Good morning, Israel

Ottocento israeliani noti e meno noti firmano una lettera che chiede il riconoscimento dello Stato di Palestina

 

di Christian Elia
@eliachr

 

 

9 dicembre 2014 – Le lotte simboliche, a volte, sono vittime predestinate. Accusate di inutilità, come minimo, quando non vengono additate addirittura di collaborazionismo, di intelligenza con il ‘nemico’, di essere strumento da utili idioti.

E’ ingiusta e spesso anche stupida questa chiusura, perché nessuno si illude che i simboli bastino a riparare i guasti del mondo, ma è anche vero che è attorno ai simboli che si sono serrate le fila dei militanti di tante battaglie.

Ecco, il voto di alcuni parlamenti europei che chiedono ai governi di riconoscere lo Stato di Palestina sono un simbolo. Nessuno si illude che un governo si faccia mettere in un angolo da un voto dell’assemblea, né tantomeno che Israele riconosca le sue aggressioni per un voto in Belgio o in Svezia.

Però. E’ innegabile che un movimento è partito. Il Belgio, la Francia, la Svezia, la Spagna. Il governo israeliano è nervoso: minaccia, richiama ambasciatori, straparla di ‘sabotaggio della pace’, che non fosse una tragedia sarebbe una farsa sentirlo dire da chi occupa territori altrui.

 

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Un movimento simbolico, certo. Ma i simboli servono. Perché questi voti sono banali. Avete capito bene: banali. Perché solo quando il mondo ruota alla rovescia, si deve chiedere a un parlamento di chiedere a un governo di votare un riconoscimento che già dal 1948 è previsto come obbligo dal diritto internazionale.

Questa banalità serve a sottolineare l’assurdità della condizione della quale sono prigionieri i palestinesi. Questa banalità serve a smuovere le coscienze, in particolare in Israele. Per troppi anni l’opinione pubblica israeliana è stata come narcotizzata da una retorica della guerra, della contrapposizione, della divisione.

Servono messaggi in direzione ostinata e contraria. I tre scrittori, che a volte vengono via a pacchetto, si sono mossi in questo senso. Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua, con altre ottocento personalità israeliane, tra cui tra cui il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman, l’ex presidente della Knesset Avraham Burg e l’ex ministro degli Esteri Yossi Sarid.

In passato, nel recente passato, alcune loro dichiarazioni e prese di posizione avevano lasciato molto perplessi chi li guardava come tre messaggeri di pace. Questa iniziativa, invece, va in una direzione che si potrebbe definire storica. L’intellighenzia israeliana, dopo anni di colpevole silenzio, si rende conto che questo movimento del riconoscimento rischia di andare avanti senza una sponda nella società civile israeliana.

Resterebbe una macchia indelebile, che bisogna evitare. Questa lettera, queste ottocento firme, sono un primo passo verso il risveglio di una società civile che negli anni Ottanta, disgustata dal massacro dei campi profughi palestinesi in Libano di Sabra e Chatila, che l’esercito israeliano stette a guardare senza muovere un dito, portò in piazza centinaia di migliaia di israeliani furiosi con il loro governo. Ecco, siamo solo a ottocento. Ma da qualche parte bisogna pur iniziare.

 

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