01. Prologo in teatro

Massimiliano Hütschenreuther ha quarantatré anni. Suo figlio Giacomo, otto.
Uno dei due fa il cameriere in una pizzeria, l’altro la terza elementare.
Abitano a sei chilometri di distanza, in due quartieri opposti della stessa città.
Questa è la storia di come stanno diventando grandi insieme, un giovedì dopo l’altro.

 

“Il Giovedì” è un’opera di finzione letteraria: qualsiasi riferimento a persone ed eventi realmente esistenti è da considerarsi un’incredibile sfortunata coincidenza.

 
01. Prologo in teatro
 

Se lo cerco nella memoria, anche dopo cinque anni lo rivedo esattamente com’è: un corridoio troppo illuminato, con stanze numerate a due cifre su entrambi i lati. Tra una porta e l’altra, ticchettano sghembe sul pavimento poche sedie pressostampate, e sono tutte occupate dall’anello debole dei due, quello che piange. L’altro sta in piedi e ha la faccia fissa fradicia dura come appena scolpita nel marmo.

Siamo tanti e siamo sposi che si separano; nelle promesse iniziali farlo spettava alla morte, ma noi siamo qui per tradire anche lei. Simona si è messa un vestito che non le avevo mai visto, io mi son fatto la barba, entrambi portiamo ancora le fedi. C’è della grazia bionda in lei, e una naturale gentilezza in me: il bene residuo che ci vogliamo oggi esplode nei nostri movimenti impacciati.

Solo il posto è tutto sbagliato. Qui niente è solenne, nulla è liturgico, tutto ci delude. È un tribunale, e noi ci aspettavamo parrucche ermellini toghe a frusciare gonfie al passaggio. Invece siamo stivati come paracadutisti in missione e qui il nostro calvario, un dolore che abbiamo schivato inflitto subìto e infine sfamato, si rivela nella sua infelice sostanza:

siamo nomi dopo cognomi
in calce a liste di vincoli
stampate su fogli
raccolti in faldoni
tenuti per mesi in armadi
allineati in stanzette
affacciate su gente giù in strada
che passa, e va, e ignora chi siamo.

Ritorniamo persone per un solo mattino, quello in cui arriviamo qui: noi salendo due rampe di scale fino a questo corridoio, il nostro dossier spinto in un carrello fino alla scrivania di un giudice dentro una stanza. Per mesi ci respingiamo, eppure convergiamo, inconsapevolmente geometrici, verso uno stesso punto del mondo e del tempo. Finché infine eccolo, arriva, è qui e oggi: è adesso. Usciti dal tribunale inizieremo a collocare gli oggetti e gli eventi in un prima o in un dopo. Ne saremo capaci, ci verrà naturale, e saperlo ci fa sentire bruttissimi.

Così intanto aspettiamo, e mentre parliamo tacciamo facciamo finta di niente, sappiamo bene che dentro ci gratta lo stesso pensiero: io e te siamo arrivati qui insieme e insieme da qui ce ne andremo, per non stare insieme mai più.

 

foto per il gioved 01

 

Cultrera, il figlio praticante del mio avvocato Cultrera, sospende la sua telefonata e Siamo i prossimi, dice. Il legale di Simona controlla su un foglio che penzola appeso a un cordino, e conferma. L’ultima cosa che ricordo nitida chiara è il numero della stanza, ventuno, come la canzone di Celentano, poi -una volta dentro- i miei ricordi si offuscano. Ma non è perché questa scena si è svolta cinque anni fa; è perché io sono La Rimozione. Del resto, non ci saranno sorprese: tutto è già stato discusso preteso ceduto limato trascritto spedito in raccomandata decine e decine di volte. Qui si viene solo per la ratifica, per le firme di pugno sotto la parola Fallimento non scritta.

Ci chiamano, entriamo. Seduto dietro una scrivania troppo piccola, il giudice sembra il preside di una scuola serale. Legge la sentenza e dice e ridice “il minore”, e ogni singola volta io dentro la testa correggo: Giacomo. Sbaglia il mio nome in tutte e quattro le pagine.

Poi il figlio praticante del mio avvocato Cultrera mi tocca una spalla e mi porge la penna: nel prenderla, mi guardo la mano e vedo che è la mano di un vecchio. Gli ultimi sei mesi mi hanno curvato piegato spezzato, ma sono stati anche gli ultimi dell’unica vita che conoscevo, così ne ho succhiato ferocemente il midollo senza curarmi delle schegge che poppando staccavo dall’osso. Ho fatto tutti gli errori che potevo fare, anche quelli che lasciano i segni sul corpo. Il poco che sto per accettare è il massimo che posso ottenere.

Firmo stretto sulla linea sempre troppo corta per il mio cognome tedesco: è una resa senza onore. Starò con Giacomo a weekend alternati e un giorno a settimana. Improvvisamente, mi sembra un tempo oscenamente piccolo.

Mentre Simona firma, inizio a sudare. Respiro male, poi peggio. Per salvarmi dal panico cerco un particolare su cui concentrarmi, e lo trovo: la visita infrasettimanale è fissata di giovedì. Ripenso a Il Giovedì, un vecchio film con Walter Chiari, visto tante volte alla tv seduto accanto a mio padre, io e lui ignari borghesi bovini nella bolla quieta della nostra famiglia unita anni settanta. Il Giovedì: cerco di ricordarmi se fosse un bel film, ma rivedo solo Chiari padre separato che arranca sbruffone e patetico per mano al suo figliolo ben educato. Il meccano, la spiaggia, le castagnole. Uso il ricordo come una leva, e funziona. Inspiro, espiro, e alla fine sorrido. Quando il panico è andato, ridimentico tutto.

Io ancora non lo so, ma quella è una premonizione. In quel momento, in quella stanza, io non lo immagino proprio -come invece so oggi- che il giovedì diventerà Il Giorno. Più che nei weekend alternati, troppo distanziati troppo privi di normalità troppo pieni di nonni tra i piedi, sarà proprio un giovedì dopo l’altro che diventerò padre del mio figliolo ben educato.

Poi firma anche il giudice ed è fatta: ora lo sposo può abbandonare la sposa. Applauso. Avanti altri due. Dài andiamo, mi dice Simona; e usciamo. Mentre scende le scale le si gonfia il vestito, spinto da dietro dal vento come fa con la vela. Salutiamo i legali, già retrocessi al rango di estranei. Ci sentiamo, mi dice; Ci sentiamo, le dico. Così andiamo a casa, ognuno alla sua.

Simona sale su un taxi, libera e bionda. Io, nel sole davanti al tribunale, tra i tram gli autobus i troppi avvocati con le maniche corte sotto le giacche di lino, penso che oggi è venerdì e rivedrò Giacomo tra sei giorni infiniti e sotto il cielo così bianco che sembra un coperchio il mio marmo si crepa si rompe e libero e biondo finalmente anch’io

 

piango.

 

 

 



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