Un Lampo a ciel sereno. Bologna #2

Quale partecipazione? Il caso del passante di mezzo a Bologna

di Elisabetta Capelli

Quando, all’interno di Lampo, abbiamo iniziato a discutere di politiche dal basso avevamo alcuni punti fermi che ci ancoravano alla nostra formazione universitaria in antropologia. La teoria della pratica di Pierre Bourdieu e il suo concetto di habitus, la distinzione tra tattiche e strategia di Michel De Certeau, le alterpolitiche di Michael Foucault.… Che si trattasse di esperienze di ricerca, di attivismo e militanza o di entrambe, le nostre discussioni erano sostenute e accomunate dall’interesse per ciò che nasce dalle periferie.

Del resto, Levi-Strauss affermava che l’antropologo è un chiffonier, uno straccivendolo che rovista nei bidoni della storia; per Marshall Sahlins, è un viaggiatore che si addentra nelle periferie dell’umanità.

Quando lo studente di antropologia esce dal tracciato universitario e si scontra con la difficoltà di inserirsi nel mondo del lavoro fa esperienza anche di questo: essere portatore di una disciplina che da sempre rivolge uno sguardo privilegiato ai margini, nel quadro di un’economia finanziarizzata che li produce e poi li rimuove dal proprio campo d’interesse, o almeno tenta di farlo finché non le si risollevano contro. Ecco allora che gli antropologi sono chiamati a interpretare i radicalismi delle seconde generazioni di migranti, a commentare il ritorno dei populismi, a lavorare “nel sociale”, là dove le società stesse generano i propri esclusi.

Nel perimetro dell’antropologia, però, non rientra solo questo.
C’è la comprensione delle dinamiche istituzionali, di come le politiche filtrano o rimbalzano dall’alto al basso e viceversa: c’è l’antropologia pubblica. Tra gli ambiti di esercizio capaci di riservare alla disciplina uno spazio promettente in questo senso, anche attraverso collaborazioni interdisciplinari, c’è sicuramente quello della pianificazione urbana.

La pianificazione delle città, che nella storia occidentale nasce come strumento di controllo sociale, nell’epoca della globalizzazione ha infatti intrecciato un rapporto per nulla pacificato con l’economia neoliberista, che guarda alle città come a oggetti di investimento finanziario, a dispetto della loro connotazione sociale e relazionale. Tra le manifestazioni di questo corso si inscrive a pieno titolo la declamata mancanza di risorse per il welfare urbano a fronte di impazienti disponibilità per la realizzazione delle cosiddette grandi opere.
Le grandi opere sono espressione comune per indicare un elenco di infrastrutture alla cui realizzazione diede impulso la Legge 443/2001, meglio nota come Legge Obiettivo.
Da allora ad oggi la situazione è in parte cambiata: la legge stessa è stata abrogata, di molte opere si è persa traccia. Resta il progetto Connettere l’Italia, con l’allegato al Documento di programmazione economica e Finanziaria – il cosiddetto DEF – che ogni anno comprende la lista degli interventi confermati.

Il claim adottato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze nel documento 2017 è che le infrastrutture debbano essere non solo “utili”, ma anche “condivise”.

Nell’epoca della partecipazione senza politica, la condivisione passa per processi di coinvolgimento dei cittadini, non importa se finanziati dai proponenti delle opere stesse.
È qui che si inserisce, tra gli altri, il caso del Passante di Mezzo di Bologna, o, in termini tecnici, il progetto di «Potenziamento in sede del sistema autostradale e tangenziale» del capoluogo emiliano.
Qui si inserisce il «confronto pubblico» finanziato da Autostrade per l’Italia per la «partecipazione e ascolto» dei cittadini in relazione al progetto.

La tangenziale dietro le barriere acustiche

Che cos’è il Passante di Mezzo?
È un’infrastruttura le cui ragioni affondano nella volontà di decongestionare il traffico sul sistema tangenziale e autostradale di Bologna, città notoriamente posizionata allo snodo della rete di trasporto italiana.
Rappresenta inoltre l’ultimo capitolo di un’intricata storia di politica locale e non solo, che ha avuto inizio più di dieci anni fa, nel 2004. All’origine, infatti, c’era un altro progetto, il Passante Nord: un nuovo tracciato autostradale di 40 chilometri a due corsie di marcia per ciascuna carreggiata più la corsia d’emergenza, che avrebbe dovuto lambire le campagne bolognesi toccando undici Comuni: una colata di cemento, di cui, ad un certo punto, anche l’assessore all’Urbanistica di Bologna – che prima di svolgere l’incarico era stata direttore del Dipartimento di architettura e pianificazione del Politecnico di Milano – aveva rilevato la non fattibilità.

Ai cittadini che chiedevano conto dell’abbandono del progetto per anni perorato dalle amministrazioni locali, i tecnici rispondono tuttora che la crisi economica ha comportato una tale riduzione del traffico autostradale da rendere superflua un’infrastruttura di tale portata.
Non dicono però che la Commissione europea aveva sottolineato a chiare lettere che la realizzazione di un’opera di tali dimensioni doveva necessariamente passare da una gara d’appalto e non da un affidamento diretto alla società Autostrade per l’Italia, come fino a quel momento previsto.

È così che, gradualmente, prese consistenza l’ipotesi di un progetto diverso, che non prevedesse una nuova infrastruttura, bensì una variante di un tracciato esistente, tale da non ricadere nel vincolo relativo all’affidamento. Nasce l’ipotesi del Passantino, in relazione al quale uno dei sindaci dell’hinterland bolognese ebbe a evocare «la nostra Val di Susa».
Lo stop definitivo arrivò nel novembre 2015, dopo un lungo incontro nella sede locale del Pd tra i sindaci dei Comuni toccati dal progetto, nonostante l’assessore regionale ai Trasporti dello stesso partito continuasse a sostenere che il Passante era da realizzare, mentre su Il Sole24Ore si commentava che un’opera di rilevanza nazionale non poteva dipendere dalle decisioni prese «tra Castenaso e Calderara».
Nessuna convergenza, dunque, tra l’istanza di «interesse pubblico» attribuito all’opera e il diritto alla città rivendicato e difeso da quanti sarebbero stati coinvolti dalla sua realizzazione.

Sotto il cavalcavia di via dell’Arcoveggio. Aree a rischio esproprio

Lo scenario cambia ancora e si arriva a poco più di un anno fa. È aprile del 2016 quando i giornali locali battono l’annuncio: «è davvero fatta». Il premier Renzi, in visita in città, si accinge a firmare l’accordo per la realizzazione dell’infrastruttura insieme ai rappresentanti di Autostrade per l’Italia S.p.A. e alle autorità locali. Non si tratta più, però, del Passante Nord: è un progetto nuovo, il Passante di Mezzo.
Dopo dieci anni di contrattazioni e rinvii, la soluzione all’improvviso pare dietro l’angolo.
La decisione «è presa», commenta alla stampa il sindaco di Bologna, salvo fare riferimento ai successivi quattro mesi di confronto pubblico che aspettano i cittadini perché «siamo abituati a lavorare così», sotto il richiamo della democrazia. In realtà conta anche il richiamo delle elezioni comunali che si sarebbero tenute nemmeno due mesi dopo, così come l’imminente entrata in vigore del Nuovo codice degli appalti, che rischiava di complicare nuovamente l’affidamento diretto ad Autostrade per l’Italia.
Dunque, la decisione era presa, ma…

Ecco a voi la partecipazione
A differenza della versione a nord, il Passante di mezzo si candidava a coinvolgere in pieno gli abitanti delle periferie bolognesi, attraverso espropri di terreni e di case, anni di cantierizzazione, polveri e disagi.
Le grandi opere sono importanti, ma anche il consenso politico. I cittadini devono essere «ascoltati».
Il collettivo di scrittori Wu-Ming ha scritto un reportage per Internazionale efficacissimo nel gettare luce sull’ipocrisia di tutto quanto ne è derivato.

È così che i cosiddetti facilitatori pagati da Autostrade per l’Italia nel corso di cinque incontri aperti alla cittadinanza hanno accompagnato anziani e meno anziani alla riformulazione dei propri dubbi e proteste sotto forma di domande e proposte, in modo funzionale al progetto e al suo cammino già spianato. È così che cittadini sempre meno abituati a far valere i propri diritti in modo organizzato si sono trovati mediati da un filtro sociale deliberatamente disposto a depotenziarne la capacità d’opposizione e di coesione.

Sul sito web dedicato a questo «confronto pubblico», il «quaderno degli attori», espressione ben poco in sintonia con il decantato obiettivo di tradurre il progetto in termini comprensibili a tutti, dà ben conto di questa normalizzazione, della trasformazione del dissenso in «contributo».
Mette in scena esclusivamente la posizione di chi ha saputo e voluto formalizzarla. Compaiono anzitutto le istanze inviate da comitati, rappresentanti di categoria, associazioni.
Compaiono anche alcuni nomi e cognomi di singoli cittadini: alcuni, dietro a grafici e tavole urbanistiche elaborate in modo più o meno artigianale, tradiscono l’identità di professionisti che lavorano nel settore.

Della platea di persone che hanno partecipato ai cinque incontri di «confronto pubblico», del loro punto di vista, non c’è traccia. Restano i report degli incontri, che come da perfetto manuale del facilitatore, riferiscono solo le domande del pubblico, tassativamente declinate in forma di «è possibile?», «è vero che…?», «come è possibile che?». Si chiamano domande retoriche, perché attingono a risposte predeterminate. Intorno a quei tavoli di discussione la partecipazione è servita o, forse sarebbe meglio dire, è diventata serva.

Altro aspetto rilevante è che tra i contributi dei «portatori di interesse» – cittadini, a quanto pare, non è lessico della partecipazione – la trasformazione del «no» in «sì» a condizione che, avviene sempre a discapito di qualcun altro. Il Passante di mezzo è una miniera per chi nutra interesse verso il cosiddetto fenomeno «Not In My Back Yard», ovvero «non nel mio giardino».

Ai margini della tangenziale di Bologna, via della Campagna

Non è un caso che, a plaudere all’accordo sottoscritto per il Passante di Mezzo, fossero in prima linea anche i membri del Comitato “No Passante Nord”, il cui nome nel tempo era slittato in Comitato per l’Alternativa al Passante Nord. All’inizio avevano persino rivendicato che il tracciato del nuovo progetto fosse proprio quello proposto da loro, salvo poi fare un passo indietro. Del resto, anche tra le voci contrarie al Passante di Mezzo qualcuno evoca un Passante Sud e la relazione finale scaturita dal confronto pubblico lo nomina: potrebbe sembrare un rimpallo a tratti grottesco tra punti cardinali, ma a livello politico e urbanistico è qualcosa di ben più serio.
In passato, anche solo l’ipotesi progettuale di spostare un’opera di questo tipo da una parte all’altra del territorio sarebbe risultata impensabile. Oggi, questo accade per giunta in una regione a cui è storicamente associato il buon governo del territorio, e che ha recentemente approvato il disegno di una nuova legge urbanistica, accolta come il trionfo del consumo di suolo zero. In realtà, quasi zero.

Titolo III, capo I, articolo 5: «il consumo di suolo è consentito esclusivamente per opere pubbliche e opere qualificate dalla normativa vigente di interesse pubblico e per insediamenti strategici volti ad aumentare l’attrattività e la competitività del territorio, nei soli casi in cui non esistano ragionevoli alternative consistenti nel riuso di aree già urbanizzate e nella rigenerazione delle stesse».

È la conferma del regime di eccezione di cui continuano a beneficiare le grandi opere di «interesse pubblico». Non ci sono risorse per il welfare urbano; non ci sono risorse per la manutenzione della viabilità secondaria né per il potenziamento del trasporto pubblico; le cosiddette aree interne, le aree più difficoltosamente raggiungibili e dunque ai margini della redditività economica, sono sostanzialmente abbandonate a loro stesse. Ma per le grandi opere la strada deve essere spianata.
L’unico limite possibile discende dalla valutazione del loro impatto ambientale: non per niente, ora tutto il dibattito sul Passante di Mezzo verte su questo fronte.

Sulla bacheca, l’avviso di un incontro del Comitato di via della Campagna contrario al Passante

La progressiva cancellazione delle regole dell’urbanistica ha portato, in tutta Italia, a una situazione per cui la trasformazione dei territori è affidata prioritariamente alle negoziazioni: si misura di volta in volta, progetto per progetto, con gli interlocutori privati, i grandi finanziatori della città neoliberista. A fronte di questo scenario, l’iniziativa dal basso rappresenta un cruciale baluardo di resistenza. A patto, però, di configurarsi come azione accorta, capace di giocare su un altro piano, non quello delle alternative che spostano il problema più in là, nel campo dei vicini.

Per fare questo serve coordinamento, serve che l’iniziativa dal basso diventi politica dal basso.
Quando, all’interno di LAMPO, abbiamo iniziato a discutere di questi temi, condividevamo la sensazione che il percorso accademico ci avesse sì formati alla capacità di analisi e all’esercizio critico, ma che mancasse qualcosa. A distanza di tempo, possiamo forse dire che mancava la dimensione pubblica.

Non è limitandosi a raccogliere la voce di chi sta ai margini delle scelte politiche che gli si conferisce centralità: la ricerca deve saper fornire un orientamento, in questo senso è sempre militante.

Il caso del Passante di mezzo è certamente uno tra altri, ma dietro alla sua valenza apparentemente locale, riflette spinte che attraversano tutta la società e rappresenta un banco di prova per mettere a fuoco questioni centrali per chi si interessa di ricerca, politica e città.

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