Cecenia, vuoti di memoria

Il 23 febbraio, a Groznyj, non si commemora più la deportazione sovietica per non irritare Mosca

Quel 23 febbraio 1944 non era un giorno qualunque. Tutta l’Unione Sovietica si era fermata per rendere onore all’Armata Rossa e alla Marina Militare e celebrare la virtù guerriera, l’eroismo, la dedizione alla Patria, come da tradizione.

Ma in quegli anni risuonava più forte l’appello al coraggio e al sostegno del Paese ai soldati sovietici, che combattevano contro la Germania nazista quella che nella storiografia russa sarà ricordata come la Grande Guerra Patriottica.

Già dal 20 febbraio Lavrentij Berja, il capo del NKVD, la polizia segreta sovietica, si trovava a Groznyj, nell’allora Repubblica Autonoma di Cecenia-Inguscezia. I Ceceni al fronte avevano mostrato valore e adesione alla causa, meritando 44 decorazioni di guerra. Ma celebrare le prodezze cecene non era in cima alle priorità di Berja, inviato da Stalin nel Caucaso con ben altri disegni.

I Ceceni, montanari di religione musulmana, erano noti alle autorità sovietiche, e ancora prima agli zar, per essere indomiti, riottosi, selvatici, così attaccati alle proprie radici e ai propri costumi da ribellarsi a ogni tentativo di sottomissione e assimilazione. Un’autentica spina nel fianco. Ora su alcuni di loro pesava un accusa gravissima, quella di aver collaborato con le truppe naziste in funzione antisovietica. Tempo era giunto di liberarsi definitivamente di tanto fastidio.

Quel 23 febbraio 1944 circa 450mila Ceceni discesero dalle alture del Caucaso per sprofondare direttamente in una voragine infernale. Sradicati dalla loro patria storica, furono caricati su treni destinati al trasporto di bestiame e deportati in massa in Asia Centrale, principalmente in Kazachstan.

Solo nel 1957 Chruščëv avrebbe permesso loro di fare ritorno nel Caucaso. Nel mentre, però, le autorità sovietiche si erano adoperate perché dei Ceceni non restasse memoria. I territori della Repubblica Autonoma di Cecenia-Inguscezia furono smembrati e ridistribuiti, il nome dei Ceceni scomparve da mappe e documenti ufficiali, le tracce di vita quotidiana furono cancellate, le lapidi dei cimiteri divelte e riutilizzate per edilizia urbana.

Oggi, come allora, il 23 febbraio non è un giorno qualunque. Si celebra il Difensore della Patria in tutta la Russia, compresa la Cecenia, che da Mosca dipende come Repubblica della Federazione Russa, nonostante le forti spinte separatiste. E ancora oggi, come allora, per una sinistra coincidenza, la festa solenne si sovrappone a un momento di lutto e dolore per i Ceceni.

Ma dallo scorso anno il ricordo della deportazione è ancora più amaro. Il 2014, che ha segnato il 70 anniversario della tragedia, si ricorderà come il primo anno in cui, per volere delle Autorità, l’evento non è stato celebrato con cerimonie ufficiali. Poco conta che il Governatore della Repubblica caucasica, Ramzan Kadyrov, avesse annunciato di voler celebrare la memoria della deportazione il 10 maggio, giorno in cui in Cecenia viene ricordata l’uccisione di Achmat Kadyrov, ex governatore e padre di Ramzan.

Curiosamente, anche l’anniversario della morte di Achmat Kadyrov ha subito un aggiustamento. L’ex governatore ceceno è caduto in un attentato il 9 maggio 2004, ma le autorità hanno scelto come giorno di lutto ufficiale il 10 maggio, anniversario dei funerali solenni. Volontà di evitare che la cerimonia locale coincidesse con un’altra festività pubblica nazionale, il Giorno della Vittoria, anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale e della vittoria dell’URSS nella Grande Guerra Patriottica?

E non sono solo le date a fluttuare. Lo stesso monumento alle vittime della deportazione è stato rimosso per essere trasferito altrove. Kadyrov si è mostrato animato dalle migliori intenzioni. Al memoriale, composto da quelle stesse lapidi rimosse dai Sovietici e recuperate in un secondo momento, era stata destinata una posizione migliore, più spaziosa e centrale, proprio accanto al monumento dedicato agli ufficiali di polizia caduti durante l’ultimo conflitto ceceno, con l’intento di ricordare tutte le vittime indipendentemente dall’appartenenza o dal loro ruolo nella storia cecena.

Ramzan Kadyrov

Ramzan Kadyrov

Peccato, sottolineano quei ceceni che non hanno apprezzato il gesto, che sul posto non ci siano targhe o iscrizioni commemorative a raccontare e ricordare la tragedia della deportazione; inoltre, lamentano, unificare i monumenti li priva del loro senso originario.

Le autorità cecene sembrano soffrire di vuoti di memoria. Singolare, ma non troppo. Infatti, se da una parte la volontà di oscurare la memoria della deportazione stride con l’immagine che Kadyrov promuove di sé come padre e difensore del popolo ceceno, dall’altra è perfettamente coerente con l’orientamento filorusso che il governatore persegue apertamente e senza grossi ostacoli, avendo imposto una stretta autoritaria che ha diffuso nella Repubblica un clima di forte timore.

Timore che ha bloccato ogni forma di protesta pubblica nei confronti della decisione del governo, diversamente da quanto accaduto nel 2008, quando le autorità avevano per la prima volta annunciato il piano di trasferire il memoriale. La popolazione è rimasta silente, ma il risentimento per la memoria negata rischia di unirsi e accrescere lo sdegno e il dolore per i molti civili caduti in più recenti conflitti che non hanno ancora trovato giustizia.



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