdrawal dopo più di quarant’anni di occupazione. Due di questi soldati si avvicinarono con un sorriso e si presentarono con una stretta di mano. Gli chiesi di poter fargli una foto e loro si misero in posa. Sulle loro teste c’era un cartello con la scritta Weimar. Questa è l’immagine del momento in cui, per me, è finita davvero la Seconda guerra mondiale».

Rimaneva la dissoluzione dell’impero sovietico che tu hai raccontato anche dalla Romania e dalla Russia.

«Desideravo testimoniare il cambiamento e sia Ambrosino che Astrid Dakli, inviato del manifesto a Mosca, chiedevano continuamente di mandare inviati per raccontare i cambiamenti. Al crollo del muro seguirono la morte di Ceaucescu in Romania e il golpe nella capitale russa. Per un anno lessi tutto il leggibile, non c’erano internet e i telefonini. Si andava di intuito, conoscenza, approfondimenti. Pensai: “qua ormai ci siamo”. C’era stata una fuga famosa di una ventina di abitanti della DDR nel Sud, in Cecoslovacchia nell’ambasciata di Praga. Era la prima fuga di massa. Lì non c’era un muro, ma dei reticolati. Quella volta lo alzarono e fuggirono come da un campo di concentramento».


L’ultimo atto fu Mosca.

«Dakli chiamò il giornale nell’agosto del 1991 dicendo che ormai si era alla fine. Presi un treno, sempre da Berlino Est, e arrivai a Mosca. C’erano i carrarmati per le strade. L’accredito del manifesto presso il ministero dell’Informazione divenne un lasciapassare per le stanze del Cremlino. Eravamo solo due fotografi al mondo ad averlo, l’altro era Peter Turnley del Newsweek».

Un’immagine di quelle ore?

«Andai all’ultima riunione del Politburo nella quale Eltsin con il dito fece vedere un foglio a Gorbacev in cui si dichiarava la fine del comunismo. Alla fine della riunione con gli occhi sbarrati e bianco come un lenzuolo, l’ultimo segretario del Pcus venne circondato da un gruppo di agenti del Kgb che lo presero di peso e lo portarono nella famosa dacia. Fu un momento unico. Il giorno dopo ero in piazza a fare la foto in cui Eltsin tiene un comizio per i moscoviti davanti al Parlamento e alla folla oceanica che partecipava ai funerali dei caduti del Golpe».

A venticinque anni di distanza dalla caduta, quel muro continua a far parlare e a stimolare speculazioni storiche.

«Da allora tanti altri muri sono stati costruiti e non hanno ricevuto lo stesso approfondimento critico e la stessa considerazione che c’è stata nei confronti della caduta del muro di Berlino. Tanto si era inneggiato alla libertà, alla fine della guerra, di un’epoca, dell’odio, tanto poco si è avuto lo stesso interesse per il muro di Israele, per quello fra Messico e Stati Uniti, per quello di Nicosia o quello che stanno costruendo ora in Turchia per impedire l’arrivo dei profughi dalla Siria».

 


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