La tigre in gabbia (per davvero)

Zhou Yongkang è stato espulso dal Partito e arrestato. Si tratta del funzionario di più alto grado a finire male dall’epoca della Banda dei Quattro. La notizia era attesa da due anni e il perdurare dell’incertezza aveva sollevato molti dubbi sul reale consenso attorno alla nuova leadership. Per l’ex zar della sicurezza, processo e dura condanna sono ora inevitabili
di Gabriele Battaglia, China Files
15 dicembre 2014 – La grande tigre è finita definitivamente in gabbia. Zhou Yongkang, 72 anni, l’ex temutissimo capo della sicurezza cinese, è stato espulso dal Partito comunista e arrestato, sulla base di una serie di accuse che vanno dalle tangenti alla diffusione di segreti di Stato, passando per l’appropriazione di beni pubblici e favori ad amici, familiari e amanti. La notizia è arrivata alla mezzanotte di ieri, dopo che a luglio era stato messo sotto indagine.
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La decisione è stata presa dal Politburo del Partito, il consiglio di 25 membri ai vertici del potere cinese; contemporaneamente, la procura di Stato annunciava l’esecuzione dell’arresto, senza fornire altri dettagli. Questo significa che Zhou andrà inevitabilmente incontro a un processo e a una pesante condanna ad opera di uno di quei tribunali che un tempo erano proprio il suo feudo politico.

Si aspettava la notizia da due anni, ma questo non la rende meno clamorosa. In Cina, la stanza dei bottoni è il Comitato permanente del Politburo, che oggi è composto da sette leader maximi. Ebbene, Zhou è il primo membro o ex membro di questo organismo che finisce male dai tempi della Banda dei Quattro, a fine anni Settanta. Quasi un’altra era geologica.
Zhou aveva fatto parte del Comitato permanente dal 2007 al 2012, quando si è dimesso durante lo stesso congresso che ha nominato Xi Jinping leader del partito. Nel suo periodo ai vertici, era stato anche a capo del Comitato che controlla le forze di sicurezza interna, la polizia, i tribunali, i pubblici ministeri e le carceri.

Poco dopo il suo pensionamento, erano cominciate le indagini per corruzione che hanno colpito le sue basi di potere: la provincia di Sichuan e il più grande conglomerato energetico del Paese, la China National Petroleum Corporation, di cui Zhou era stato anche direttore generale. A dicembre 2013 era stato presentato il primo rapporto interno che sollevava il problema delle sue violazioni disciplinari.

I media cinesi leggono l’incriminazione dell’ex zar della sicurezza come la dimostrazione che Xi Jinping fa sul serio nella sua campagna anticorruzione contro “le tigri e le mosche”. Rivela anche la rottura di una tradizione all’interno della leadership comunista cinese, in base alla quale i pezzi grossi in pensione erano generalmente lasciati in pace. Una presa di distanza simbolica, da parte dell’attuale leadership, rispetto all’eredità di Deng Xiaoping.
Ultimo elemento, forse il più importante: con l’arresto di Zhou si colpiscono i feudi interni alle grandi imprese di Stato, quegli interessi costituiti che stornano risorse e impediscono la trasformazione della Cina in economia evoluta.

Secondo la nota del Politburo, Zhou ha approfittato dei suoi incarichi per ottenere profitti indebiti, accettando enormi tangenti sia per sé, sia per o attraverso la propria famiglia.
Ha abusato del potere per aiutare parenti, amanti e amici, ottenendo enormi guadagni dalle imprese che controllava, con conseguenti gravi perdite per le proprietà pubbliche.
Ha divulgato segreti di Stato e di Partito. Ha seriamente violato i regolamenti di autodisciplina, ha commesso adulterio con un gran numero di donne e barattato il proprio potere per sesso e denaro.
L’adulterio non è ovviamente illegale in Cina, ma è un’accusa specifica rivolta ai membri del Partito che devono avere una moralità superiore a quella dei cittadini comuni. Il sesso extramatrimoniale può comportare l’espulsione dei funzionari, concetto ripetuto più volte di recente, di fronte a casi sempre più frequenti e bizzarri.
L’agenzia Nuova Cina commenta che Zhou ha completamente deviato dalla natura e dalla missione del Partito violandone gravemente la disciplina e minandone la reputazione, danneggiando così la sua causa e quella del popolo. Le due, inevitabilmente, coincidono.

Infine, tra le tante osservazioni che circolano in queste ore, una appare calzante: rispetto a dieci-vent’anni fa, il periodo di tempo che passa tra l’inizio delle indagini su un pezzo grosso del Partito e la sua espulsione e incriminazione formale si è velocizzato; questo è successo sia nel caso di Zhou (4 mesi), sia nella precedente vicenda di Bo Xilai (5 mesi e mezzo), l’ex leader di Chongqing poi condannato all’ergastolo.
Questo potrebbe significare due cose: primo, non è vero che non ci sia stato consenso ai vertici della leadership sul procedimento contro Zhou e che siano invece in corso lotte di potere dietro le quinte, con tanto di coltello tra i denti; secondo, se si vuol interpretare questo procedere come un’indicazione per il futuro, il recente progetto di riforma del sistema giudiziario cinese punta proprio alla velocizzazione delle procedure e all’applicazione più puntuale della legge, non all’indipendenza del giudiziario rispetto al potere politico. Una legge indisputabile ma chiara – dura lex sed lex – per tenere la Cina insieme e ricostituire la fiducia nel Partito.

 

 

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