Donbass: la linea invisibile 1

Diario di viaggio dove finisce l’Europa, ma non inizia ancora la Russia, dove l’Ucraina si perde nel Donbass

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/12/10805622_10205385288531467_7355464163906478836_n.jpg[/author_image] [author_info]foto e testo di Teo Butturini, da Donestk, Dobass, Ucraina. 33 anni, da circa tre si dedica a documentare fotograficamente il mondo intorno a lui. Prima in Egitto, dove segue la rivoluzione, poi in Cina ed in Sud America. Ora si trova in Ucraina, diretto nel Donbass, per cercare di capire cosa succede in quelle aree, devastate dalla guerra che sta spaccando il paese in due.[/author_info] [/author]

12 dicembre 2014 – Come mio solito sono in ritardo con i preparativi, probabilmente non imparerò mai. Dev’essere uno dei miei tratti più spiccatamente italiani, volendo parlare per stereotipi.
Il furgone che mi porterà in Ucraina arriva mentre sto ancora finendo di fare le borse e Sasha, il mio autista, si fa una grassa risata alla vista dell’elmetto e del giubbetto antiproiettile. Mi dà del pazzo e carica tutto dietro ai sedili. Prendo posto accanto a lui e via, giusto il tempo di recuperare una ragazza a Saronno ed altre due signore in quel di Milano, si parte per davvero.
Per loro è un rientro a casa, per me la prima volta nell’est Europa, sempre che di Europa si possa parlare. In fondo è la questione centrale di questo conflitto ormai silenzioso: c’è una linea invisibile che divide il paese in due e già so che, a seconda della zona di provenienza di chi intervisterò, le risposte saranno molto differenti.

Tutte le persone a bordo vengono da Chernivtsi, una cittadina di duecentocinquantamila abitanti nel centro dell’Ucraina. Cristina e Zina sono infermiere, Tania maestra alle elementari, Raissa casalinga. Di Malvina e Valeria non capisco bene l’occupazione, sono un po’ più timide e non parlano molto. Sasha invece, ventisei anni, da ormai sei fa tutte le settimane avanti e indietro con il suo furgone. Tutti faticano a capire le ragioni della guerra: sono Ucraini ma conoscono bene la vita “all’occidentale”, e non capiscono come sia possibile che nel Donbass ci si davvero qualcuno che preferisce schierarsi con la Russia.

 

 

Parole molto diverse da quelle di Alexandr Bednov, nome di battaglia Batman, un ex-spetsnaz ora a comando del quarto battaglione della Repubblica Popolare di Lugansk. Per lui è una questione di tradizioni, di conservare l’identità culturale del sud-est del paese, come dice in una delle ultime interviste rilasciate all’agenzia Novorossiya.

Per quel che mi riguarda ho lasciato a casa qualsiasi opinione preconcetta su quel che accade lì. Sto andando a capire cosa succede davvero sul campo, al di là della propaganda dei due schieramenti, e non voglio farmi condizionare prima di aver visto coi miei occhi.
Dormo per buona parte del tragitto, mentre fuori dai finestrini la notte lascia spazio ad un cielo plumbeo che ci accompagna per tutto il percorso. Le foreste Ungheresi scorrono rapide, velate da una fitta pioggia autunnale.

Negli sporadici momenti in cui sono sveglio le mie compagne di viaggio non smettono di chiedermi perchè voglio andare in delle zone infestate da quelli che loro chiamano terroristi. Fatico a spiegarlo, un po’ non voglio: forse non capirebbero le ragioni più intime che mi conducono lì, come del resto non le comprendono i miei genitori e la maggior parte degli amici a casa. Ogni tanto non lo so neanche io, queste partenze sono ormai più una necessità che non una vera e propria scelta. Arriviamo al confine Ucraino all’imbrunire, mentre il sole fa capolino tra le nubi per qualche minuto, e inaspettatamente le procedure di controllo in dogana sono speditissime.

 

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Dopo un’altra mezz’ora di strada ci fermiano a mangiare del borsch, una zuppa di patate e panna acida, in un piccolo ristorante per camionisti dallo stile decisamente barocco. Il cibo non è male, anche se sono una buona forchetta e non mi faccio mai grandi problemi a divorare quel che mi mettono sul piatto.

A un centinaio di chilometri da Lviv è ora di cambiare mezzo, lasciando che gli altri proseguano per la loro destinazione. Chernivtsi è lontana, e conviene che io affronti l’ultimo tratto di strada con il furgoncino di Roman, un buttafuori sulla cinquantina in giubbetto mimetico, che sulle prime pare vagamente minaccioso (mentre si rivelerà invece gentilissimo). Comunichiamo usando le poche parole di Russo che conosco, inframezzate da un po’ di Inglese ed Italiano.

La bandiera Ucraina unita a quella Europea, attaccate al suo parabrezza, mi rendono subito chiaro il suo profondo patriottismo, comune alla maggior parte della popolazione di queste zone. Le parti più chiare della nostra conversazione sono: Putin vaffanculo, terroristi merda e rock’n’roll. Mi chiede di scambiargli della valuta locale in Euro, dato che i suoi figli collezionano le monete, dividendole per nazionalità. Poi mostra, ridendo, un rotolo di carta igienica con sopra impressa la faccia di Putin. Non c’è che dire, la guerra si combatte davvero ad ogni livello, qui.

 

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Ventiquattro ore dopo la partenza giungo al Cats’ Hostel, la mia casa per i prossimi due giorni. E’ una specie di appartamento con un paio stanzoni invasi da letti a castello, al secondo piano di un edificio nel centro della città. Al momento sono l’unico ospite.

Saluto il mio autista e, nonostante io sia abbastanza distrutto, non perdo occasione di scambiare due chiacchiere con Anton, il giovane proprietario. Mi spiega che da quando è iniziata la guerra gli affari non vanno molto bene: gli Europei vedono l’Ucraina come un posto pericoloso, ed i Russi non vengono da queste parti per ovvie ragioni.

Dopo un the con vodka sento le forze che mi abbandonano, decido di ritirarmi nella camerata vuota per svenire sotto alle coperte.
Mi sveglio tardissimo, trascorro la domenica passeggiando insonnolito per le strade del centro, cercando di captare l’atmosfera di questa città dall’architettura strabiliante, a metà tra il barocco ed il rinascimentale. La bandiere dell’Europa sono ovunque, accostate a quelle Ucraine, e anche quelle di Praviy Sektor (Settore di Destra, un gruppo nazionalista che ha avuto un ruolo fondamentale nelle proteste di Maidan, prima di diventare un partito a tutti gli effetti) non scarseggiano.

Fa abbastanza freddo, benchè mi aspettassi ben peggio, e al calare delle tenebre decido di rifugiarmi in uno dei caratteristici caffè per cui Lviv è famosa. Pianifico i miei spostamenti per i prossimi giorni assaggiando le ottime miscele ed i liquori della casa, prima di cenare con una zuppa di funghi e degli involtini di pollo impanati, in un ristorante consigliato da Anton. Le mie impressioni iniziali sulla cucina locale sono decisamente confermate, e sapere che il buon cibo da queste parti non manca è un’ottimo puntodi partenza.

Ritorno presto in ostello, per parlare con il mio anfitrione e conoscere la sua opinione riguardo alla situazione del Donbass. Il livello di vodka nella prima bottiglia cala a velocità impressionante, mentre mi spiega di aver vissuto per quattro anni a Mosca e di aver molti amici lì, anche se ora con alcuni di loro è diventato difficile parlare: si finisce spesso per litigare, a causa delle diverse posizioni riguardo alla guerra in atto nel sud est del paese.

Gli effetti devastanti della propaganda mi diventano via via più chiari. Da entrambi i lati della linea che separa lealisti e separatisti l’informazione è a senso unico, nel disperato tentativo di serrare i ranghi e direzionare l’opinione pubblica. Il risultato è un odio generalizzato verso il “nemico”, ed anche Anton ammette che ormai è quasi impossibile capire dove sta la verità.

 

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Per i separatisti gli Ucraini sono dei nazisti che vogliono mantenere il controllo del territorio, nonostante le richieste di autonomia della popolazione locale.
Gli abitanti di Lviv invece non perdono occasione di definire banditi e terroristi gli abitanti del Donbass, buttando parte della colpa su presunti mercenari infiltrati dai Russi, che a loro dire si nascondono dietro la bandiera Ucraina per commettere atrocità ed incolpare poi l’esercito regolare.

Ho abbondantemente perso il conto degli shots di vodka che ho tracannato, quando arriva Andreiy, un amico di Anton. Ha quarantatré anni ed è nato in Russia, ma da circa venti abita in qui. Racconta dei tempi in cui viveva in URSS: non ha buoni ricordi di quel periodo, mi spiega che molta che gente che vorrebbe tornare a quel sistema sta soltanto idealizzando, che i poveri esistevano anche allora e la corruzione idem.

Secondo lui Putin mira a ricostruire l’impero sovietico, ed è inutile dire quanto sia Andreiy sia contrario ad un simile scenario. Parla anche lui di amicizie e addirittura di famiglie divise da questo conflitto, che a suo parere non avrà vincitori ma solo perdenti, almeno tra la popolazione. Fatica a comprendere come sia possibile che tanti intellettuali che vivono al di là del confine possano bersi la propaganda di Putin, è impossibile non notare quanto profondamente si emozioni in alcuni passaggi. Vorrei indagare più a fondo sulla sua storia: sembra che gli ronzi in testa molto più di quanto non dica, ma non c’è tempo per approfondire, è tardi e domani dovrà lavorare.

Il letto mi risucchia come il tappeto di Trainspotting, con i Doors a fare da colonna sonora allo spettacolo del soffitto che non smette di girare. Gli altri non sembravano così terribilmente sbronzi, dannazione, ma non potevo rifiutare una tale ospitalità e sembrar una mezza cartuccia.

Mentre cerco di capire quanti bicchieri fa ho perso il controllo, penso alle similitudini tra quel che ho sentito finora e la situazione delle due Coree, a quel dolore tipico dei paesi spaccati in due, che si percepisce guardando film come Joint Security Area o Welcome To Dongmakgol.

Non sono che all’inizio del viaggio, ma mi è già chiaro quanto profonda sia la frattura tra gli schieramenti in lotta. Non so bene come e se sarà mai possibile risanarla, sempre che prima o poi qualcuno ne abbia davvero l’intenzione.

 

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