La memoria di Ponterosso

Lo shopping jugoslavo a Trieste negli anni ’70 in una mostra dell’Associazione Cizerouno

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-15-alle-20.39.17.png[/author_image] [author_info]di Francesca Rolandi. Storica, ha portato a termine un dottorato in Slavistica e si occupa di studi sulla Jugoslavia socialista. Ha vissuto a Belgrado, Sarajevo, Zagabria e Lubiana e ha provato a raccontarle per PeaceReporter, Osservatorio Balcani Caucaso, Cafebabel e Profili dell’Est. Attualmente vive tra Fiume e Milano [/author_info] [/author]

10 novembre 2014 – La mostra “Ponterosso/Memorie”, organizzata dall’associazione Cizerouno Associazione Culturale, e cura di Wendy D’Ercole, Massimiliano Schiozzi e Nuša Hauser, ricostruisce attraverso fotografie, filmati e oggetti una delle pratiche che più simboleggiarono la permeabilità del confine italo-jugoslavo negli anni della guerra fredda, quella dello shopping a Trieste.

In particolare dagli inizi degli anni ’60 un numero crescente di cittadini jugoslavi andava periodicamente a fare acquisti sulle bancarelle del mercato di Ponte Rosso, una delle piazze centrali di Trieste dove all’epoca stazionavano bancarelle, e nei negozi del cosiddetto Borgo Teresiano adiacente alla stazione, che vendevano merci per i “turisti dell’est”. Si compravano capi d’abbigliamento che non si trovavano oppure erano più cari in Jugoslavia e alcuni oggetti, come le famose bambole che troneggiavano nelle camere da letto jugoslave.

La mostra si concentra su un anno, il 1978, nel quale lo shopping a Trieste raggiunse il suo culmine, prima delle restrizioni all’esportazione di valuta che sarebbero entrate in vigore negli anni ’80,

Le fotografie e i video ritraggono diverse categorie sociali di jugoslavi impegnati fare acquisti nella città adriatica, giovani vestiti alla moda che sceglievano jeans a zampa di elefante, e contadine dall’abbigliamento tradizionale che acquistavano merce da rivendere una volta tornate a casa.A Trieste si andava da tutta la Jugoslavia, con frequenza e alla vigilia delle grandi occasioni. Spesso le merci acquistate venivano contrabbandate in Jugoslavia e da qui arrivavano, a prezzi esorbitanti, nelle confinanti repubbliche popolari dove l’accesso ai beni di consumo era molto più limitato. Il paese del “socialismo dal volto umano” incontrava la società dei consumi e ne rimaneva folgorato: nel giorno della Repubblica, il 29 novembre, in cui si commemorava la fondazione della Jugoslavia federale, frotte di cittadini festeggiavano a modo loro andando a fare acquisti a Trieste.

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La mostra contribuisce a preservare una memoria importante per tutti gli attori coinvolti, che va oltre gli aspetti folcloristici del fenomeno. Come racconta Wendy D’Ercole, “gli anni ’70 hanno segnato un’epoca per il capoluogo giuliano caratterizzato dalla presenza vistosa degli jugoslavi nel centro cittadino. Ma di tutto il commercio al minuto e all’ingrosso, delle lunghe file ai confini, del turismo dell’acquisto non è rimasto nulla. Nonostante le dimensioni del fenomeno non è stato facile ritrovare archivi fotografici pertinenti, riprese video e altra iconografia come i famosi adesivi dei negozi, gadget promozionali”.

Per gli jugoslavi l’abitudine di fare shopping a Trieste rappresentò un contatto diretto e una familiarità con la società dei consumi occidentale e, in senso lato, con il mondo esterno, sebbene articolato attraverso il consumo. Come ricorda ancora l’organizzatrice, “gli jugoslavi non conoscevano i monumenti di Trieste, ma tutte le insegne dei negozi, l’Upim, la Standa”. Non stupisce che oggi la memoria di questo fenomeno nell’ex Jugoslavia, lungi dall’essere un ricordo di privazione, sia spesso tinta di nostalgia per il paese che non c’è più, ma del cui spazio culturale si sente la mancanza. Perché la storia dello shopping jugoslavo a Trieste racconta anche una storia alla rovescio rispetto alla narrazione dominante della guerra fredda, che vorrebbe tutti i cittadini dei paesi socialisti prigionieri dei propri paesi.

Il confine italo-jugoslavo fu estremamente poroso e i nostri vicini dell’epoca avevano in tasca un passaporto che apriva molte frontiere ed era particolarmente quotato al mercato nero. Nel 1961, quando fu costruito il muro di Berlino, la Jugoslavia visse una svolta liberalizzatrice che in breve permise a ogni cittadino jugoslavo di viaggiare all’estero. Ma, caduto il socialismo reale, svanì la congiuntura internazionale che aveva agevolato la posizione della Jugoslavia, in equilibrio tra i due blocchi, e il paese precipitò in un disastroso decennio di guerre. Nel frattempo si allargavano la Comunità Europea, presto ribattezzata Unione, ed il sistema Schengen, emarginando chi stava fuori dalla Fortezza Europa, come la maggior parte dei paesi della ex Jugoslavia. E il confine, per molti, tornava a chiudersi.

La mostra, che ha avuto un’edizione triestina nel 2013, continuerà a Pola fino al 17 novembre presso la Galleria Makina, in collaborazione con il Centro per la cultura immateriale dell’Istria e del Museo Etnografico dell’Istria.

 

 

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