Introduzione

Il 18 novembre 2013, a Kiev e altrove in Ucraina, le manifestazioni anti-governative (fino a quel momento pacifiche) vengono attaccate dalle forze speciali e dalla polizia e reagiscono.

Quella che era cominciata come una mobilitazione dei cittadini contro il governo in carica, lentamente, porta all’annessione della Crimea da parte della Russia e a un conflitto militare al confine orientale del paese nella zona del Donbass.

Le aree a maggioranza russofona sotto una forte influenza russa, oggi, sono diventate la “repubblica popolare di Luhansk” e la “repubblica popolare di Donetsk”. Il resto dell’Ucraina ha appena eletto come presidente della Repubblica Volodymyr Zelens’kyj, un comico, che ha interpretato il ruolo del presidente ucraino nella serie Il servo del popolo.

Nonostante vari tentativi e incontri dei capi di stato di Ucraina, Russia, Germania e Francia, a Minsk, a febbraio del 2015 e poi a Parigi a dicembre del 2019, tutta l’area orientale dell’Ucraina fino ad oggi vive in profonda instabilità e incertezza dall’aprile del 2014.

Lo scenario che si sta giocando nel Donbas richiama molto quelli visti in regioni come la Transnistria in Moldavia e l’Ossezia in Georgia. “Un conflitto a bassa intensità”, “un conflitto congelato”, che tuttavia ogni giorno riporta forti violazioni dei diritti umani, segnalati in continuazione dall’OSCE.

Questo speciale di Q Code Mag nasce per tenere viva l’attenzione su una storia che non è finita, e si affida a Maria Izzo, russista di formazione, e Yaryna Grusha, pubblicista e traduttrice, docente della lingua e letteratura ucraina all’UNIMI.

Sarà un racconto di racconti, una raccolta di voci, qualche segnalazione di lavori interessanti. Come ogni lavoro giornalistico non ha alcuna ambizione di esaustività, ma solo il dovere dell’attenzione.

Buona lettura,
la redazione di Q Code Mag
P.S. Abbiamo scelto questo titolo in onore dello scrittore ucraino Serhii Zadan, originario dell’Est Ucraina, e del suo romanzo più celebre Internat (Il Convitto), dove la realtà ucraina è definita un ‘convitto’, un posto dove tante persone senza radici vengono sistemate e poi abbandonate.

Dal fronte del Donbass
Che cosa c'è di normale in una guerra?

di Maria Izzo

In principio fu il caos. La piazza in rivolta, a Kiev, per tutto l’inverno, le barricate, i feriti, i morti, l’orrore nelle strade, sotto gli occhi delle telecamere e sulle pagine dei giornali. Poi, nel febbraio 2014, la fuga del presidente Janukovich, le elezioni, un nuovo governo  e il caos che non accenna a calmarsi. Anzi, al contrario, dilaga anche fuori dalla capitale. Una faglia si apre lungo tutto il paese –  l’Ovest da una parte, l’Est dall’altra – la terra si spacca e  la vita delle persone che la abitano si frantuma in mille pezzi.

Karine era una studentessa ai tempi.  Dagli uffici della Croce Rossa Internazionale di Sloviansk, dove oggi lavora, ricorda il momento in cui, verso la fine della primavera,  la guerra è arrivata nella sua città, Donetsk. Non si può dire, racconta, che il conflitto abbia colto le persone di sorpresa, ma questo non ha reso meno fosche le tinte della tragedia di chi, fino all’ultimo aveva rifiutato l’idea che quell’orrore potesse davvero accadere.

E invece l’orrore è accaduto. Donetsk è diventata un girone infernale di fuoco e macerie. La casa di Karine è rimasta miracolosamente in piedi, ma il suo nucleo familiare, nel tentativo di cercare di sopravvivere, si è disperso per strade diverse. Karine si è spostata a Vinnitsya nella parte occidentale dell’Ucraina, per proseguire i suoi studi. Da sola. Anzi, no, ci tiene a precisare. Con lei c’era Sofia, il cane che l’ha seguita anche a Sloviansk.

Poi, con il tempo, il fuoco e il frastuono si sono diradati. Le telecamere si sono voltate altrove e la parola Ucraina è scivolata via dalle pagine dei giornali, dalle news, dai tweet, come se la guerra non esistesse, come se fosse tutto ormai tornato “normale”.  Conflitto a bassa intensità, lo chiamano gli specialisti.

In effetti i colpi di mortaio non sono più fitti e incessanti come un tempo. Su questi territori non si rovesciano senza sosta  le piogge di missili o di bombe sganciate dall’alto, racconta Silvia, che è arrivata a Sloviansk a lavorare per  la Croce Rossa Internazionale nel 2018. Tuttavia,  prosegue, “le manifestazioni di ostilità sono quotidiane e impediscono alle persone una vita normale”. La vita di un essere umano, infatti, può essere messa in pericolo in molti modi, alcuni a volte banali, ma non per questo meno violenti.

Il conflitto, anche se non fa più tanto rumore, è un’ombra tentacolare e pervasiva che si insinua sotto la pelle del territorio e lo avvelena, lo paralizza, lo rende inerte. Inerti sono le fabbriche che un tempo facevano di Donetsk il centro economico principale di tutto il Donbass, inerte è il mercato del lavoro, inerti sono molte delle normali, ordinarie attività umane, immerse nell’atmosfera immobile di un’area dove oggi vivono, pericolosamente a ridosso della linea del fronte, principalmente persone anziane. Babushke, nonne, dice Silvia, che non hanno lasciato le case perché probabilmente il legame con la propria terra è tutto quello che hanno.

La terra, però, non si dimostra generosa nei loro confronti, anzi, a volte può essere una minaccia, soprattutto quando è coperta di mine. La densità degli ordigni è altissima e questo rende estremamente difficili gli spostamenti in questo lembo di terra dove le cittadine dall’aspetto di sovietica memoria si alternano a villaggi di campagna quasi interamente spopolati.

La normale mobilità è ingabbiata dall’isolamento, creato dalla condizione delle strade, distrutte dal conflitto e mai ripristinate, e dalla presenza della linea del fronte, in alcuni casi taglia in due il territorio, passando a volte attraverso villaggi e impedendo alle persone che li abitano l’accesso a servizi e infrastrutture situate nella zona opposta.

Così accade che gli abitanti non riescano a raggiungere il mercato, le farmacie, gli ambulatori, gli ospedali. E ovviamente le scuole, dove i bambini studiano con il sinistro sottofondo degli spari.

La linea del fronte è aperta al passaggio solo attraverso determinati varchi. Sono cinque in tutto i check-point, attraverso i quali le persone sono costrette a transitare per sbrigare questioni ordinarie di vita quotidiana: pensioni, operazioni bancarie, burocrazia. Ogni giorno attraverso i check-point con maggiore affluenza si spostano circa 10mila persone. Ma il passaggio è tutt’altro che semplice. Le file per il controllo dei documenti possono essere eterne. E fatali, quando le attese si consumano nel freddo che raggela l’Ucraina nei lunghi inverni.

E non c’è emergenza che tenga. Le costrizioni logistiche valgono anche se a dover passare sono le ambulanze. L’accessibilità ai servizi sanitari è una delle questioni più urgenti. Da alcuni punti il trasporto verso i servizi sanitari è garantito da un autobus che transita saltuariamente. Nel mentre, chi si ammala può contare solo sul buon cuore, mai troppo scontato, di vicini e conoscenti o sul supporto di iniziative umanitarie, che qui non hanno il compito di arginare la furia di un’apocalisse bellica, ma intervengono per sanare dei vuoti meno visibili, meno clamorosi, ma non per questo meno allarmanti.

Lo stesso tipo di problematiche affliggono l’accesso ad altri tipi di servizi, alcuni fra i più basilari e ordinari, come la fornitura di energia elettrica o di acqua, compromessa dai danni che il conflitto ha causato alle strutture della rete.

Ad aggravare la situazione, è la posizione stessa delle infrastrutture, che attraversano la “zona grigia” a ridosso del fronte e che sono, per questa ragione, continuamente esposte al rischio di nuovi danni. Senza considerare il fatto che intervenire in un simile contesto sarebbe estremamente problematico per la sicurezza degli operai coinvolti nella riparazione.

Anche nel caso della fornitura elettrica, per cercare di ripristinare almeno a tratti il servizio, può rendersi necessario l’intervento delle organizzazioni umanitari, come è accaduto nel villaggio di Opytne, dove delle circa quaranta persone, per la maggior parte anziane, alcune vivono negli scantinati. Sono stati donati pannelli solari, ma non sono in grado di garantire copertura totale e di restituire continuità alla rete dei servizi che sembra riflettere con drammatica puntualità le attuali condizioni del territorio del Donbass: lacerato, precario, immobilizzato.

Conflitto a bassa intensità, lo chiamano, ma in questa etichetta quasi rassicurante non risuona neanche lontanamente l’eco della tensione, dell’oppressione, della subdola violenza che stringono come trappole invisibili e fatali un intero territorio, dove la normalità non esiste più, se non come immagine riflessa nello specchio del suo contrario.

Normale, ormai, dopo anni di ostilità protratte, è il conflitto. Ma può essere un conflitto considerato normale? Karine, che ha visto l’orrore sulla sua terra e ancora ogni giorno tocca con mano le sue ferite, ha le idee chiare. Cosa ci può essere di normale in una guerra, dice “Normale è come era prima”.

The Wrong Place
Un'inchiesta indipendente

Questa storia ha avuto inizio il 24 maggio 2014 a Sloviansk, nell’est dell’Ucraina in guerra.

In un fosso vicino a un passaggio a livello, muoiono i colleghi Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.

Di quei drammatici fatti rimangono qualche scatto fotografico, un video e un uomo condannato a 24 anni di carcere. Da qui parte un lavoro di inchiesta durato mesi per cercare di chiarire cosa sia veramente successo quel giorno.

Il lavoro di Cristiano Tinazzi, Olga Tokariuk, Danilo Elia e Ruben Lagattolla.

La guerra da narrare
Un nuovo punto di partenza per la letteratura ucraina

di Iaryna Grusha Possamai

Dove domina l’esperienza traumatica e distruttiva nel comportamento e nella coscienza di una società afflitta dalla guerra, come in Ucraina, la letteratura diventa una zona di lotta sulla propria identità: dell’estrema esigenza di raccontarsi e descriversi che pone un inizio alle nuovi narrazioni.

Gli eventi del 2013-2014 e quelli in seguito, sono stati rivoluzionari non soltanto per la vita sociale e politica, ma anche per la cultura ucraina, specialmente per la sua letteratura. La strada che intraprese il paese, scendendo in piazza per una protesta civica, porta alla ricerca dell’autodefinizione, che non viene interrotta, ma anzi intensificata con l’offensiva dell’esercito russo in Crimea ed Est Ucraina che inizia nel 2014.

Mentre i soldati combattevano in trincea, nella capitale ucraina Kyiv la guerra contro il colonialismo russo, si faceva nelle istituzioni. Vengono creati l’Ukrainian Institute e Ukrainian Book Institute, vengono stabilite le politiche protezioniste con le condizioni favorevoli per il mercato letterario in lingua ucraina, dando il supporto alla costante presenza degli stand ucraini nelle varie fiere internazionali di libri, che quest’anno purtroppo sono state rimandate per le ragioni note.

In sei anni di guerra che domina l’esistenza odierna degli ucraini, vari scrittori, ognuno a modo suo, ha cercato di dare una spiegazione ai concetti improvvisamente resi attuali: guerra, sfollati, reduci, trauma post bellico, confini, patria, separatismo, lingua madre.

Il libro più atteso sulla guerra attuale era, senza alcun dubbio, il romanzo Internat (Il Convitto) del più celebre scrittore ucraino Serhii Zadan, originario dell’Est Ucraina. Il libro, di cui si è molto parlato ancor prima della sua pubblicazione, anche in virtù dell’aura profetica di cui gode il suo autore, da tempo impegnato in attività benefiche nelle zone di guerra, in realtà ha sollevato più domande che risposte. Già dal secondo capitolo, lo Zadan di Voroshilovgrad (La Strada del Donbas, Voland, 2016) e Mesopotamia svanisce, ed il lettore si trova al cospetto di una inedita variante della prosa del suo scrittore preferito: veloce, secca, priva delle abituali metafore zadaniane, ricca di dettagli visivi. Sembra quasi la sceneggiatura di un film, divisa in scene, e scritta tra viaggi volontari nel Donbass, la casa dello scrittore a Kharkiv, il tour con la rock band Sobaky v kosmosi e, non ultimo, il solitario lavoro dello scrittore.

La realtà ucraina è definita un “convitto” (Internat), un posto dove tante persone senza radici vengono sistemate e poi abbandonate, un posto dove il trentacinquenne protagonista Pavlo, un insegnante di lingua ucraina, va a recuperare il nipote Sasha, il figlio della sorella gemella rimasto oltre la linea del conflitto nell’est dell’Ucraina. Da quando è scoppiata la guerra, Pasha (diminutivo di Pavlo) non ha mai preso le parti di nessuno. Un po’ come nella sua vita, dove non ha mai preso le parti di nessuno, non ha mai avuto la passione verso qualcosa, nemmeno per il suo lavoro. E proprio di questo verrà accusato da Nina, la giovane insegnante del convitto, secondo la quale l’indifferenza e l’ignoranza di tanti come lui hanno reso possibile la situazione bellica attuale. Questi tre giorni di viaggio rappresentano un ideale percorso di iniziazione che dovrà far cambiare idea a Pasha, ma anche a tutti i lettori che fino adesso hanno evitato di schierarsi.

In questo romanzo Zadan osserva più che riflettere, descrive le cose più che definirle. Una prosa che racconta una guerra non ancora finita forse dovrebbe essere proprio così: impulsiva e veloce, finché il tempo e la distanza non porranno le condizioni per una più attenta riflessione. Tuttavia, forse una maggior distanza avrebbe evitato anche molti dei difetti di questo testo.

Forse la storia più riuscita sulla guerra appartiene alla tastiera dello scrittore Volodymyr Rafejenko, originario di Donetsk, città rimasta molto colpita dalla guerra. Rafejenko, scrittore di lingua russa che principalmente pubblicava in suoi libri in Russia, dopo l’inizio della guerra, si trasferisce nella capitale Ucraina, Kyiv, dove passa all’ucraino come lingua della scrittura e di conversazione.

Tuttavia il romanzo sulla guerra Dolgota dnej (“I tempi lunghi”) esce ancora in russo con la traduzione in ucraino eseguita da una delle più importanti esponenti della letteratura ucraina Marjana Kijanovs’ka
(Dovhi časy) offrendo al lettore un’analisi della situazione ibrida nella sua città natale afflitta dalla guerra.

Sicuramente, la parte meglio riuscita del romanzo sono le favole del personaggio Veresajev che con gli esempi concreti descrivono la situazione nella Donetsk di Rafejenko: il personaggio di Suškin, che trova il riparo nel corpo della sua amata Ljusja, meditando per giorni scappare o non scappare dalla città sotto i bombardamenti, e alla fine perde Ljusja per sempre per un colpo dell’ascia di qualche ladro disperato alla ricerca dei viveri; o il personaggio di Ljena, presa dal litigare in continuazione con il suo ex al telefono, che cerca di convincerla a salvarsi dalla guerra, trasferendosi nei posti più tranquilli. Il giorno che Ljena scappa dalla città, il suo autobus viene bombardato dai militari russi, non lasciando lo scampo a nessun passeggero.

Invece il lato ancora più assurdo della guerra è presentato dal soggetto principale del romanzo, dove una sauna si trasforma in un posto di giustizia per gli occupanti, raccontato nella maniera carnevalesca con i tratti di classica prosa post-sovietica degli anni ’90: Andrukhovych, Peljevin, che forse è lo stile un po’ obsoleto per narrare gli anni ’10 dei duemila. Nel suo primo romanzo in lingua ucraina Mondehrin, attenendosi sempre lo stile carnevalesco, Rafejenko parla della sua esperienza da sfollato, da esploratore di un nuovo territorio che potrà o meno diventare una casa per un studente della lingua ucraina.

Tuttavia, Rafejenko rimane uno degli scrittori ucraini più interessanti nella sua continua ricerca e sperimentazione letteraria.
Al contrario di Zhadan e Rafejenko, la giovane scrittrice leopolitana Victoria Amelina nel suo romanzo Dim dlja doma (Den for Dom) decide di parlare delle guerre passate per trovare una spiegazione alle guerre presenti. Amelina costruisce un soggetto vasto geograficamente e eventualmente, raccontando la storia della famiglia del colonnello Tsilyk, racchiusa in un piccolo appartamento a Leopoli, dove tra l’altro ha vissuto il noto autore di romanzi fantascientifici e filosofici Stanisław Lem.

Dopo la fine dell’Unione Sovietica, il colonnello si è visto costretto a rimanere a vivere a Leopoli, nell’appena proclamato stato di Ucraina, insieme alla moglie, conosciuta a Baku, e le due figlie. Entrambe le figlie sono divorziate, entrambe hanno una figlia, ed entrambe si chiamano Maria. La storia è raccontata dal punto di vista del loro cane che, come la famiglia di Tsilyk, è finito a vivere per puro caso nell’appartamento di Leopoli. La vicenda di Tsilyk, originario di Kharkiv, osteggiato per via della madrelingua russa, detentore di molti segreti gelosamente custoditi in una cassapanca, diventa paradigmatica dell’atmosfera sociale e culturale della Leopoli degli anni ’90.

Amelina ci racconta la Leopoli ibrida del primo decennio post-sovietico attraverso i piccoli dettagli quotidiani che forse solo un cane può notare –  gli odori, gli oggetti della casa, il calendario sulla parete, i rumori della radio. Gli eventi che si susseguono sono quelli con cui tanti ucraini si sono dovuti confrontare almeno una volta nella vita: i soldi mancanti per un’operazione importante, le bustarelle agli insegnanti per ottenere un voto più alto, un misero lavoro come commessa in uno dei tanti chioschi gestiti dalla mafia locale che negli anni ’90 spuntavano come funghi, la scelta di una professione che non piace solo perché c’è bisogno di soldi, o perché si è riusciti a corrompere qualcuno, l’emigrazione all’estero alla ricerca di una vita migliore.

La durezza del vivere quotidiano porta i protagonisti a cercare la fuga in una realtà alternativa e a riscrivere il passato per sopravvivere al presente. Victoria Amelina ricostruisce quel tassello del passato che manca alle giovani generazioni e con questo la scrittrice definisce in particolare i temi con i quali lavorerà nei testi futuri.

Un’altra scrittrice ucraina Has’ka Shyjan, nonché la vincitrice del European Union Prize for Literature, nel suo romanzo Za spynoju (Dietro la schiena) crea il personaggio di giovane Marta, che a tutti i costi cerca di non rimanere coinvolta nella guerra, da quando suo ragazzo riceve la chiamata per arruolarsi nell’esercito ucraino e decide di partire per compiere il suo dovere civile. Ogni giorno rimanere non coinvolti nella Leopoli, la città dove si svolgono gli eventi anche del romanzo di Amelina, diventa sempre più difficile tra le vedove con i piccoli bambini, i soldati disabili ritornati dalla guerra, tra i volontari e i manifesti politici. Per rimanere nella sua illusione, Marta decide di partire per l’Europa, dove il suo non coinvolgimento viene schiacciato in pieno tra gli attacchi terroristici in piazze europee.

Il romanzo di Shyjan è scritto in pieno ritmo della prosa europea femminista con il personaggio di Marta, con l’attenzione joyciana ai dettagli della vita quotidiana, a prima lettura potrebbe essere troppo vitale, reale e azzardato per il lettore ucraino, ma sicuramente molto necessario per il processo letterario per sé.

La guerra è una realtà che stravolge il quieto vivere non solo di uomini e donne, personaggi maschili e femminili, ma anche dei bambini ai quali nel loro libro La guerra che cambiò Rondo si rivolgono Andrij Lesiv e Romana Romanyšyn aka Art Studio Agrafka famosi in Italia soprattutto per loro libri Forte piano in un sussurro e Vedo non vedo stravedo, vincitori di Bologna ragazzi award-2018.

La guerra che cambiò Rondo parla di una guerra che non ha il cuore e che non capisce nessuna lingua, ma tocca tutti, lasciando le cicatrici indelebili. Ma costruendo una macchina della luce ed imparando a cantare nonostante tutto, possa aiutare a resistere anche le persone più fragili. Gli autori di Art Studio Agrafka, come al solito si rivolgono al pubblico dei ragazzi trattandoli come un interlocutore equo.

Mettendo in tavolo la discussione sui concetti seri, scelgono di raccontarle con l’immagine e con il colore, che il modo più adatto ad un bambino, ma sicuramente che trova il richiamo anche in un lettore adulto.

*Alcune parti di questo testo sono state riviste da Maria Grazia Bartolini

Dieci secondi: come la guerra cambia la vita
Intervista alla documentarista Julia Hontaruk

di Iaryna Grusha Possamai

Julia Hontaruk, una regista documentarista ucraina, che con la sua cinepresa ha fatto da mediatrice tra gli eventi, che hanno avuto un inizio in Ucraina alla fine di Novembre del 2013, con tutte le conseguenze drammatiche con le quali conviviamo ancora oggi, e gli spettatori che cercavano nei suoi film le risposte, un conforto e un supporto.

Parliamo con Julia via Skype, in una sala di montaggio dove lavora al suo ultimo film. Le chiedo di spingere un pulsante virtuale Rewind e tornare sei anni indietro. Possono essere tanti o pochi.

Novembre 2013: il presidente ucraino in carica Victor Janukovych non firma l’accordo di associazione con l’Unione Europea, il che porta alle proteste in piazza. Una di queste proteste finisce con la forzata rimozione dei manifestanti da parte delle polizia e delle unità speciali. Il giorno dopo inizia la Rivoluzione che in seguito verrà chiamata “La Rivoluzione della dignità” o ”Majdan”, per la piazza principale della capitale Kyiv, dove si svolgeva la maggior parte degli eventi.

“Della dignità, perché non potevamo più permettere un certo atteggiamento delle autorità nei nostri confronti, dei confronti del popolo. Siamo scesi in piazza alla ricerca di uno stato nuovo: senza corruzione, senza umiliazione, dove c’è un rispetto dei diritti umani – racconta Julia – Se fossi stata un medico, sarei andata a dare una mano ai feriti, ai malati; se fossi stata un autista con la macchina, avrei aiutato a spostare le cosa da una parte all’altra dalla città.
Ma l’unica cosa che sapevo e so fare è il cinema. Il 30.11.2013, con gli amici, partecipavamo insieme agli altri a una protesta pacifica, qualcuno ha portato la macchina da presa, così nasce l’idea di girare piccoli video, che non superavano i 5 minuti, per YouTube. No al voice over, no a stand up giornalistici, sì ai sottotitoli in inglese, sì alla riflessione documentarista. Così è nato il gruppo Babylon’13.

“Vivevamo un momento storico importante. Volevamo fissarIo, riprenderlo, comprenderlo. Per noi, per le future generazioni. I servizi in TV vanno e vengono, il cinema rimane”, racconta la regista.
“Con la Rivoluzione il cinema documentarista in Ucraina esplode. Non solo il cinema, ma la pittura, la scrittura, il teatro. Era una vera Rivoluzione culturale, infatti tra tutti i generi cinematografici proprio la documentaristica ucraina ha avuto una spinta particolare. Majdan all’epoca era un oceano di storie: ci voleva poco per trasformare una storia in un microfilm. Bastava vedere e non guardare.”

Hai detto che bastava vedere e non guardare. In quale momento guardare non era più abbastanza? Dove passava il confine tra essere regista ed essere un cittadino?

Entrando nell’edificio del Comune di Kyiv, ho visto la folla pacifica e colorata dei protestanti e un pianoforte bianco. Ho immaginato subito un film, nel quale una ragazza suona il pianoforte per la gente stanca e bella. Ho chiesto a una mia amica di suonarlo, ho portato la
troupe. Così è nato il video De Mol.

Invece in veste di cittadina avevo deciso insieme ai miei amici, che non erano del mondo del cinema, di fare e di riprendere una protesta davanti alla polizia con dei cartelloni: “Non mi picchiare, preparo un borshch buonissimo” (borshch — tipico primo piatto ucraino ndr). Nel mezzo della protesta percepisco un’emozione ben diversa da ciò che mi aspettavo. Vedo la vergogna negli occhi dei poliziotti. Così al posto del video della protesta nasce il video Shame. Più volte mi capitava di piangere, quando la gente cantava l’inno nazionale. Non sei più la regista che guida l’operatore, ma sei parte di un’immensa folla sincera nella sua voglia di libertà per tutto il paese.

Stiamo registrando questa intervista proprio alla fine di febbraio, nei giorni quando in Ucraina commemorano le vittime di Majdan. Erano tre giorni alla fine di febbraio, quando la protesta pacifica diventò non più pacifica. I cecchini dai tetti delle case sopra la piazza sparano e uccidono quasi 100 persone. Si è avuto il presentimento di una guerra, che sarebbe iniziata dopo poco. Dov’eri in quel momento?

Infatti con gli anni si tende a dimenticare un po’ è non è giusto. Forse per non dimenticare eravamo sempre con la macchina fotografica in modalità video in mano. Mi ricordo di aver fatto le riprese in piazza fino alla notte fonda e sono andata a piedi fino al nostro piccolo ufficio a montare e rivedere il materiale girato. Avevo lavorato fino alla mattina ed avevo dormito sul divano. Dopo essermi svegliata ho saputo delle vittime che ci sono state. Ero lì qualche ora prima. Per me quello era il punto di non ritorno. Non avevamo mai sentito la paura prima. Prima di aver visto le bare con i ragazzi giovani nella piazza centrale della capitale.

A primavera del 2014, il canale televisivo 1+1 ha commissionato al gruppo Babylon’13 alcune puntate sulla Rivoluzione. La mia si intitolava La centinaia celeste (la gente in piazza Majdan si organizzava a centinaia, che vivevano della tendopoli, per gestirsi meglio ndr), parlava proprio di quelle 100 persone. Uno dei ragazzi nel materiale ripreso di quella sparatoria terribile era Ustym Holodniuk, portava il casco celeste da pacifista, in pratica non si può sparare ad uno che ha un casco celeste. Invece… Intervistai suo padre, uomo che neanche un mese prima aveva perso un figlio diciottenne. In quel periodo riuscivo ancora a montare e lavorare su quel materiale, per quanto era difficile e incomprensibile. Un secondo fa erano vivi e un secondo dopo non più. La mia reazione vera a questi eventi è arrivata più tardi. Circa sei mesi dopo, attraversando a piedi Majdan per conto mio, scoppiai in lacrime. Ormai in Ucraina c’era una guerra in corso, ma in guerra è diverso. La guerra è una zona militare, sei consapevole di cosa sta succedendo. Invece lì, in piazza, c’era una protesta pacifica con gli scudi fatti di legno, finita con cento morti sparati dai cecchini in testa. Non sono più tornata a lavorare sul materiale girato in quei giorni. Non ci riesco ancora.

Dopo tre giorni di terrore in piazza Majdan, sembrava di aver ottenuto la vittoria. Il vecchio presidente scappava in Russia; l’esercito e la polizia passano dalla parte dei protestanti, il parlamento prende decisioni importanti per la gestione del paese. Sembrava fossimo arrivati alla fine, invece dalla Crimea cominciano ad arrivare brutte notizie. Senza alcun preavviso e pretesto si delibera di fare un referendum per decidere se lasciare la Crimea sotto la giurisdizione dell’Ucraina o passare con la Russia. Come reagiscono le cineprese di Babylon’13 agli eventi in Crimea?

Quando arrivarono le prime notizia dalla Crimea all’inizio della primavera del 2014, non sapevamo come prenderle. Mentre a Kyiv, insieme all’amarezza della tragedia, si respirava un’aria di libertà e di vittoria, in Crimea entravano le forze armate russe senza alcun segni di riconoscimento: li abbiamo battezzati “gli omini verdi”, che ci privano come i barbari di una parte del nostro territorio. Eravamo lontani, eravamo impotenti a guardare i video, dove i distretti militari ucraini si arrendevano uno dopo l’altro senza difendersi. D’altronde non c’era nessuno alla guida del paese a dargli l’ordine di difendersi. Il cosiddetto referendum viene organizzato velocemente su due piedi. Dal nulla spuntavano le persone che “da sempre” erano pro Crimea russa. È stato un attacco militare, terroristico, anche se nessuna goccia del sangue è stata versata. In quel momento in Crimea si trovavano i nostri due operatori Jaroslav Piluns’kyj, tra l’altro originario della Crimea, e Jura Gruzinov. Vengono arrestati mentre riprendono come si svolgeva il referendum “democratico”. Sono stati liberati dopo una settimana, grazie agli sforzi dei Servizi segreti ucraini, nessuno di noi sapeva dove fossero e cosa gli fosse successo. Erano rientrati a Kyiv quasi illesi.
Era la prima volta che qualcuno del nostro gruppo rischiava la sua vita mentre svolgeva il suo lavoro da documentarista. Non sapevano che quello sarebbe stato solo l’inizio.

Credo che tutti quelli che vivono in questo paese, saranno afflitti dalla sindrome postbellica

Le forze armate russe, i cosiddetti “omini verdi”, senza segni di riconoscimento militari, ma con un forte accento, avanzano nelle regioni dell’Est Ucraina. Questa volta l’esercito ucraino, insieme a gruppi di volontari, si avvale del diritto di proteggere il proprio territorio. Inizia la guerra. Ricordi quel momento?

È ancora tanto difficile per me parlare della guerra, riesco meglio con l’immagine. È la storia della mia generazione, è la storia della gente che è stata cambiata dalla guerra come me. Partire per la guerra volontario non è una decisione facile, rischi di non tornare più. Il periodo romantico della protesta in piazza ormai era lontano. Forse il periodo della fine del 2014 all’inizio del 2015 è stato il periodo della massima mobilitazione del paese, un periodo che potrebbe non ripetersi presto nella storia di Ucraina. Qualcuno sacrificò gli studi, qualcuno sacrificò il suo business, i piani per il futuro, la famiglia, per colmare le mancanze dell’esercito regolare. Insieme a tanti altri che sono partiti come volontari, anche io ho dovuto superare la mia paura. Non potevo rimanere in disparte. Non potevo spegnere la mia videocamera. Dovevo assolutamente mostrare a tutto il paese quelle persone e il loro sacrificio.

Come è cambiato il tuo modo di documentare gli eventi? Con quale linguaggio si racconta la guerra?

Ho visitato tanti posti in prima linea, ma non l’avevo mai attraversata. Non perché avevo paura, ma perché avevo il passaporto ucraino con la residenza a Kyiv e non sapevo come sarei stata presa da quelle parti e non volevo sottoporre a tale rischio il mio operatore e il mio fonico. Chi riusciva ad andarci e a fare le riprese erano o locali o quelli che non avevano un profilo legato strettamente alle proteste filoeuropee. Dall’altra parte del fronte ci sono stata nel periodo delle rivolte in piazza. Ero già abbastanza consapevole di quei posti.  Come regista ero diventata più dura, più diretta. Devi essere lo specchio fedele della realtà che ti circonda senza fronzoli e senza troppi sentimentalismi. Alla fine di Gennaio 2015 mi trovavo a Mariupol’, subito dopo il bombardamento al rione Shidnyj, il quartiere dormitorio della città. Giravamo per il rione, parlavamo con la gente, percepivo già una struttura narrativa del film in piccole storie, un ritratto della città ferita. Dopo essere rientrata a Kyiv, ho riguardato il materiale e ho capito che l’idea del film era del tutto diversa. Era stata già raccontata dai miei personaggi. Una donna intervistata da me, diceva che in dieci secondi aveva perso il marito e anche il suo ricordo. La loro casa – in dieci secondi – era diventata una massa dei ruderi. C’era anche un altro personaggio intervistato che, pur avendo beccato in casa un missile da parte delle truppe russe, continuava ad affermare che a bombardare è stato l’esercito ucraino con le bombe che sapevano cambiare la direzione in volo per confondere tutti. Il film si intitola 10 secondi e parla della fragilità della vita dei civili in guerra e la loro confusione tra due fronti.

Cominciai a seguire la Compagnia di Ferro del battaglione Azov. Dopo una settimana di riprese l’accesso alla base mi fu negato. Sul treno per Kyiv lessi la notizia che la Compagnia di Ferro del battaglione Azov partecipava  alla difesa del paese Shyrokino. Tanti dei ragazzi, che avevo ripreso e con i quali avevo già fatta una sorte di amicizia, erano morti. Solo ieri ci scambiavamo le battute mente li intervistavo ed oggi non c’erano più. Iniziai a montare i ritratti post-mortem, mi sembrava il minimo che potevo fare, così era nato il film Brat. Il giorno dopo partii per Odessa per il funerale di un altro ragazzo, al quale dedicai un altro video. I suoi genitori ringraziano ancora per il nostro lavoro, perché abbiamo mantenuto l’ultimo ricordo che è rimasto di suo figlio. Ormai non so più il numero dei funerali ai quali ho partecipato, tutti ragazzi giovani, ancora più giovani di me. Non deve andare così. Ma tu sei una regista, devi trovare le forze e lavorare con questo materiale. Se posso usare le mie capacità di trasmettere ciò che vedo, devo farlo.

Uno dei ragazzi della Compagnia di Ferro del battaglione Azov rientrati da quella battaglia mi disse che a Shyrokino sono morti tutti loro, perché quelli che erano tornati, erano ormai tornati diversi, cambiati.

Di questo parla il mio prossimo film Zalizna stonia (titolo provvisorio, “La centinaia di ferro”). Parla proprio sulla vita che è più forte della morte. Tramite i miei personaggi ho appreso che per continuare a rimanere in guerra, devi accettare la morte. In guerra il soldato vive solo la giornata e gli rimane poco spazio per riflettere. Dopo il ritorno dalla guerra, dopo che hai accettato la morte, è molto difficile riprendere la vita in una società di pace nelle altre parti dell’Ucraina. Il soldato dopo aver visto certe cose e superato ogni limite, si trova in difficoltà a comunicare con la gente che non lo ha fatto, di ritrovare il posto nella loro vita priva di una battaglia.

Per le riprese di questo film, eravamo sempre attaccati alla Compagnia di Ferro del battaglione Azov. Con la mia troupe, dopo che ci hanno finalmente permesso di seguirli in una battaglia, abbiamo dovuto insieme ai soldati nasconderci dalle bombe nelle piccole buche in un campo aperto. Questo ci ha legati tanto e forse per questo si fidano della mia videocamera.

Siamo al sesto anno di guerra. A volte sembra che la vita sia ripresa, che le cose in qualche modo stanno andando avanti, invece una parte del paese è ancora con quella grande ferita. Come continuare a parlare sulla guerra? Come non farla dimenticare del tutto? Stiamo parlando anche nei giorni in cui c’è stato un forte attacco nemico al paese di “Zolote”.

Bisogna continuare a parlare nonostante tutto, anche in piccole cose, anche solo facendo un repost sui social con la notizia dal fronte, perché questa guerra non è solo la guerra in prima linea in un posto concreto, ma è una guerra moderna, la guerra delle informazioni, la guerra della propaganda, nella quale l’Ucraina purtroppo sta perdendo. La versione russa sulla guerra in Ucraina viene ripetuta dai giornali nella maggior parte del mondo. Anche nel campo informativo ucraino le fake-news sono all’ordine del giorno. Aver perso in questa guerra dell’informazione ci ha portato anche alla vittoria alle elezioni presidenziali di Zelenskyj. Siamo una società persa, ogni disinformazione ci divide e ci allontana di più uno dall’altro.

Zelenskyj è un comico ucraino, che ha interpretato il presidente nella serie televisiva comica Il servo del popolo (nome che ha dato anche al suo partito) e ha vinto le elezioni al ballottaggio contro il presidente uscente Poroshenko nel 2019.

Il 2015 è stato il periodo più intenso della guerra. I miei personaggi lasciano il fronte nel 2015, dopo il ritiro dei battaglioni volontari, prescritto negli accordi di Minsk, che non sono mai stati rispettati dalla parte avversaria. Alle parti è stato chiesto il censimento delle unità combattenti, ma alla fine l’esercito ucraino si è ritrovato a non poter difendersi e rispondere all’attacco del nemico. I battaglioni volontari si sono chiesti perché stavano al fronte a rischiare la loro vita senza poter difendersi. Un altro conto l’esercito, che lo fa per lavoro.  Il nostro nuovo governo parla della pace senza raccontare davvero come stanno le cose. Chiudono gli occhi sui fatti veri. E la situazione dell’attacco a Zolote (19.02.2020) mi ha fatto tornare tutte le paure che avevo vissuto ancora nel 2014. Ho ricevuto il messaggio da un ragazzo in prima linea, che mi diceva delle perdite che avevano subito. Questo sottolinea che gli accordi di Minsk, né quelli nuovi di Parigi, vengono rispettati. Non esiste un modo di trovare un accordo con il paese nemico, che non aveva mai mantenuto la sua parola. Adesso con la politica “pacifista” del presidente nuovo, mi sembra che il nemico si è addentrato nel paese e la linea del fronte sia arrivata fino alla capitale Kyiv. Io sono rientrata dal fronte insieme al alla Compagnia di Ferro del battaglione Azov. Ho continuato a riprendere i miei personaggi nel loro tentativo di ritrovare un proprio posto nella vita oltre il fronte. Ho molta difficoltà di finire il mio film, alla fine non so se parla di loro o del mio trauma. Credo che tutti coloro che vivano in questo paese, saranno afflitti dalla sindrome postbellica, non importa se sei stato sul fronte o no, convivi con questa realtà, in questa tensione psicologica. Nonostante l’assenza della mia videocamera in prima linea, nonostante la dinamica della guerra cambiata in questi sei anni, non ci sono più le sacche e le operazioni speciali, ogni giorno continuano a morire i soldati. Continuano a morire non solo in guerra: un ragazzo partito per il fronte a 18 anni, si è fatto saltare in aria in casa sua a 23 anni a Kharkiv. Non si è ritrovato nella vita normale. Questa guerra continua ad esistere non solo al fronte, continua ad esistere nelle nostre vite. É la guerra non solo per la terra, ma per le teste, per il cervello delle persone.

Above the law
Come la guerra in Ucraina è entrata nella società russa

I conflitti del Terzo Millennio ci hanno insegnato che la guerra non è più uno scontro fra eserciti, che si combattono sulla linea del fronte. Meduza, collettivo di giornalisti russi, racconta come il conflitto in Ucraina sia entrato, in forma di violenza politica privata, nella società russa scavalcando i confini. Quelli della geografia, ma soprattutto quelli della legge.

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War and Holy Water in Ukraine
Intervista al fotografo Christopher Nunn

di Lily Linch, tratta da Balkanist

La scorsa estate, mentre vivevo a Odessa, mi sono messa in contatto con il fotografo britannico Christopher Nunn, che lavora in Ucraina dall’inizio del 2013.

Nunn non è un fotografo di conflitti o un fotoreporter, e le sue foto sono sorprendenti perché spesso sono molto diverse dalle altre immagini che escono dall’Ucraina. Abbiamo iniziato una sporadica corrispondenza che si è poi evoluta in un’intervista. Questa conversazione si è protratta per molti mesi ed è coincisa con l’evoluzione del caos politico e della guerra nel paese.

Nunn ha parlato di tutto, dalle rappresentazioni dell’industria dei media sulla rivoluzione e sul conflitto ucraino, all’incorporazione della confusione che circonda la guerra nel suo lavoro, all’evidente evoluzione della sua stessa fotografia.

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Fuori dagli schemi
Intervista a Mykhajlo Minakov

di Iaryna Grusha Possamai

I cerchi rivoluzionari della vita politica ucraina vengono spezzati dall’arrivo di un nuovo personaggio.
Mykhailo Minakov, nato e cresciuto in Unione Sovietica, si è affermato come filosofo nella giovane Ucraina indipendente all’università Kyiv Mohyla Academy e – in Occidente – tra Harvard University, Greifswald University e Viadrina University, il che gli ha permesso di sviluppare la sensibilità necessaria ed approfondite conoscenze del mondo post-sovietico. Attualmente è Senior Fellow presso il Kennan Institute (Washington DC), per il quale dirige il programma di ricerca sull’Ucraina. Tra le sue più recenti monografie, una “Development and Dystopia. Studies in Post-Soviet Ukraine and Eastern Europe” é stata pubblicata nel 2018 per Columbia University Press.

La notte tra il 30 ed il 31 marzo 2020 il parlamento ucraino si è riunito in sessione straordinaria per il voto di due leggi: la prima riguardava l’apertura del mercato fondiario, una delle condizioni per la futura collaborazione con il Fondo Monetario Internazionale, che è passata con successo, la seconda, votata solo parzialmente, è la cosiddetta legge antikolomojskyi che riguardava non direttamente l’oligarca Ihor Kolomoyskyi, ma direttamente le banche, che non possono tornare ai loro proprietari una volta fallite. Anche questa legge fa parte delle clausole della collaborazione così tanto desiderata con l’FMI. Cosa abbiamo imparato quella notte?

La prima cosa che abbiamo imparato dal voto di quella notte conferma che il fattore esterno, cioè la collaborazione con l’FMI, è molto importante per la squadra di Zelenskyy (attuale presidente ucraino ndr).
La seconda cosa che abbiamo imparato, dimostra come il presidente stia perdendo la sua influenza. Ormai, per far passare una legge, gli serve personalmente recarsi in parlamento. Il fatto che le leggi vengano votate di notte, manifesta l’assenza di un processo legislativo regolare, il che condiziona la qualità del lavoro dei parlamentari e delle leggi stesse. Altre cose che sono state discusse quella notte riguardano i tagli del bilancio, visto che l’Ucraina, come del resto tutto il mondo, sta entrando nella fase della recessione economica. Il lavoro sul bilancio ha dimostrato un’assenza del lavoro coordinato sia nel parlamento, che nella squadra presidenziale. Da questi processi vediamo che l’Ucraina viene integrata nelle strutture europee, non come una parte del centro, ma come una parte della periferia, influenzata da fattori esterni. Purtroppo all’interno del paese non abbiamo una forte squadra politica che possa elaborare una politica di sviluppo a lungo termine e rappresentare gli interessi nazionali del paese a livello internazionale. Tutte le mosse vengono fatte solo in risposta a qualche avvenimento, senza giocare in anticipo.

Facciamo un passo indietro. Praticamente nella stessa maniera poco trasparente e tanto confusa, all’inizio di marzo, il presidente spinge per l’approvazione del nuovo governo. Cosa porta ad un cambiamento del governo solo sei mesi dopo il suo insediamento?

Devo dire che stiamo assistendo ad un cambiamento mai sperimentato prima nel sistema politico ucraino. Io, personalmente, lo paragono al periodo della seconda parte degli anni Ottanta dell’URSS, sotto la segreteria di Mikhail Gorbachev. Gorbachev in tutti i modi ha cercato di implementare la sua politica di Perestrojka nell’URSS, senza rinunciare al ruolo fondamentale del partito. Il partito ricuciva l’Unione Sovietica e funzionava come una, non del tutto formale, verticale che controllava tutte le istituzioni formali. La coesistenza del potere formale e informale provvedeva una certa stabilità per l’Unione Sovietica. La stessa struttura è stata ricostruita anche nell’Ucraina indipendente, dove la parte informale viene presentata dai clan, le reti neo-patrimoniali, che hanno bisogno di tenere sotto controllo le istituzioni politiche per la crescita del proprio capitale o per la sicurezza di questo capitale. Questo modello ucraino di coesistenza delle strutture formali e informali, si stabilisce alla metà degli anni Novanta e continua a funzionare fino al 2019. Tale “quieto vivere” viene interrotto dall’arrivo di Volodymyr Zelenskyy, che vince le elezioni presidenziali, senza rappresentare nessuno dei clan. Lui arriva al potere sull’onda del populismo un po’ particolare, perché viene segnato dall’unanimità non di un ‘pro’ qualcosa, ma di un ‘contro’ qualcosa. Aggiungiamo qui anche la sua fama, gli strumenti mediatici a sua disposizione e le proposte vaghe nel programma. Al contrario dei populisti europei, o di destra o di sinistra, lui non aveva le dichiarazioni cariche di odio radicale verso qualcosa. La sua campagna elettorale era molto positiva, perfino utopica. Infatti l’utopia stava nella sicurezza di poter sconfiggere il sistema politico malato, portando al potere gente nuova che non rappresentava nessuno dei clan. Zelenskyy pensava di poter far funzionare le istituzioni formali, regolandosi solo con la costituzione ucraina, tale percorso viene confermato dalle sue riforme lanciate all’inizio di settembre: il taglio dei parlamentari, l’indebolimento del potere del parlamento, il rafforzamento, anche se non diretto, del potere del presidente, le legge sui diritti e le libertà dei giudici della corte suprema e la legge sul controllo dei media. Quest’ultima fa da buon esempio: quando una persona fuori clan, che non riesce a collaborare con i clan, che controllano tutti i media in Ucraina, deve agire per le vie formali, cioè tramite le leggi ufficiali. Questa logica della gestione delle leggi prosegue per tutto l’autunno, ma già da gennaio vediamo come il tentativo di rinnovare il sistema politico con i volti nuovi fallisce in pieno. Gli oligarchi si sono trovati in difficoltà a spingere i loro interessi in parlamento, ma allo stesso tempo gestendo tanti beni di importanza nazionale, ostacolano il loro buon funzionamento. Di conseguenza abbiamo l’economia che scende insieme alla qualità delle leggi votate dalla squadra presidenziale. La squadra di Zelenskyy si ritrova incapace di stabilire una politica adatta all’Ucraina e per di più rimane vittima degli scandali gestiti dai media, dove il minimo errore viene ingrandito dai canali degli oligarchi. A gennaio, quando sotto attacco finiscono il primo ministro Oleksiy Honcharuk e il capo dell’amministrazione Andriy Bohdan, Zelenskyy prende le sue decisioni ed esce con la frase: “A parte le facce nuove servono anche i cuori e i cervelli”.
I ministri del nuovo governo insediato all’inizio di marzo, hanno già una certa esperienza di lavoro nelle strutture politiche, anche se non nei ruoli principali. I nuovi ministri hanno già l’esperienza di trattare con i clan. Anche se certi personaggi come Fiala, Kolomojskyi e Pinchuk avevano una minima influenza sul governo di Honcharuk, il suo, ignorando quasi del tutto la collaborazione con i clan, è stato probabilmente il governo meno gestito dalle strutture informali dalla metà degli anni Novanta in poi. Ed ecco perché è stato poco efficace. In questo paradosso sta la grande tragedia del sistema politico ucraino. Un tentativo onesto, sebbene poco professionale, porta al fallimento per la mancanza di collaborazione con i clan. Anche il nuovo governo non è all’altezza di gestire la situazione attuale in Ucraina. Dopo un mese di lavoro, i due ministri della Finanza e della Sanità sono stati licenziati.

Il professor Mykhajlo Minakov

Lo schema politico che ha descritto è tipico ucraino o caratterizza di per sé i paesi post-sovietici?

In pratica questa è la piaga di tutti i paesi post-sovietici. Meno dei i paesi baltici, anche perché fanno parte dell’Unione Europea e hanno il terzo segmento di influenza, cioè Bruxelles. Togliendo questi e parlando di 12 Repubbliche riconosciute e 6 non riconosciute, possiamo osservare una certa tendenza. Lo scienziato americano Henry Hale, nel 2014, ha distinto due sistemi politici dell’area post-sovietica: il sistema mono-piramidale, dove questi sistemi formali e informali vengono sottomessi ad una piramide con, di solito, il presidente alla guida. Sono, per esempio, Bielorussia, Russia o Azerbaijan; ed il sistema poli-piramidale, dove diverse strutture informali gestiscono diverse parti delle strutture formali. Sono delle piccole piramidi, ma sono tante, e riescono a stabilire tra di loro una concorrenza, lasciando lo spazio della la manovra anche al popolo e alle loro libertà. Sono Ucraina, Georgia, Moldova e ultimamente anche Armenia che sta intraprendendo questa strada.

L’Ucraina rischia di diventare mono-piramidale, mentre tutti siamo coinvolti in una battaglia molto importante contro il coronavirus?

Potrebbe succedere che diversi rappresentanti delle strutture informali cerchino di usurpare il potere, ma non dobbiamo sottovalutare il sistema politico ucraino, che rimane comunque forte. La minaccia dell’usurpazione del potere per l’Ucraina ci sarà sempre, ma il fatto di avere tante strutture informali, che sognano di diventare un Lukashenko o un Putin, ci salva, perché puntualmente finiscono con l’eliminarsi e farsi male a vicenda.
Le circostanze nelle quali la persona proveniente dal business controlla forse il ministero più importante ad oggi, cioè il ministero degli Affari Interni, riportano, anche legittime, preoccupazioni. Queste supposizioni prevalgono anche nel campo degli esperti. Tuttavia, per la squadra del presidente, il ministro Arsen Avakov rimane un security provider, che permette a Zelenskyy in un certo modo di sentirsi al sicuro. Un alleato, che controlla la maggior parte delle forze armate in Ucraina, è molto conveniente per la squadra presidenziale, ma in quanto alleato, lui ha i suoi interessi di carattere più informale che formale. A certe condizioni un personaggio del genere potrebbe usurpare il potere, visto che anche il livello dell’efficienza del governo continua a scendere. Tutto potrebbe succedere al momento, quando l’economia e la salute pubblica si rivelassero un disastro. A quel punto lo stato avrà bisogno di una mano forte.

Poroshenko, il primo presidente post Majdan, era una mano forte? Quali sono stati i suoi errori che portarono alla vittoria di Zelenskyy solo dopo il primo mandato?

Nel primo periodo di post Majdan nel 2014 il presidente Poroshenko era una figura importante, ma non unica. C’era anche il Primo Ministro Arseniy Yatsenyuk e i gruppi informali dell’estrema destra. Due anni dopo, all’inizio della primavera del 2016, Poroshenko riesce a consolidare il potere all’interno del suo unico clan, rischiando di allontanarsi dai principi democratici, ma non riesce a diventare un dittatore. Poroshenko è una persona brillante per come ha potuto consolidare il potere all’intorno del suo clan, che tra l’altro lui aveva solo ereditato e non creato sin dall’inizio: le strutture formali, il suo partito politico, blocco delle corporazioni pubbliche e private, blocco dei media, gli intellettuali ucraini, una forte rete dei “bot”, che lo rappresentavano nei social. Peccato che il suo talento lavorasse contro la democrazia. In tutto questo c’è stata sempre la figura del ministro degli interni Avakov, la figura del Primo ministro Groysman (ed il sistema politico ucraino è fatto così che dopo qualche tempo anche all’intorno al PM comincia a formarsi un’altra rete delle strutture formali ed informali) la figura dell’ex presidente della Georgia, Mikhail Saakashvili, che riusciva a raggruppare intorno a se i gruppi della strada. Tutti loro riuscivano a bilanciare il potere del presidente e nel 2017-2018 Poroshenko risultava abbastanza limitato nelle sue azioni.
Non dobbiamo assolutamente dimenticare l’influenza dell’Occidente. L’Ucraina è un paese che dipende molto dal fattore esterno, dall’aiuto esterno nella battaglia contro l’aggressione russa e i separatisti. Il protettorato occidentale era molto favorevole verso Poroshenko. Nel 2019, durante la campagna elettorale presidenziale, tutte le strutture diplomatiche occidentali hanno espresso il supporto al candidato Poroshenko, ma alle loro condizioni, cioè le elezioni democratiche. L’Occidente ha i suoi principi, uno di questi è lo svolgimento delle elezioni in maniera democratica. Infatti le elezioni presidenziali del 2019 sono state svolte secondo i principi democratici, ci sono state alcune zone grigie, segnalate per esempio dal governatore della regione di Odessa, Stepanov, che in questi giorni è diventato il ministro della Sanità. Lui aveva denunciato il tentativo di Poroshenko di usare i soldi statali per comprare i voti, ma queste zone grigie erano veramente più uniche che rare. Quindi abbiamo il livello internazionale, nazionale e perfino regionale che non ha permesso a Poroshenko di usurpare il potere. C’è stato un minimo tentativo durante la crisi di Kerch, a Novembre del 2018, di introdurre lo stato di emergenza nel paese per rimandare la data delle elezioni, che aveva già minime possibilità di vincere, ma non ci è riuscito.

La storia dell’Ucraina moderna assomiglia a una sinusoide dove il minimo viene rappresentato da questa mano forte come lo era con Kuchma, Yanukovych e il massimo viene rappresentato da due rivoluzioni quando il popolo si liberava da questo potere forte. Zelenskyy segue questa traiettoria o la sta cambiando?

Con l’arrivo di Zelenskyy possiamo osservare una certa controtendenza. Nel mio libro Development and Dystopia. Studies in Post-Soviet Ukraine and Eastern Europe descrivo l’Ucraina che vive secondo i cicli rivoluzionari. L’Ucraina si stabilisce come paese indipendente sulla terza onda della democratizzazione. L’Unione Sovietica si scioglie e l’Ucraina nasce sulle tre promesse: una politica democratica basata sul pluralismo ideologico, lo stato nazionale e il mercato libero. Ogni volta, sia nella Rivoluzione del 2004, che nella Rivoluzione del 2013-2014, noi torniamo a queste idee. Cerchiamo di nuovo di democratizzare, nazionalizzare e liberalizzare il mercato del paese, perché l’oligarchia, avendo bisogno del protettorato esterno, danneggia questi tre pilastri sui quali è stata fondata l’Ucraina. Anche le due rivoluzioni hanno avuto lo stesso andazzo: il periodo delle promesse politiche, poi la crisi economica con il disorientamento del paese e poi – quando il paese é perso in cerca della mano forte per stabilizzare la situazione – fa arrivare un leader autoritario. In seguito questo leader perde il sostegno popolare, si rivela debole e poco efficiente e porta al cambiamento del potere. Ma dopo il 2014 il cerchio si interrompe: subentra il fattore della guerra, il fattore esterno che ha cambiato molto la cultura politica ucraina. Quando durante il dibattito il candidato Zelenskyy dice al candidato Poroshenko di essere non solo il suo avversario, ma la sua condanna, ha completamente ragione. Perché la vittoria di Zelenskyy e il fattore della guerra si rivelano la condanna del ciclo rivoluzionario secondo il quale l’Ucraina viveva prima. Come andrà a finire potrà risponderci solo il tempo, magari fossimo in grado di verificare varie ipotesi a tavolino a porte chiuse ed escludere il peggio. Posso solo dire che per la prima volta dopo l’indipendenza dell’Ucraina, l’integrità del paese si trova sotto una forte minaccia sia esterna per via dell’aggressione russa, che interna, rappresentata dalla scarsa efficienza delle strutture formali.

Tutto il mondo sta combattendo la pandemia di Covid-19, e non posso non chiederle se ha qualche idea su come cambierà l’Ucraina economicamente e politicamente dopo la fine della pandemia. Quali misure sta adottando l’Ucraina per combatterla: quelle italiane o quelle cinesi?

Oggi nel mondo possiamo distinguere quattro modelli di reazione alla pandemia Covid-19. Quello cinese, che all’inizio ignora il problema, è una caratteristica dei paesi autoritari. Lo ignora circa per tre mesi, l’infezione si espande fuori dal paese, infetta tanta gente all’interno del paese e quando finalmente riconoscono la presenza di un nuovo virus, chiudono la gente in casa, chiudono i negozi, usano solo le strutture del partito per l’arrivo delle provvigioni. In un paese autoritario, la società reagisce con una totale obbedienza e in tre mesi riescono a superare il problema con il minimo di ricadute ormai controllate. Quello dell’Asia orientale, che viene adottato da Hong Kong, Singapore, dal Giappone e dalla Corea del Sud, è un modello che funziona con un governo ricco, un buon sistema sanitario e una società molto responsabile che si fida del governo. Il governo lancia i test di massa e reagisce con la quarantena locale, dove c’è bisogno, e non nazionale. In questo modo riescono a stroncare la diffusione del virus.
Quello dell’Europa occidentale, che per di più viene rappresentato dall’Italia e dalla Spagna, è un modello caratterizzato da un breve periodo iniziale di ignoranza del problema, una successiva reazione tardiva e una risposta finale con misure abbastanza forti, che ormai cominciano a mostrare il contenimento del virus. Alla fine c’è il modello che coinvolge America, l’Inghilterra e la Svezia che all’inizio cercavano di produrre un immunità collettiva, ma con la crescita del numero delle vittime cominciano a loro volta ad adottare le cosiddette “misure italiane”. Invece i paesi post-sovietici, adottando il neoliberalismo anche nel costruire il sistema della sanità pubblica, si ritrovano impreparati, perché non possono seguire né il modello cinese, né quello dell’Asia orientale. Non hanno né possibilità di eseguire i test di massa, né un leader forte, né la fiducia nel governo. Ognuno non ha fiducia nel governo a modo suo: in Ucraina per un motivo, in Russia per l’altro. A questo punto possiamo dividere i paesi post-sovietici in tre gruppi: il primo gruppo, quelli che hanno reagito da subito, come Georgia e Armenia, i paesi non ricchi, ma che forse hanno dei buon gestori alla guida dei ministeri della sanità. Stanno facendo i test in combinazione con le misure della quarantena che sicuramente preserveranno la vita a tanti cittadini. Il secondo gruppo, che ha negato a lungo per poi riconoscere la presenza del virus, qui possiamo distinguere il Tajikistan, il Turkmenistan e la Bielorussia. L’Ucraina, insieme alla Moldavia e la Russia, appartiene al terzo gruppo, che non lo sta negando, ma comunque reagisce con un certo ritardo. Questo porta alla larga diffusione del virus per via del governo che prende le decisioni con imperdonabile calma e i cittadini che si fidano poco di queste decisioni. Con questi dati potrei solo prevedere un forte impatto sulla demografia e sull’economia del paese.

La poesia ucraina nei gulag di Stalin
Il poeta Michajlo Draj-Hmara, figura poco nota del panorama letterario dell'Ucraina

di Martina Napolitano, tratto da Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa in collaborazione con EastJournal

Poeta, traduttore, filologo, professore, mirabile poliglotta (o, piuttosto, iperpoliglotta, a conoscenza di ben 19 lingue): Michajlo Draj-Hmara (1889-1939) è una figura poco nota del panorama culturale, storico e letterario ucraino, soffocata, come tante altre, tra le pieghe della storia dal clima socio-politico in cui si ritrovò a vivere.

A differenza di diversi volti, poi riemersi, conservati nella memoria culturale, per lo meno da quella clandestina, la figura di Draj-Hmara è ancora tutta da scoprire – e non solo fuori dall’Ucraina.

A Kiev solo nel novembre del 2014 si è apposta una targa in suo onore in via Sadova 1/14, dove abitava, e se non fosse stato per l’indefesso lavoro di raccolta, studio e commento della figlia Oxana, professoressa emigrata negli USA nel 1951, la sua produzione sarebbe per molti versi ancora ignota.

 

 

A partire dal 1933 divenne un personaggio sempre più scomodo all’interno del mondo sovietico e come molti altri fu presto arrestato, condannato sulla base di prove dubbie quando non fabbricate.

 

Venne inviato in Siberia, più precisamente nella Kolyma, la terra dell’oro e del terrore, magistralmente – e tragicamente – immortalata nella prosa di Varlam Šalamov (I racconti della Kolyma). La vita qui era così dura che “un anno conta per due, perciò spero di essere liberato prima”, scriveva a casa Draj-Hmara, ancora speranzoso, nel giugno del 1936; “la temperatura raggiunge i 45 gradi sotto zero, ma non la sento; è come stare a -15 gradi a Kiev”, raccontava.

Il poeta morì nell’inverno del 1938-39 in circostanze mai del tutto chiarite. Le fonti ufficiali parlano di arresto cardiaco, ma i ricordi di un compagno internato, Michail Dobrovol’skij, raccontano una versione differente: sfidò delle guardie apparentemente alticce che stavano sparando agli internati, mettendosi davanti a un compagno più giovane.

Poeta fin dalla tenera età, Michajlo Draj-Hmara studiò filologia slava all’università di Kiev nei primi anni Dieci. Per studio e ricerca si recò in quegli anni a Zagabria, Budapest, Belgrado, Bucarest. Durante il Primo conflitto mondiale era già professore universitario a Pietrogrado: qui, se da un lato si appassionò alla poesia di Mandel’štam e al simbolismo di Blok (evidente nella sua produzione poetica), dall’altro “scoprì” in un certo senso la propria identità fieramente ucraina. Fu allora che aggiunse, accanto al suo cognome originario Draj, la parola ucraina Hmara: assieme all’assonante drei tedesco, il suo nuovo cognome prese a significare “tre nubi”.

A Pietrogrado il giovane studioso partecipava alle riunioni degli altri ucraini, studiò con passione la storia ucraina: come racconta la figlia, tornò a Kiev nel maggio del 1917 “pensando e vivendo in maniera nuova”.

 

 

Il suo rientro in Ucraina era in fondo legato a questo suo cambiamento: era interessato a prendere parte attiva al risveglio nazionale.

 

Si trattava di un’idea diffusa nell’ambiente dell’università di Kam”janec’-Podil’s’kyj dove Draj-Hmara prese a insegnare filologia slava, slavo ecclesiastico, storia delle lingue e letterature polacca, serba e ceca tra il 1918 e il 1923, prima di tornare a lavorare a Kiev.

In questi anni si mise anche a tradurre la Divina Commedia, lavoro che finì sequestrato dalla polizia segreta sovietica e andò così perduto (la prima traduzione integrale in lingua ucraina uscì solo nel 1976, a cura di Evgen Drob’jazko). Nel 1926 venne pubblicata l’unica sua raccolta poetica edita in vita, Prorosten’; altre due uscirono postume nel 1969.

Michajlo Draj-Hmara fece parte, come poeta, della pleiade dei cosiddetti “neoclassici”, un gruppo di poeti che nella Kiev degli anni Venti sviluppavano linee e forme (neo)classiche nella letteratura ucraina: tra loro Mykola Zerov, Osval’d Burghardt (più noto come Juriy Klen), Maksym Ryl’s’kij e Pavlo Fylypovič.

Si trattava, appunto, essenzialmente di una questione di forma, mentre il contenuto, più o meno allegorico, era squisitamente loro contemporaneo.

La stessa scelta di rifarsi a forme del passato era qualcosa di legato in fondo all’assordante “rumore del tempo”: nel mondo rivoluzionario, in cui il nuovo doveva essere accolto, supportato, foraggiato, questa presa di posizione stilistica prendeva facilmente una piega anche politica, ostile alla nuova realtà sociale, statale. Ma non era solo una questione di forma: si pensi alla lingua, quell’ucraino che Draj-Hmara voleva vedere fiorire come una tra le tante lingue slave, una come tutte, temendo invece quella russificazione che poi si sarebbe effettivamente realizzata – e i cui esiti, soprattutto per quanto riguarda la lingua ucraina, si sentono ancora oggi. Con aspra durezza il poeta reagì al veto di Maksim Gor’kij posto sulla traduzione del suo La madre in ucraino:

«Di un “dialetto” noi vogliamo fare una “lingua”! Che orrore questo per un intellettuale russo! Secondo Gor’kij, costruendo assieme ai moscoviti la Torre di Babele (non è poi una Torre di Babele questa “lingua universale”?), dobbiamo rinunciare alla nostra lingua, alla nostra cultura, cui un popolo di 40 milioni ha dato vita nel corso di un millennio, e tutto ciò soltanto per non dar fastidio ai nostri “fratelli”».

Nella nuova realtà statale sovietica e sovranazionale non c’era spazio per voci discordanti, potenzialmente secessioniste, che minavano la realizzazione del progetto politico, sociale ed economico, che ostacolavano il nuovo corso storico in questa parte di mondo.

Ogni nucleo intellettuale presente sul territorio della neonata Unione Sovietica andava vagliato: non vi erano forse degli spiriti “controrivoluzionari” al suo interno?

Fu così che in Ucraina, ma anche, ad esempio, nel Caucaso e in tutte le aree popolate da gruppi nazionali non russi, come la Crimea, l’Udmurtia o i paesi baltici dopo la loro annessione post-bellica, si procedette a una soppressione sistematica dell’espressione nazionale – una storia autobiografica romanzata, ma non troppo, splendidamente da Levan Berdzenišvili in La santa tenebra  , “forse l’unico libro sui Gulag sovietici che è impossibile leggere senza ridere”.

L’Ucraina in questo contesto fu forse tra le quindici repubbliche quella cui fu destinata la storia più tragica, con deportazioni di massa a partire dal 1931 che raggiunsero i due milioni di persone nel secondo dopoguerra; l’accusa più diffusa era quella di “nazionalismo”. Oltre alla pesante russificazione e alla carestia forzata del 1932-33 (holodomor  ), si registrò una progressiva cancellazione dell’identità nazionale e di qualsiasi forma di opposizione, i cui esiti, come per la questione linguistica, si ripercuotono tutt’oggi. Poeti e artisti non possono però che essere voce del loro tempo, Draj-Hmara tra loro. Questa è l’Ucraina che descrisse allora:

Quale mare ingiallito:

la segale ancora da falciare,

vuota di spighe,

nell’attesa dei falciatori,

ma di questi

non c’è traccia.

È deserto qui:

nessuna fattoria,

nessun albero:

steppe,

steppe,

senza fine.

Tanta partecipazione, inevitabilmente politica, però non poteva essere tollerata in epoca staliniana. Fu così che tra il 1933 e il 1934 i neoclassici di Kiev finirono nel mirino delle autorità sovietiche; venne aperto l’affaire Zerov, in cui finirono i membri del gruppo. L’accusa era, in generale, di attività controrivoluzionaria e di nazionalismo. Come commentò lo stesso Draj-Hmara, “tra me e la rivoluzione sociale a lungo ci fu il nazionalismo, che io interpretavo, evidentemente sbagliando, come servizio verso il mio popolo”. Una delle sue poesie in particolare disturbava le autorità, I cigni (Lebedy, 1928), un sonetto che, “dedicato ai compagni”, richiama i versi di Mallarmé e si conclude con questa terzina:

Osate, cigni: dalla cattività, dal nulla

Vi fa venire alla luce la chiara costellazione della Lira,

dove ribolle l’oceano di fervente vita.

Nel 1936 Draj-Hmara fu definitivamente accusato di spionaggio a favore di agenti stranieri e preparazione di attentati contro le autorità sovietiche. Scrive Benson Bobrick in Siberia: “Fra le accuse specifiche che gli furono mosse c’era quella di aver ricevuto corrispondenza dall’estero, in base a una cartolina con il francobollo bulgaro trovata nel suo appartamento.

 

 

Draj-Hmara fece notare che la data della cartolina era 1912, quando non esisteva ancora il governo sovietico, ma gli fu risposto: ‘Non ha importanza che esistesse o no; resta il fatto che lei era in corrispondenza con la Bulgaria, nostra nemica’” (1995, p. 422).

 

 

Il poeta venne condannato a cinque anni di Kolyma. Anche la famiglia non restò, come accadeva di regola, indenne: la moglie e la figlia furono trasferite forzatamente da Kiev in Baschiria. In una delle ultime lettere alla famiglia, scrive sempre Bobrick, il poeta chiese loro di recitare per lui, con lui, le quartine iniziali di Amore autunnale di Aleksandr Blok.

* Alle traduzioni dall’ucraino ha collaborato Claudia Bettiol

The Stalinization of memory
Il Donbas, tra passato e futuro

Tratto dalla rivista New Eastern Europe, e pubblicato dal sito Eurozine, un approfondimento che si concentra sulla situazione di Donbas: perché, sei anni dopo l’inizio delle ostilità, l’Europa occidentale deve ancora ricordare che Putin sta facendo la guerra all’Ucraina.

Inoltre, approfondimenti sull’escalation delle guerre di memoria russo-polacche.

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Orwell e Mister Jones
Un film sul giornalista britannico che scoprì l’Holodomor

di Roberto Sarraco, da La Nuova Europa

Uscito in sordina nel 2019, il film Mr. Jones racconta di Gareth Jones, il giornalista britannico che per primo scoprì e fece conoscere in Occidente l’Holodomor, lo «sterminio per fame» di milioni di persone nell’Ucraina sovietica, perpetrato dal governo staliniano tra il 1932 e il ’33. Gareth pagò con la vita il suo servizio alla verità.

Il film si concentra sulla visita del marzo ’33, in cui Gareth vide scene di fame e miseria già a Mosca, sua prima tappa, per poi scoprire la devastazione totale camminando per la campagna ucraina.

Il film crea scene potenti su questo viaggio clandestino durante il quale, secondo Holland, Jones riesce a sfuggire al suo accompagnatore ufficiale che aveva il compito di mostrargli i trionfi dell’industrializzazione in Ucraina: la prima scoperta è l’improvvisa e agghiacciante visione dei passeggeri silenziosi e galvanizzati da un tozzo di pane, ammassati su un carro merci ferroviario di fortuna; poi appaiono i lavoranti costretti a smistare con rapidità tonnellate di sacchi di grano diretti a Mosca, sotto i fucili spianati delle guardie, case abbandonate con defunti morti di fame nel sonno, bambini smagriti, allucinati e costretti dalla fame al cannibalismo.

Al suo ritorno a Mosca, nella realtà come nel film, Gareth subì pressioni fortissime, soprattutto da Walter Duranty, premio Pulitzer e firma del New York Times e Time Magazine, ben affermatosi a Mosca e presso il Partito come voce autorevole per l’Occidente dei grandi successi economici e sociali dell’URSS. Scriveva Duranty sul Time nell’aprile del ‘33: «Non c’è reale carestia o morte per carestia, ma c’è ampia mortalità per malattie dovute alla malnutrizione».

Water under fire in Europe’s forgotten war
La guerra alle porte dell'UE entra nel settimo anno

tratto da The New Humanitarian

Incontrare gli operatori umanitari che forniscono un rifornimento vitale a coloro che sono in prima linea in Ucraina mentre la guerra alle porte dell’UE entra inel settimo anno.