Grecia, la protesta dei richiedenti siriani

Da Atene la richiesta di corridoi umanitari veri e di revisione del Regolamento Dublino

tratto da MeltingPot

La protesta messa in atto dai profughi siriani davanti alla sede del Parlamento greco ad Atene, a partire da lunedì 24 novembre 2014, ha ad oggetto le deprecabili condizioni di accoglienza in Grecia e l’impossibilità di lasciare legalmente quel paese per un successivo trasferimento in altri stati dell’Unione Europea, stati dai quali, tra l’altro, per effetto di decisioni dei tribunali amministrativi interni o della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, sono già stati bloccati numerosi tentativi di riammissione in Grecia di richiedenti asilo che vi erano transitati come stato UE di primo ingresso.

I profughi siriani in sciopero della fame ad Atene chiedono in sostanza una prima accoglienza in condizioni dignitose ed un canale legale per il trasferimento verso il Nordeuropa, dove hanno già parenti o persone di riferimento provenienti dalle stesse comunità di appartenenza,. Molti hanno finito i soldi e i controlli alle frontiere interne dello Spazio Schengen hanno di molto aumentato i costi dei viaggi (ed i profitti dei trafficanti). Un numero sempre maggiore di profughi, in prevalenza siriani, si trova così intrappolato in Grecia senza avere alcuna speranza di potere uscire legalmente da quel paese. Ennesimo effetto perverso del Regolamento Dublino III che inchioda nel primo paese di ingresso nell’Unione Europea la maggior parte dei richiedenti asilo, soprattutto se hanno già subito il prelievo (spesso violento) delle impronte digitali, o se hanno avuto respinta una richiesta di protezione internazionale.

 

Donne siriane in sciopero della fame ad Atene - Da Flickr

Donne siriane in sciopero della fame ad Atene

 

L’Unione Europea, ed i singoli stati che ne fanno parte, non possono continuare a ignorare le profonde differenze che ancora caratterizzano le procedure ed i sistemi di accoglienza previsti per i richiedenti asilo. Deficit dei sistemi di accoglienza che comportano il mancato rispetto del diritto di asilo “europeo”, da cui discendono diffuse violazioni dei più elementari diritti umani dei profughi e dei richiedenti asilo. Da anni queste inadempienze nel sistema di accoglienza, queste difformità nell’applicazione delle regole comuni in materia di qualifiche e di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale, che assumono spesso carattere discriminatorio, sono oggetto di critiche assai documentate da parte delle istituzioni dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa.

Il 27 gennaio 2011 l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, riunita a Strasburgo, individuava alcuni stati che già allora presentavano “major systemic deficiencies”, deficienze sistematiche nella legislazione e nelle prassi di polizia che producevano le più frequenti violazioni della Convenzione Europea a protezione dei diritti fondamentali della persona, “which are causing repeated violations of the European Convention on Human Rights”. Questi paesi erano la Bulgaria, la Grecia, la Moldavia, la Polonia, la Romania, la Russia, la Turchia e l’Italia. In particolare, si contestava a questi stati di non rispettare o di ritardare il riconoscimento delle sentenze della Corte Europea di Strasburgo, casi di morte e trattamenti disumani applicati a persone sottoposte a privazione della libertà personale, oltre a misure detentive di durata sproporzionata o al di là di quanto previsto dalla legge.

L’Assemblea del Consiglio d’Europa, prendendo atto che le misure di allontanamento forzato si rivolgono tanto contro i migranti economici che nei confronti di richiedenti asilo, ha rilevato poi come alcuni paesi, tra i quali l’Italia, ignorino le richieste contenute nelle misure urgenti adottate dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo ai sensi dell’articolo 39 della CEDU, al fine di bloccare le deportazioni di persone che potrebbero essere esposte a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. “Some states which had ignored its clear instructions not to deport individuals who might be at risk of torture or ill-treatment. Such “interim measures”, usually involving failed asylum seekers or irregular migrants whose expulsion is imminent, are intended to give the Court time to consider their complaints. States should “fully comply with the letter and spirit” of these requests”.

 

 

L’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa ha inoltre espresso una grave preoccupazione per il rapido incremento delle richieste di misure provvisorie per bloccare espulsioni o trasferimenti in base al Regolamento Dublino 2, che assegna al primo paese di ingresso in Europa la competenza a ricevere e ad esaminare le richieste di protezione internazionale, richiamando la circostanza che alcuni stati – come la Grecia – non possono essere considerati paesi sicuri (safe for returns) per ricevere immigrati espulsi, allontanati o trasferiti da altri stati membri dell’Unione Europea.

Con la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo relativa all’applicazione del “Regolamento Dublino” tra Belgio e Grecia (sentenza 21.01.2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia), si è affermato che il Regolamento Dublino 2, n. 343 del Consiglio, adottato il 18 febbraio 2003, non impedisce che gli Stati, in alcuni casi, al fine di garantire il rispetto dei diritti fondamentali affermati dalla Convenzione deroghino all’applicazione dei criteri generali di competenza nell’individuazione del Paese che deve decidere sulla richiesta di asilo.

Secondo la sentenza, è stato il Belgio a violare la Convenzione dei diritti dell’uomo e non può trincerarsi dietro il rispetto di obblighi internazionali come l’attuazione del Regolamento Dublino proprio perché, avendo dati certi sulla situazione dei richiedenti asilo in Grecia, non avrebbe dovuto procedere all’espulsione di un cittadino afgano trasferito ad Atene. Lo ha deciso la Grande Camera della Corte di Strasburgo che si è pronunciata con sentenza del 21 gennaio 2011 (M.S.S. contro Belgio e Grecia, 30696/09), precisando che lo stesso Regolamento n.343 del 2003 impone il rispetto della Convenzione di Ginevra e contempla precise eccezioni nell’applicazione dei criteri di competenza per l’esame della domanda di asilo, se nel Paese che sarebbe competente non sono garantiti i diritti fondamentali dei richiedenti protezione internazionale. La Corte, ha ritenuto che, il Belgio, decidendo di consegnare un cittadino afgano – che vi era transitato – alla Grecia, primo stato di ingresso nell’area Dublino, abbia violato l’articolo 3 della Convenzione che vieta i trattamenti disumani e degradanti, nonché gli articoli 13 ( diritto ad un ricorso effettivo) e 46 ( forza vincolante ed esecuzione delle sentenze CEDU) della stessa Convenzione. La Corte ha anche condannato la Grecia per le gravi violazioni relative al trattamento dei richiedenti asilo e ha stabilito misure per indennizzare il ricorrente.

In precedenza la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, seconda Sezione, il 18 novembre 2008, emanava un provvedimento d’urgenza ai sensi dell’articolo 39 CEDU, nel quale si ravvisava la possibile violazione dell’art. 34 della CEDU intimando allo Stato italiano di sospendere l’espulsione di un cittadino afghano verso la Grecia fino al 10 dicembre 2008 (CEDH-LF2.2R, EDA/cbo, Requete n°55240/08, M. c. Italie). Nella motivazione del provvedimento di sospensiva la Corte faceva riferimento ad una sua precedente decisione nel caso Mamatkulov et Askarov c. Turquie (n 46827/99 et 46951/99) paragrafi 128 e 129 e dispositivo numero 5, nella quale si sanzionava il mancato rispetto, da parte della Turchia, del diritto ad un ricorso individuale, ai sensi dell’art. 34 del Regolamento di procedura della stessa Corte.

Il Regolamento (UE) n. 604/2013, del 26 giugno 2013, che ha sostituito il precedente Regolamento 343/2003/CE, detto comunemente Dublino II, ha ridefinito i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide (rifusione), superando in parte, con criteri apparentemente più flessibili, il precedente Regolamento che sarà abrogato. Rimane comunque applicabile la cd. clausola umanitaria secondo la quale uno stato di secondo ingresso può comunque prendere in esame la richiesta di protezione di un richiedente che sia transitato in altro stato dell’Unione per ragioni umanitarie fondate in particolare su motivi familiari culturali o umanitari. In base all’art. 17 (“Clausole discrezionali”) del nuovo Regolamento, “in deroga all’articolo 3, paragrafo 1, ciascuno Stato membro può decidere di esaminare una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti nel presente regolamento.

 

syrian-refugees-hunger-strike-.si

Un richiedente asilo siriano in sciopero della fame

 

Lo Stato membro che decide di esaminare una domanda di protezione internazionale ai sensi del presente paragrafo diventa lo Stato membro competente e assume gli obblighi connessi a tale competenza. Se applicabile, esso ne informa, utilizzando la rete telematica «DubliNet» istituita a norma dell’articolo 18 del regolamento (CE) n. 1560/2003, lo Stato membro precedentemente competente, lo Stato membro che ha in corso la procedura volta a determinare lo Stato membro competente o quello al quale è stato chiesto di prendere o riprendere in carico il richiedente.
Lo Stato membro che diventa competente ai sensi del presente paragrafo lo indica immediatamente nell’Eurodac ai sensi del regolamento (UE) n. 603/2013, aggiungendo la data in cui è stata adottata la decisione di esaminare la domanda”.

Da tempo, nelle diverse istituzioni europee, erano emerse posizioni critiche verso le modalità applicative del Regolamento Dublino, per le ingiustizie, soprattutto disparità di trattamento, che si verificavano nelle prassi applicate dai ministeri dell’interno dei diversi paesi U.E. presso i quali avevano sede le cd. “Unità Dublino”, uffici preposti specificamente alla realizzazione delle procedure di trasferimento forzato. Le posizioni di chiusura di alcuni paesi, come la Gran Bretagna e l’Irlanda, che traevano evidenti benefici dal blocco dei richiedenti asilo nei paesi di primo ingresso, hanno però impedito il raggiungimento di un accordo e l’adozione di un testo generalmente condiviso.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si era già pronunciata sul tema dei rinvii di richiedenti asilo, sempre in base al regolamento Dublino 2, verso paesi che non garantivano adeguati standard di accoglienza e procedurali, come nel caso della Grecia. Nella causa C-411/10 davanti alla Corte di Lussemburgo, un cittadino afgano, risultava tratto in arresto il 24 settembre 2008 in Grecia dove non aveva potuto presentare domanda di asilo. Dopo la liberazione, gli veniva ingiunto di lasciare il territorio greco entro trenta giorni, e quindi veniva espulso in Turchia. Evaso dalle carceri turche, riusciva a raggiungere infine il Regno Unito, dove arrivava il 12 gennaio 2009 chiedendo contestualmente asilo. Il 30 luglio 2009 veniva informato che sarebbe stato trasferito in Grecia il 6 agosto 2009, in conformità delle disposizioni del Regolamento Dublino 343/2003.

 

syrian-refugees3

Un gruppo di richiedenti asilo siriani in sciopero della fame, ad Atene

 

Con la sentenza del 21 dicembre 2011 (cause riunite C-411 e 493/2010), con riferimento ai casi di trasferimento di richiedenti asilo dal Regno Unito e dall’Irlanda verso la Grecia, la Corte di giustizia della UE ha riconosciuto che «il diritto dell’Unione osta a una presunzione assoluta secondo la quale lo Stato membro che il Regolamento designa come competente rispetta i diritti fondamentali dell’Unione Europea. Gli Stati membri, infatti, compresi gli organi giurisdizionali nazionali, sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo Stato membro designato come competente quando non possono ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea». Secondo la Corte, gli Stati membri dispongono di vari strumenti adeguati per valutare il rispetto dei diritti fondamentali e, pertanto, i rischi realmente corsi da un richiedente asilo nel caso in cui venga trasferito verso lo Stato competente.

Il nuovo Regolamento dell’Unione Europea 604/2013, che potremmo definire Dublino III, fissa, all’art. 2 comma 3, stabilisce adesso il principio che “Qualora sia impossibile trasferire un richiedente verso lo Stato membro inizialmente designato come competente in quanto si hanno fondati motivi di ritenere che sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti in tale Stato membro, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, lo Stato membro che ha avviato la procedura di determinazione dello Stato membro competente prosegue l’esame dei criteri di cui al capo III per verificare se un altro Stato membro possa essere designato come competente. Qualora non sia possibile eseguire il trasferimento a norma del presente paragrafo verso un altro Stato membro designato in base ai criteri di cui al capo III o verso il primo Stato membro in cui la domanda è stata presentata, lo Stato membro che ha avviato la procedura di determinazione diventa lo Stato membro competente”.

Nel nuovo regolamento Dublino III si considera anche la possibile gestione congiunta delle emergenze derivanti da un afflusso massiccio di richiedenti protezione internazionale, in quanto in base all’articolo 33 si prevede un “Meccanismo di allerta rapido, di preparazione e di gestione delle crisi” che dovrebbe dare una ruolo concreto al nuovo Ufficio europeo per il sostegno dei richiedenti asilo, EASO, “Qualora, sulla base in particolare delle informazioni ottenute dall’EASO a norma del regolamento (UE) n. 439/2010, la Commissione stabilisca che l’applicazione del presente regolamento può essere ostacolata da un rischio comprovato di speciale pressione sul sistema di asilo di uno Stato membro e/o da problemi nel funzionamento del sistema di asilo di uno Stato membro, in cooperazione con l’EASO, rivolge raccomandazioni a tale Stato membro invitandolo a redigere un piano d’azione preventivo. Lo Stato membro interessato informa il Consiglio e la Commissione della sua intenzione di presentare un piano d’azione preventivo al fine di porre rimedio alla pressione e/o ai problemi nel funzionamento del sistema di asilo pur garantendo la protezione dei diritti fondamentali dei richiedenti la protezione internazionale. Uno Stato membro può redigere, su propria discrezione e iniziativa, un piano d’azione preventivo e procedere alle revisioni successive del medesimo. Nell’elaborare tale piano, lo Stato membro può chiedere l’assistenza della Commissione, di altri Stati membri, dell’EASO e di altre agenzie pertinenti dell’Unione”.

 

SYRIA

Un profugo si riposa durante la protesta sotto uno striscione

 

Rimane tuttavia il fatto che gli stati dell’Unione Europea non sembrano affatto propensi ad adottare le misure previste dalla Direttiva 2001/55/CE in caso di “afflusso massiccio di sfollati”, né sembrano chiari i criteri di eventuale ripartizione tra i diversi paesi dei profughi che dovessero arrivare da stati dell’Unione, come la Grecia, verso i quali non risulta possibile riammettere i richiedenti asilo, per la conclamata inadeguatezza del sistema nazionale di accoglienza e per il mancato adempimento delle Direttive dell’Unione Europea in materia di qualifiche e di procedure previste per i richiedenti asilo. Sarà dunque necessario un impegno straordinario perché la questione della modifica sostanziale del Regolamento Dublino III rientri nell’agenda di lavoro della Commissione e del Consiglio, dopo una precisa assunzione di responsabilità da parte del Parlamento Europeo.

Occorre “deflazionare” le procedure di riconoscimento della protezione internazionale con una applicazione estesa della “protezione temporanea” prevista dalla Direttiva 2001/55/CE salvo il diritto di presentare una successiva richiesta di protezione internazionale in un paese dell’Unione diverso da quello di primo ingresso. Si deve arrivare anche al riconoscimento reciproco tra i diversi stati UE delle decisioni amministrative o giudiziarie che riconoscono lo status di asilo o la protezione sussidiaria.

Vanno aperti canali umanitari che consentano un ingresso protetto e legale in Europa a persone che si trovano in condizioni soggettive di particolare vulnerabilità, come i nuclei familiari con bambini piccoli e le donne sole o con i loro figli. Vanno altresì garantiti canali legali di trasferimento dal primo paese di ingresso ad altri stati di destinazione, sulla base di una valutazione delle possibilità effettive di accoglienza, dei legami familiari e sociali già esistenti e del rispetto delle norme europee in materia di accoglienza. Occorre rafforzare, in collaborazione con le reti locali, contro tutti i tentativi di respingimento e di detenzione arbitraria le pratiche di assistenza e difesa legale “dal basso”, già sperimentate con successo nella proposizione del ricorso Sharifi contro Italia e Grecia alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo.

Vanno infine garantite, con un monitoraggio rigoroso, oltre che con le necessarie riforme legislative, regole procedurali e standard minimi di accoglienza che siano omogenei nei diversi paesi europei, anche allo scopo di evitare movimenti secondari, che se in parte si verificherebbero comunque, sono determinati anche dalle condizioni di accoglienza inadeguate e da procedure di durata indeterminata e di esito spesso del tutto incerto, se non apertamente discriminatorio ( con riferimento alle persone che provengono da paesi terzi ritenuti “sicuri”).
 

Sosteneteci. Come? Cliccate qui!

associati 1

 



Lascia un commento