Doppio d’ombra

“Doppio d’ombra”, di Andrea Liberni. Laboratorio VI.P, via Menabrea 6, Milano. Fino al 10/01/2015

di Irene Merli

.

27 novembre 2014 – Quando si entra a visitare la piccola, raccolta, raffinata mostra di Andrea Liberni si resta stupiti ed emozionati. Guardate le immagini e pensatele in piccolo: alcuni corpicini e minuscole teste sono appesi direttamente al muro, proiettando le loro ombre. Altri sono collocati dentro vasi di vetro, oggetti di recupero che l’artista trova a suo gusto e poi sceglie come “casa” per le sue diverse opere, altre su sostegni di legno e un homunculus è posto, solo soletto, in cima un’enciclopedia tedesca del 1898, a sua volta appoggiata su un piedistallo di legno (“Torre Ludwig”).

.

[new_royalslider id=”205″]

.

Ecco, ora che avete dato il primo sguardo a queste piccole sculture in ceramica e porcellana candida, con il corpo mai completo e i visi deformati ma mai in maniera disturbante, tutte installate in modo da interagire con le loro ombre, forse avrete voglia di toccarle (e all’artista farebbe piacere). O comunque di sapere come nascono e dove nascono, nell’animo del creatore. L’abbiamo detto: non si può restare indifferenti davanti a “Doppio d’ombra”: come minimo queste opere ci interrogano.

Andrea Liberni è un architetto veneto, che ha frequentato la Scuola Internazionale grafica di Venezia e l’atelier del ceramista padovano Luca Schiavon, passando da diverse forme di arte astratta ai ritratti e poi alla scultura, al piacere puro della creazione con la “terra” (la ceramica) e la più difficile porcellana. “Lavoravo da tempo sul tema dell’identità”, spiega Liberni, che ora vive e lavora a Milano. “Eempre partendo dai ritratti in bianco e nero, che eseguivo ispirandomi a fotografie, sono arrivato alla scultura come oggetto che si relaziona con gli altri oggetti molto di più dei dipinti. I corpi non finiti, incompleti? Proiettano un’ombra, certo, ma sono anch’essi ombra, ciò che è dentro di noi e non si è espresso, il potenziale trascurato o non ancora scoperto. Sono perfettibili. Un corpo finito invece è stabile, non può più cambiare”. Le teste, quelle attaccati ai corpi o quelle pensate per vivere artisticamente da sole, Liberni le crea ricordando quanto gli resta dentro dallo studio di fotografie (oggi di un sito americano di carcerati). Le fa, le rifà, fino a quando non “sente” che l’opera è finita. “I volti umani non sono mai simmetrici. E di nuovo non mi interessa la serenità statica. Quindi questi visi appaiono distorti, quasi naturalmente tragici perché esprimono il desiderio insoddisfatto.” Le prime sono nate per caso, dalla rottura di una testa molto più grande che era caduta per terra. In una sera, dopo il disappunto ne sono uscite 5 dalle mani dell’artista.

.

[new_royalslider id=”206″]

.

Le sculture di Liberni vivono su dei piani, appese, nei vasi trasparenti. Sono tutte maschili, mentre i contenitori per l’artista rappresentano il femminile, che protegge e allo stesso tempo imprigiona. Non per nulla le opere nei vasi si chiamano “Wingless in a cage”, mentre le altre “Wingless”: incomplete, aspettano di prendere il volo. In senso esistenziale. E non possono certo fuggire.

Completa la mostra la serie “Imminenze”, disegni su fogli di acetato di corpi affastellati. Che ancora una volta, poste vicino a un muro, per effetto della luce danno vita a ombre.

 

 

Sosteneteci. Come? Cliccate qui!

associati 1

 



Lascia un commento