Israele, speed-dating style

Appuntamento con i candidati delle prossime elezioni di metà marzo

da Tel Aviv

Sin dalla sua fondazione, nel 1948, lo Stato di Israele garantisce, a qualunque ebreo della diaspora, purché abbia almeno un nonno o una nonna ebrea, il diritto di ricevere cittadinanza Israeliana, in virtú della Legge del Ritorno, approvata in seguito alla catastrofe della Shoah.

Da allora il movimento migratorio verso Israele, la cosiddetta aliyah o, letteralmente, “salita” verso la Terra Promessa, ha avuto diverse picchiate a seconda dei periodi storici: subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli ebrei europei sopravvissuti all’Olocausto; il grande arrivo dei mizrachim, gli ebrei del “medio oriente”, provenienti, negli anni Cinquanta e Sessanta principalmente dall’Egitto di Nasser e dalla Guerra di Algeria e negli anni Settanta e Ottanta dall’Iran post-rivoluzione.

Negli anni Novanta é stata la volta dei russi scappati dal crollo dell’Unione Sovietica che oggi, oltre un milione, rappresentano un sesto della popolazione israeliana. Fino ai giorni nostri, con la nuova massiccia ondata di europei, soprattutto francesi, incrementata anche a causa degli di episodi di antisemitismo che oggi tornano ad attaccare la Vecchia Europa.

Sono proprio loro, soprattutto agli occhi dell’attuale classe politica israeliana, il target più importante su cui puntare nelle prossime elezioni. In parte perché chi vive in Israele dalla nascita ha già, nella maggior parte dei casi, una forte opinione politica, difficilmente inclinabile.

In parte perché, a causa della difficoltà nell’apprendere l’ebraico, lingua ostica anche per chi ormai vive in Israele da anni, sono molti i potenziali elettori che, non avendo facile accesso alle informazioni in ebraico, spesso non sanno per chi votare o, in molti, non si presentano del tutto alle urne.

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Per questo, alla vigilia delle imminenti elezioni del prossimo 17 Marzo, l’organizzazione no–profit Kol Oleh (gioco di parole che in ebraico può voler dire “La voce dell’immigrato” e al tempo stesso “voce in rivolta”), fondata proprio da un gruppo di nuovi immigrati, ha deciso di organizzare una serie di incontri in inglese, pensati per far conoscere al giovane pubblico di neo-votanti i volti e i programmi politici dei diversi partiti in corsa alla Knesset.

E così, con un mese di anticipo rispetto alle elezioni, lo scorso 15 febbraio sette candidati appartenenti a sette diversi partiti politici aspiranti al governo hanno accettato di partecipare a una serata di “speed-dating” con i potenziali elettori novelli. La formula é stata proprio quella dello “speed-date”, ovvero il nuovo modo di trovare l’anima gemella nella nostra società consumistica in cui non si ha nemmeno più il tempo di conoscere e corteggiare il futuro partner, per cui si tenta la fortuna al tavolo di un bar avendo circa una ventina di minuti per individuare il potenziale compagno di vita.

Con la stessa logica, al Kuli Alma, noto locale di Tel Aviv, sette candidati di sette diversi partiti hanno accettato la sfida di passare da un tavolo all’altro del locale, ogni venti minuti, per cercare di sedurre potenziali elettori. In ognuno dei sette tavoli era seduto un pubblico di circa una ventina di persone, con la possibilità di formulare a ciascun candidato una domanda specifica, relativa al programma elettorale del partito.

I temi dominanti che vengono discussi in questi giorni di campagna elettorale sono grosso modo sempre gli stessi: la questione dei diritti civili, dalle coppie omosessuali, alle coppie di fatto; la questione dei rifugiati politici provenienti dall’Africa sub-sahriana, che, da anni, cercano asilo politico in Israele; la questione dell’inesorabile aumento dei prezzi dei prodotti e con, esso, il costante incremento della bolla speculativa del mercato immobiliare; la questione della divisione dei poteri tra Stato e religione e, last but not least, il conflitto israelo-palestinese a cui sono ovviamente legate la questione territoriale e quella dello status di Gerusalemme.

Come cittadina israeliana, é per me questa la questione più urgente. Non soltanto dal punto di vista politico ma anche economico, poiché gran parte del budget investito ogni anno per la sicurezza e per l’esercito viene, di fatto, detratto dal budget per altre istituzioni fondamentali quali la salute, l’istruzione, la cultura e le politiche di housing.

Per tanto, qui di seguito, oltre a descrivere i candidati che hanno partecipato alla serata e i principi fondamentali dei partiti da essi rappresentati, troverete le sette diverse risposte alla seguente domanda che ho posto a ciascuno di loro: “quale è la proposta politica del vostro partito nei confronti del Processo di Pace e, all’interno di questa proposta, come pensate di risolvere la questione territoriale, inclusa la spinosa situazione di Gerusalemme?”.

Procederò da sinistra a destra, per quanto arbitrari siano questi due concetti, solo per agevolare la comprensione della complessa situazione politica israeliana. Va inoltre specificato che, nonostante i partiti partecipanti allo “speed-date” siano stati sette, in realtà i partiti politici israeliani che quest’anno si presentano alle elezioni sono in totale undici. I grandi assenti all’evento sono dunque stati il partito arabo-israeliano, ovvero la cosiddetta Lista Araba Unificata, che, per altro, quest’anno, e per la prima volta nella storia di Israele, si presenta con una lista unica, e i tre partiti religiosi.

Secondo Guy Seemann, ventinove anni, arrivato in Israele dagli Stati Uniti e fondatore di Kol Oleh, la ragione principale per cui questi quattro partiti avrebbero deciso di rifiutare l’invito é perché nessuno di questi partiti pensava di poter convincere i nuovi votanti: in quanto ebrei, dal punto di viusta della Lista Araba Unificata e, dal punto di vista dei partiti religiosi, poiché chi vota uno di questi partiti é solitamente talmente indottrinato da non poter pensare neanche di partecipare ad un evento come questo.

Benjamin Netanyahu

Procedendo, per tanto, attraverso un ipotetico spettro che va da sinistra a destra, nel corso dello “speed-dating” all’“estrema” sinistra troviamo Meretz (letteralmente “vigore”), partito social-democratico fondato nel 1992 e attualmente guidato da Zahava Gal-On. Meretz é da sempre noto per la lotta per i diritti civili, per la difesa delle minoranze e per l’impegno nei confronti del Processo di Pace.

All’appuntamento al buio si é presentato Uri Zaki, numero 10 della lista, direttore per quattro anni di B’Tselem USA a Washington D.C. Alla mia domanda risponde che “l’unico modo per portare avanti concretamente il Processo di Pace é cessare immediatamente i 47 anni di occupazione e creare due Stati distinti e democratici”.

Dal punto di vista territoriale vede nella Linea Verde del ‘67 uno dei punti di riferimento su cui basarsi, pur prevedendo di integrare alcune colonie israeliane all’interno dello Stato di Israele attraverso uno scambio di territori con il futuro Stato Palestinese. Quanto a Gerusalemme, sarebbe prevista la divisione in due della città tra i due Stati.

A “centro-sinistra” troviamo l’Unione Sionista: la nuova coalizione tra Avoda (“lavoro”), lo storico partito Laburista, fondato nel 1968 ma le cui origini risalgono alla fondazione dello lo Stato di Israele, oggi guidato da Buji Herzog, e Hatnua (“il movimento”), il partito liberale di cui é leader Tzipi Livni. Questo discusso compromesso é stato pensato da i due candidati come l’unica soluzione possibile per scardinare l’attuale governo di Bibi Netanyahu, tanto che il motto principale della loro campagna elettorale é diventato: “O noi, o lui!”.

A rappresentare la coalizione durante in nostro incontro si é presentata Xenia Svetlova, unica donna della serata, ma degna rappresentante delle sue colleghe che fanno dell’Unione Sionista il partito con il maggior numero di donna nella propria lista.

Numero 21 della lista, Svetlova é a sua volta immigrata in Israele dall’ex Unione Sovietica. Giornalista televisiva per Canale 9 ed esperta di Medio Oriente, alla mia domanda risponde che arrivare agli Accordi di Pace é fondamentale non solo per la sicurezza del Paese, ma anche per riallacciare i rapporti, sempre più tesi, tra Israele l’Europa, di cui Israele ha assolutamente bisogno anche dal punto di vista economico. Secondo Svetlova “la guerra, di fatto, non é mai finita. Viviamo tutti in un lungo e costante ‘cessate il fuco’ e se non si interviene politicamente, attraverso la divisione in due Stati, presto ci sara’ una nuova ed inutile guerra”.

Anche per la candidata dell’Unione Sionista per separare i due stati é necessario integrare alcune colonie attraverso uno scambio di territori. “Soprattutto per una questione di sicurezza, visto l’incessante avanzare dell’ISIS, é necessario delineare i nostri confini una volta per tutte!” E per quanto riguarda Gerusalemme suggerisce la divisione della citta secondo i confini del ‘67.

Al “centro”, ormai dalle scorse elezioni del 2013, troviamo Yesh Atid (“c’é futuro”), fondato e guidato da Yair Lapid, celebre giornalista televisivo e della carta stampata che ha raccolto attorno al proprio partito una serie di personaggi una volta non appartenenti al mondo della politica: professori universitari, ex-agenti dell’Intelligence ed esperti nella questione del Medio Oriente.

Come nel caso di Ronen Hoffmann, numero 19 della lista, attuale membro della Knesset e portavoce, per la serata, del partito che ha fatto la sua fortuna nelle elezioni precedenti, rifiutando, per la prima volta nella storia di Israele, la coalizione con i partiti religiosi.

Alla mia domanda Hoffmann risponde che la divisione dei due stati é necessaria ma non può avvenire soltanto attraverso un accordo bilaterale. É , bensì, necessario un’accordo di cui siano garanti anche i governi degli altri paesi limitrofi. Sulla questione territoriale si allinea alle risposte precedenti ma per quanto riguarda Gerusalemme sostiene che la città non debba essere divisa, rendendo implicito, di fatto, che resterà dalla parte israeliana.

A “centro-destra” troviamo Kulanu (“Tutti noi”), il nuovo partito fondato da Moshe Kahlon, ex membro della Knesset una volta appartenente alla Likud, il partito di Bibi, da cui ha deciso di staccarsi dopo una serie di scontri sulla linea politica del Primo Ministro. Lo scopo principale del partito é di risanare l’economia del paese, da un lato cercando di snellire il kafkiano apparato burocratico israeliano, al fine di agevolare l’imprenditoria locale, e dall’altro di smantellare il monopolio dei prezzi e delle banche, il cui 75% del denaro investito dai cittadini israeliani viene spartito tra le tre banche principali.

A rappresentare il partito si é presentato Shy Badad, numero 11 della lista, giovane imprenditore cresciuto tra Israele, Sud Africa, Regno Unito e Stati Uniti, che alla mia domanda risponde che l’unica soluzione possibile al conflitto é la divisione in due stati ma che “le colonie e Gerusalemme non si toccano!”.

E così arriviamo a destra. A rappresentare il Likud (“consolidazione”), il partito fondato da Begin nel 1973 e oggi guidato dall’attuale Primo Ministro Bibi Netanyahu, é Amir Ohana, numero 32 della lista, attivista per i diritti LGBTQ. Alla mia domanda risponde che “gli attacchi suicida sono cominciati proprio nel ‘93, parallelamente agli accordi di Oslo”.

Quindi quando gli chiedo quale soluzione suggerisce mi risponde che “non c’é soluzione”. Insisto domandandogli se forse, semplicemente, non stiano nemmeno cercando di trovare una soluzione ma lui mi risponde che “cerchiamo di fare il meglio possibile, ma quando ci si trova in un fiume circondati da coccodrilli l’unica soluzione é continuare a nuotare.” Gerusalemme e i Territori non vengono nemmeno menzionati.

Sempre a destra, a contendersi il podio, troviamo Israel Beitenu (“Israele, la nostra casa”) partito di matrice Revisionista Sionista, fortemente influenzato dalle ideologie dello storico Zev Jabotinsky e fondato nel 1999 dell’attuale leader, Avigdor Liberman. Anch’egli immigrato dall’ex Unione Sovietica dopo il suo crollo, ha fatto la sua fortuna politica facendo breccia proprio nei cuori degli immigrati russi, scappati dalla dittatura comunista che, spesso, vedono nell’economia liberista la soluzione alla maggior parte dei problemi economici di cui é caratterizzato il paese.

A rappresentare il partito si presenta il numero 16 della lista, Oded Forer, che ha lavorato per anni per il Ministro dell’Assorbimento, ovvero il ministero che si occupa di integrare i nuovi immigrati nella società israeliana: altro asso della manica su cui Liberman ha costruito il suo successo.

Alla mia domanda il candidato risponde che é necessaria la divisione dei due stati seguendo i confini proposti dalla risoluzione 181 dell’ONU del 1947 ma che é anche necessario integrare non soltanto le colonie a Israele ma anche la popolazione araba-israeliana nel Stato palestinese.

Campaign posters in the city of Sderot

Dal pubblico sorge spontanea la domanda: “e quale sara’ lo status degli arabi cristiani?” Forer risponde che non necessariamente deve essere prevista una continuità territoriale per ciascuno dei due stati (come in effetti previsto anche dalla risoluzione del ‘47) e che in ogni caso la questione dell’appartenenza identitaria verra gestita attraverso un referendum. Per quanto riguarda Gerusalemme, diventerebbe parte del territorio israeliano.

Arriviamo così all’estrema destra e al partito Habayit Hayehudi (“la casa ebraica”), il partito nazionalista religioso fondato nel 2008 e guidato Naftali Bennett. Il partito é noto per l’appoggio alle colonie e gli stessi membri della lista, salvo due uniche eccezioni, sono per gran parte religiosi ortodossi e coloni. Uno dei due candidati laici, Ronen Shoval, numero 16 della lista, trentatreenne che ha fatto carriera lavorando per la Jewish Agency, alla solita domanda mi risponde che la divisione in due stati “non é una soluzione praticabile perché la vera natura del conflitto non riguarda israeliani e palestinesi ma Islam e mondo civilizzato.”

Gli domando allora come definire lo status dei palestinesi e mi risponde che “sono liberi di governarsi da soli ma non possono avere un proprio esercito.” E per quanto riguarda l’Area C? “Rimarrà parte di Israele.” Alcuni partecipanti all’incontro la definiscono la soluzione dei “due stati e mezzo”. Di Gerusalemme neanche se ne parla e Shoval si congeda dicendo che “non ci sarà pace in Medio Oriente finche l’Islam non sarà democratico e le donne mussulmane non avranno gli stessi diritti degli uomini”.

Così si é concluso il mio “speed- dating”. Per fortuna non si tratta della ricerca dell’anima gemella con cui passare il resto dei miei giorni ma di decidere chi governerà per i prossimi quattro anni, salvo i soliti imprevisti, un paese segnato da una forte crisi non soltanto politica ma anche economica. Per fortuna o purtroppo, perché forse se si guardasse alla politica con una prospettiva di lungo periodo Israele non si troverebbe alla deriva a cui sta andando inesorabilmente.
Ma il mare ora é aperto e il 17 marzo scopriremo chi sarà il futuro capitano alla guida della nave. In attesa della prossima tempesta.

 

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