Pisapia scommette sul Laboratorio Milano

La politica è un servizio. L’ha ripetuto più volte Giuliano Piasapia, sindaco di Milano, nella conferenza stampa convocata in una domenica pomeriggio, per annunciare quello che ci si attendeva da tempo, la sua intenzione di non ricandidarsi nelle elezioni a sindaco del 2016.

L’aveva detto in campagna, l’aveva ribadito, però siamo onesti in molti fra i meno assidui ai corridoi di Palazzo Marino, forse speravano di poter riavere quel candidato.

Lo avrebbero forse criticato, all’inizio, per poi dover ammettere che il laboratorio inaugurato con la campagna elettorale della sinistra arancione è ancora oggi un esperimento valido.

Le grandi promesse, le grandi sfide, generano grandi aspettative. E la parola partecipazione, che solleticava le menti di cittadini sfibrati dalle angherie della destra a Milano, la capacità della base di supportare Giuliano Pisapia e quel modo umile e genuino di porsi davanti a un microfono e per le strade promettevano un miracolo, a Milano.

Ma la partecipazione non è cosa che ben si sposi con il sistema di democrazia rappresentativa, anche a partire dai meccanismi della burocrazia e dei regolamenti, che non coincidono. La partecipazione attesa è sfumata man mano che grandi problemi e una mole di lavoro complicata dall’artiglio dello Stato sulle tasse locali, pareggi di bilancio e tagli imposti soffocavano ogni possibilità di avere a disposizione quella riserva di fondi necessari per dimostrare fino in fondo come si può cambiare una città come Milano.

Pisapia non è stanco, ma rispetta quanto aveva detto. È, quindi, coerente. Pisapia indica la strada in alcune frasi del suo annuncio di mancata ricandidatura. La coerenza, virtù rara nel politico ai tempi nostri, ha subito qualche critica sulle modalità scelte e i tempi, soprattutto. Così di colpo una domenica pomeriggio a sorpresa. E a poche settimane dall’inizio di Expo, nonostante lo stesso sindaco avesse più volte promesso che avrebbe sciolto ogni dubbio proprio prima dell’inizio dell’Esposizione universale.

Quattro anni fa la politica italiana stava da un’altra parte. Oggi è il tempo di Renzi e Milano è il simbolo di un esperimento politico che regge e che, a registrare qualche reazione da chi la Giunta la frequenta, ha visto una squadra di assessori cementare i propri rapporti e uno stile di lavoro.

È il riferimento che Pisapia indica quando parla di una classe dirigente che si è formata. L’indicazione, accennata nel giorno di un annuncio personale, potrà essere d’ora in poi resa ancora più esplicita per dire che il laboratorio arancione ha funzionato e che il futuro per la città di Milano passa ancora da un insieme di forze progressiste e di partecipazione popolare.
Ma qui il nome del candidato o della candidata saranno particolarmente importanti, proprio per la capacità di Pisapia di presentarsi come un professionista di ato livello, capace di un’operazione di unione e di coinvolgimento come raramente si erano viste in città (non diciamo mai, perché con Nando Dalla Chiesa candidato ci fu un movimento simile).

I nomi, che saranno decisivi, adesso non sono importanti. Majorino, Taiani, De Cesaris, o il renziano Fiano, Scalfarotto: il carosello è appena iniziato. Adesso è importante capire se il laboratorio, il progetto politico che diviene l’eredità di un profeta che lascia dopo un mandato sarà capace di resistere alle angherie dei giochi politici.

Su Repubblica Orianna Liso, cronista di esperienza da Palazzo Marino, mette in relazione i tempi piuttosto eccentrici della comunicazione del sindaco proprio con manovre e manovrine, piccoli veleni, trame in costruzione, quasi a voler fare tabula rasa e far entrare la luce del sole sui movimenti che riguardano la poltrona del sindaco di una delle città italiane più importanti perché simbolo, storicamente, e oggi emblema di un esperimento diverso, che ha retto a diversi urti, anche interni.

Renzi, Sel, la Milano che si mobilitò, i quattro anni e il percorso di quanto è stato fatto e quanto resta da fare: forse l’unico appunto che si può muovere a una decisione coerente è che per arrivare davvero a far partecipare – il che presuppone una pedagogia della partecipazione e dei suoi meccanismi politici – due mandati sarebbero stati utili. Non che non possa riaccadere con la stessa squadra – non proprio la stessa, ma simile – eppure in questi caso avere una leadership che non cambia nemmeno nome e cognome è un fatto che aiuta nella continuità.
In fondo c’è una grande sfida che riguarda un Pd ormai a immagine e somiglianza del segretario, opposizione interna sparsa, e un laboratorio sociale in costruzione a livello nazionale.

La corsa non la faranno i partiti. Quella voglia di partecipare, per mille motivi che sarà bene analizzare, è rimasta insoddisfatta. Chi saprà riaccenderla?



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