Parigi: quei cappotti del potere fra il popolo

I grandi, i potenti, a piedi a sfilare in una giornata di commozione generalizzata e dentro il quadro di una marea umana che ha detto chiaramente con i corpi il suo messaggio.

Ma quelle giacche blu, quei cappotti sobri e di fine fattura, hanno attirato come normale che sia l’attenzione. Sui commenti diventano un inedito simbolo di una possibile unione, anche europea che finalmente si annuncia, mentre sui social c’è forte turbamento positivo per alcuni che vedono un segno di umanità e negativo per altri che guardano in faccia i singoli signori della prima e seconde fila e fanno memoria delle singole malefatte politiche, che alla fine finiscono per sbavare irrimediabilmente il quadro idilliaco.

Credo che ci sia una questione chiave e fondativa dei rapporti di potere, in quella foto.

Il primo:

c’è, si sono, le istituzioni rappresentative di sistemi governativi eletti. Ci sono rappresentanti, cioè, di altri popoli. Su questo torniamo fra poco.

Il secondo:

l’istituzione nel momento del timore, della paura e soprattutto nel panico – che non era di Place de la République, ma dei giorni scorsi e chissà i futuri – incarna l’autorevolezza e l’autorità e in ciò racchiude una figura che deve rasserenare, rassicurare, che abbraccia e difende. E oggi i nostri cappotti e giacche rassicuranti erano lì.

Il terzo:

singoli poteri che si uniscono nella solidarietà, contro un nemico, per la libertà. Sono gli stessi singoli poteri che giocano sullo scacchiere europeo e internazionale con visioni diverse del futuro e con accenti inequivocabili di politica estera, oppure che a livello interno gestiscono spesso con fastidio molti progetti legislativi che riguardano le libertà, o – peggio legiferano per concedere spazio a norme che uccidono il pluralismo (e noi me sappiamo molto su questo argomento).

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Su tutti questi aspetti, non sfugge la cosa, prevale il simbolo. Le istituzioni e le facce dei singoli potenti sono simbolo, sono quasi spersonalizzate, sono o dovrebbero essere anonimi lineamenti prestati al simbolo. Una bandiera.

 

Eppure visto dall’Italia, fra notizie web e qualche sprazzo di diretta video e quindi fuori dal sentimento collettivo della piazza che racconta il nostro Samuel Bregolin da Parigi, quella foto è la plastica rappresentazione di uno iato avvenuto.
Guardare in faccia le persone (qui il link alla ‘sfilata degli ipocriti‘) e il loro essere simbolo e ricordare visivamente parole che scorrono di dichiarazioni di leggi, di condanne, di via libera ad azioni di guerra e repressione è un tutt’uno.

Schermata 2015-01-12 alle 00.18.33Così come è immediato il pensiero che gli spagnoli del 15 M hanno rinchiuso nel coro Que No Nos Representan, non ci rappresentano. Il popolo è più avanti, perché già diversi anni fa, sembra un secolo, un insieme di centiniaia e centiniaia di migliaia di persone avevano detto Pace e loro andarono in guerra, guerra santa anche quella, altro che democrazie da esportare.

 

C’è un rapporto profondo fra cittadino e istituzioni, prima ancora fra cittadino e ruolo della politica e dei partiti, che andrebbe rifondato. Allora quella foto sarebbe meno particolare da guardare. Il bagliore di cittadinanza europea sta nei corpi della piazza, sta nei corpi a Milano, a Berlino. Ma sono anche corpi pronti da un bel pezzo a convergere su idee e ideali, non su percentuali di spread e politiche monetarie. Chi li ascolta? Chi li serve?

Non fanno cultura, quei cappotti. Le loro politiche economiche fanno emarginati e retorica del disumano, quasi nessuno ne esce indenne, di quella fotografia. Il tempo della commozione dura un istante, perché nella natura umana c’è l’inarrestabile ansia di vivere, che spinge in avanti. Ma il potere è capace di intenerire lo sguardo, quando cerca di mostrarsi impacciato a fare quello che ormai ha dimenticato: camminare per le strade di una città per dimostrare solidarietà. È retorica, dicono in molti, ricordare gli omicidi quotidiani che avvengono per uno scontro di civiltà che appartiene ai nostri ingranaggi economici e finanziari, è retorico e spesso chi lo dice o lo scrive viene bollato come un rétore di un secolo passato.
Però pensateci bene.

In questi giorni Je Suis Charlie, o Je ne suis pas Charlie sono diventati uno slogan che ha un significato forte, anche in chi avversa, perché porta le sue ragioni . Ma essere Charlie, essere a Parigi per la libertà è un fardello considerevole per chi esercita decisioni che riguardano milioni di persone. Chissà se anche solo per un attimo si saranno chiesti quando e se davvero sono per le libertà, loro. Quanto e per davvero siamo liberi dentro le politiche che disegnano, sentendosi legittimati da un sistema che scricchiola, di democrazia delegata.

Nella stessa piazza, con il popolo. Ma irrimediabilmente distanti.



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