Brexit e pesca: il tema che non ti aspetti

di

14 Dicembre 2020

Gli accordi tra Gran Bretagna e Ue, tra diplomazia, tattica e futuro

Il conto alla rovescia, ormai, volge al termine. Mancano pochi giorni, poi sarà divorzio. Quello che rimane da capire – e non è poca cosa – è se sarà consensuale o senza un accordo. Ed è molto diverso.

Il 31 dicembre 2020 (anche se ieri, 13 dicembre, si è rinviata la chiusura delle trattative per ora non ci sono grandi speranze) la Gran Bretagna chiuderà i vecchi rapporti e i vecchi accordi con l’Unione Europea, come noto, ma sono diversi i dossier sul tavolo dei negoziatori. Non è una sorpresa, la Brexit è stata un terremoto e non era scontato, semmai auspicabile, una separazione consensuale e regolata.

Un tema che, tra gli altri, divide Londra da Bruxelles, è quello della pesca. E non era scontato, per molti, che un settore che non gode quasi mai delle prime pagine dei grandi magazine economici diventasse così importante negli equilibri degli accordi che dal 2021 dovranno regolare le relazioni tra i paesi Ue e la Gran Bretagna. Ma è così.

Per capirci: oramai la pesca rappresenta solo lo 0,1 % del PIL britannico, con poco meno di 12mila persone che lavorano nel settore, eppure è diventato uno scoglio ingombrante per i negoziatori. Perché?

Il pomo (anzi il mare) della discordia è il ricco mare dell’Atlantico del Nord, fino ad oggi condiviso, ma che dopo il 31 dicembre 2020 diventerà un problema. Si è cercata un’intesa fin dal principio, ma l’obiettivo di trovare un accordo entro il 1° luglio scorso è naufragato.

La trattativa ruota attorno alla possibilità, per le imbarcazioni degli altri Paesi europei, di andare a pescare nelle ricche acque britanniche – dove in anni di gravi conseguenze sul pescato degli effetti del cambiamento climatico – si contano ancora oltre cento specie che fanno gola ai pescherecci di Danimarca, Irlanda, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Francia.

Dall’inizio degli Anni Settanta la gestione delle risorse ittiche è competenza esclusiva europea. Le acque oltre le 12 miglia dalla costa sono trattate come condivise: oltre a essere garantito il libero l’accesso, vengono anche fissati annualmente dai ministri degli stati membri Ue le quote di pesca per ciascuna specie, che vengono poi ripartire in quote ‘nazionali’.

Secondo dati del governo britannico, il 35% del pescato delle imbarcazioni dei paesi Ue proverrebbe dalle acque britanniche, mentre appena il 13% del pesce farebbe la rotta inversa, da acque di altri Stati Ue verso le banchine della Gran Bretagna.

La pesca, pur rappresentando una voce molto relative delle casse di Sua Maestà come detto, non a caso è stato un cavallo di battaglia dei pro-Brexit durante le dure campagne che hanno portato al referendum del 2016. “Riprendiamoci la sovranità sulle nostre acque!”, ululava Nigel Farage che, addirittura, alla testa di una surreale flottiglia percorse il Tamigi, rivendicando il ritorno al passato glorioso per le comunità costiere e i pescatori britannici, vittime a suo dire di un declino portato dall’Europa.

La reazione, che raccontava degli oggettivi benefici della politica comune della pesca (PCP) per la Gran Bretagna (la cui flotta era tra il secondo e il terzo posto per pescato nelle classifiche Ue), non ebbero la stessa forza. E la propaganda serviva a fare della pesca (d’interesse reale relativo) un dossier spinoso per gli europei. Un ricatto, insomma.

“Noi vogliamo mantenere l’accesso alle acque britanniche per i nostri pescatori come il Regno Unito vuole continuare ad avere accesso al mercato Ue”, ha dichiarato in merito il presidente del Consiglio europeo Charles Michel.

Non sono mancate, in questi mesi roventi, i colpi di teatro. Il Belgio è arrivato a citare il Privilegie der Visscherie, accordo del 1666, con cui l’allora sovrano d’Inghilterra Carlo II Stuart garantì a 50 pescatori di Bruges (nelle Fiandre allora sotto controllo spagnolo) accesso eterno alle acque britanniche, per ringraziarli dell’ospitalità durante l’esilio.

Anche nell’Ue, però, c’è chi mette i bastoni tra le ruote dell’accordo. Nello specifico, la Francia, che invece vedono nelle acque – e nel pescato – britanniche un asset fondamentale. I pescatori francesi, catturano almeno un quarto del totale nazionale in questo quadrante di Atlantico del Nord .

Il presidente francese Emmanuel Macron ha ripetuto più volte che “non saranno i pescatori di Bretagna e Normandia a pagare il conto della Brexit”.

Che accade senza accordo? La Gran Bretagna tornerebbe ad avere il controllo totale sulla propria zona economica esclusiva di 200 miglia nautiche, con la possibilità di “cacciare” indietro i pescatori europei verso le rispettive coste, guadagnando un pescato che al momento non sembrerebbe in grado di gestire e considerando che dovrebbe anche commercializzarlo, ma quel punto è sicuro che ‘sbatterebbe’ sui dazi Ue.

L’80% del pescato britannico – incluso il florido settore dell’allevamento (in testa a tutti il salmone scozzese) – è infatti esportato verso i paesi Ue. Merluzzi, sgombri e aringhe che finirebbero per attendere i controlli doganali (e magari nel frattempo marcire) sulle banchine dei porti.

Il 9 dicembre scorso la cena a Bruxelles tra il primo ministro britannico Boris Johnson e la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen non ha dato i frutti sperati, tanto che la von der Leyen ha detto che l’Ue si prepara a gestire l’emergenza di un mancato accordo prima del 31 dicembre 2020. S’intende una sorta di ‘gestione temporanea’ per le pratiche più critiche, compresa la pesca. Dovrebbe essere, ma per ora senza certezze, una sorta di regime di gestione transitorio, tra la fine del 2020 e la fine del 2021.

Questo non tranquillizza i pescatori scozzesi e dell’Irlanda del Nord. Un’associazione di categoria ha parlato della ‘tempesta perfetta’ tra Covid e Brexit. Anche perché gran parte della redditività del pescato – in particolare adesso con il crollo di acquisti da ristoranti e alberghi – è legata alla velocità di consegna, che se subentrassero delle nuove procedura di ‘frontiera’ tra Ue e Gran Bretagna, rischiano di diventare lunghe e complesse, trattandosi di alimenti.

Quello che è sicuro, però, è che questa vicenda ha riportato in bella evidenza il settore ittico, una pratica socio-economica-culturale che ha disegnato gli orizzonti di popoli e nazioni, per secoli, della quale si è un po’ persa la portata, che come tutti i processi economici contemporanei, è allo stesso tempo locale e globale. E della quale è tempo di occuparsi di più, sia per il numero di persone ancora coinvolte, che per gli aspetti della globalizzazione selvaggia che racconta, che per il suo potenziale di osservatorio privilegiato sul cambiamento climatico.