Shi’at Alì – 6

Yemen, dissolvenza in nero: la presa del potere degli sciiti, al-Qaeda, gli indipendentisti e il ruolo di Arabia Saudita e Iran

Il progetto Shi’at Alì 2003-2004/2013-2014 – Viaggio nel decennio del rinascimento sciita, a cura di Christian Elia, continua. Seguiranno reportage vecchi e nuovi, interviste, contributi, testimonianze e narrazioni di sé.

 

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“Alla luce dell’attuale debolezza dell’amministrazione politica, lo Stato yemenita apre il nuovo anno senza un centro per le principali decisioni militari, politiche ed economiche. Tenendo a mente che il potere politico in Yemen è sinonimo di potere militare, e che il potere militare è sinonimo di accesso alle risorse del centro, la conseguenza di una prolungata assenza di un centro decisionale potrebbe risultare catastrofica”.

Così scrive in un bell’editoriale – pubblicato da YourMiddleEast – Khaled Fattah, ricercatore del Carnagie Institute ed esperto di Yemen. Difficile essere più chiari nel descrivere l’implosione di uno Stato che appare irreversibile, lacerato sempre più tra divisioni strumentali e reali ambizioni di potere.

L’attentato suicida del 31 dicembre scorso nella città di Ibb, nello Yemen centrale, costato la vita ad almeno 49 persone, con 70 feriti, è solo l’ultimo lampo di un contesto molto complicato. Obiettivo un centro del movimento sciita Ansarullah, che ha di fatto preso il controllo del Paese. Prima si erano verificati altri due attacchi: il 16 dicembre ad al-Bayda (40 morti, 20 dei quali bambini), e il 18 dicembre nella città di al-Hudayda (18 morti). Obiettivo sempre lo stesso, matrice identica: al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqpa). Almeno ufficialmente.

Un gioco di specchi insanguinati che, fomentato ad arte, rende sempre più profonda la spaccatura interconfessionale in Yemen, tra sunniti e sciiti, ma che in realtà è molto più legato a interessi economici e politici nell’area.

Lo Yemen, seppur dimenticato dai più, è stato uno dei fronti delle ‘primavere arabe’, che ormai da tempo sono tramontate in cupi inverni di restaurazione e repressione. La sollevazione popolare contro il regime di Abdullah Saleh, al potere per trenta anni a Sana’a, gradito a Usa e Arabia Saudita, ha sconvolto il Paese che da decenni si reggeva su un complesso equilibro tra gruppi tribali ed élite economiche.

Dopo un anno di conflitto, Saleh ha consegnato il potere nelle mani del suo vice, Abd Rabbo Mansur Hadi, che ha gestito un accordo di transizione con i rivoltosi in cambio dell’immunità per il suo predecessore che si è consegnato alla protezione degli Stati Uniti. Il Paese è stato pacificato (sulla carta) con un accordo tra il partito al-Islah, vicino ai Fratelli Musulmani, e il General People’s Congress, formazione del vecchio regime.

La transizione venne presentata come una via d’uscita partecipata e democratica, che però non ha mai rappresentato una soluzione per le tensioni interne al Paese. Tensioni che dividono lo Yemen in direzioni varie: l’ambizione indipendentista della regione di Aden, la presenza di al-Qaeda che controlla intere città nello Yemen meridionale, la rivolta sciita nel Nord del Paese, legata al clan degli Houti, fin dal 2004.

Tensioni che sono aggravate da una delle condizioni socio-economiche più drammatiche del mondo. Su 20 milioni di abitanti, in Yemen, circa 12 milioni hanno un accesso prossimo allo zero a cibo, acqua potabile, istruzione e sanità. L’analfabetizzazione è attorno al 70 percento. L’economia si basa solo sui proventi della vendita del petrolio che già è meno abbondante che nei paesi vicini, in più adesso paga il crollo del prezzo del greggio che ha reso asfittiche le casse statali.

A questo si aggiunge che per le tensioni interne, lo Yemen investe quasi il 7 percento del PIL in spese militari, mantenendo un impressionante apparato militar poliziesco che con la macchina amministrativa dello Stato arriva a comprendere circa 5 milioni di persone. Inoltre, da anni, lo Yemen sopporta un flusso di rifugiati dal Corno d’Africa e dalla Siria che l’Unhcr stima in 250mila persone, cui sommare gli oltre 300mila sfollati interni a causa dei combattimenti.

Gennaio dello scorso anno sembrò un punto di svolta con la Conferenza di Dialogo Nazionale. In realtà, un anno dopo, la situazione è sempre la stessa, anzi peggiorata. Ansarullah, infatti, a settembre ha preso la capitale Sana’a, rifiutando al contempo di prendere il governo, ma limitandosi a controllare il territorio e a insediare uomini di fiducia in posti chiave. Lo stesso premier attuale è Khaled Bahah, ex rappresentate dello Yemen alle Nazioni Unite, gradito ad Ansarullah.

Questo gruppo ha le sue radici nel movimento sciita degli Houti, legato alla tradizione dello zaidismo, costola dello sciismo, che comprende più o meno il 35 percento della popolazione. Il gruppo prende il nome dal predicatore Hussein Badreddin al-Houthi, che ha guidato la rivolta contro il governo centrale a partire dal 2004. Assassinato dai governativi quell’anno, venne sostituito dal figlio Abdul Malik al-Houti. La loro roccaforte è il governatorato di Sa’ada, al confine con l’Arabia Saudita, che li combatteva sostenendo il regime.

Secondo molti osservatori, la lotta degli Houti diventa aggressiva proprio quando, salito al potere in Iran Mahmoud Ahmadinejad, Teheran inaugurò una politica di sostengo militare e finanziario ai gruppi sciiti nei paesi limitrofi. Lo zaidismo, infatti, cui Houti si ispira, è considerata una variante dello sciismo molto vicina ai sunniti. L’esacerbarsi della lotta è molto più legata al controllo economico e alla spartizione del potere che a ragioni religiose, ma la tensione interconfessionale torna sempre buona. Una spina nel fianco del governo centrale che, con il rovesciamento di Saleh e l’accordo con i Fratelli Musulmani, sembrava sotto controllo. Ma negli ultimi anni, l’escalation è stata costante, fino alla presa di Sa’ana.

Lo Yemen, dunque, sembra un teatro di guerra per interessi altrui. Da un lato gli sciiti, che controllano ma non governano, supportati dall’Iran. Se ci fossero dei dubbi, basta leggere le ultime dichiarazioni di Hossein Salami, vice comandante della Guardie della Rivoluzione iraniane, che citato da MiddleEastMonitor quantifica le milizia filo iraniane presenti in Siria, Iraq e Yemen con un numero “dieci volte superiore a quello dei miliziani di Hezbollah”.

Dall’altro lato l’Arabia Saudita che, per contenere l’Iran, è pronto a tutto, ma non vuole sporcarsi le mani. E lascia fare il lavoro sporco agli integralisti di al-Qaeda, che hanno giurato lotta senza quartiere contro gli sciiti. Incassando comunque la marginalizzazione politica di al-Islah, il partito dei Fratelli Musulmani appoggiati dal Qatar, che appaiono come i veri sconfitti di questa situazione e che dai tempi delle rivolte arabe sono per l’Arabia Saudita un problema maggiore degli stessi iraniani.

Non a caso i sospetti sull’avanzata rapida degli sciiti sono tanti. Basti pensare che il 193° battaglione dell’esercito (comandato da un uomo vicino al vecchio regime, quindi vicino a Riad) di stanza a Radda si è ritirato senza combattere, favorendo la marcia di Ansarullah sulla capitale. L’Arabia Saudita, quindi, pare interessata a stare alla finestra.

Gli Stati Uniti, in Yemen, sono coinvolti da tempo. La dottrina Obama, però, non prevede coinvolgimenti in massa e limita la sua politica nell’uso spesso scriteriato dei droni per assassinare leader ritenuti vicini ad al-Qaeda. Il 7 dicembre scorso, nel corso di un raid di corpi speciali Usa, hanno perso la vita il giornalista statunitense di origini britanniche Luke Somers e l’insegnate sudafricano Pierre Korkie. Non è chiaro se per fuoco amico o uccisi dai loro carcerieri.

Gli Houti stanno lavorando sul consenso popolare, bloccando il prezzo della benzina e prevedendo sussidi popolari, ma per quanto in vantaggio non danno l’idea di poter contenere le forze che si agitano nel Paese.

Lo Yemen di oggi è quanto di più lontano si possa immaginare dall’Arabia Felix che affascinava gli antichi romani, o dalla terra misteriosa che stregava i viaggiatori britannici dell’inizio secolo scorso. Uno dei teatri in cui si gioca il futuro della regione che non potrà essere abbandonato al suo destino, a meno di non voler ripetere gli errori commessi in Siria e in Iraq.

 

 

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